Quando alla CEI scoppiarono dal ridere

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Si stava tenendo la cinquantottesima assemblea della conferenza episcopale italiana alla quale partecipavano oltre trecento prelati di varia dignità vescovile. Per chi oggi non lo sapesse o non lo ricordasse, il consesso episcopale era alla guida della religione di stato, e per quanto possibile, ambiva alla guida dello stato medesimo, secondo le illuminate indicazioni del Santo Padre.
Fino ad allora, e dunque per cinquantasette assemblee pari a cinquantasette anni, era stata consuetudine che il convegno si tenesse in modo ordinato. Ogni argomento veniva approfondito e discusso pacatamente, secondo le regole della buona creanza, in piena armonia d’intenti e d’impegno tra i partecipanti.
Le battute maliziose o spiritose, anche a carico degli avversari, erano bandite e mai alcunché era stato pretesto o motivo d’ironia o, peggio, d’ilarità. Al di fuori del grande palazzo in cui si dibatteva su temi delicatissimi come la fede, la società, i rapporti tra la Chiesa e lo Stato non era mai filtrato il minimo rumore, fosse pure un applauso. Alla fine delle sedute i convenuti uscivano seri e contegnosi, parlavano tra loro a bassa voce, si salutavano con grande sobrietà e si allontanavano con un lieve fruscio delle tonache quando non indossavano il clergyman.
Ma quella volta il loro comportamento cambiò in modo stupefacente e inatteso, quasi che fossero stati sotto l’effetto di un incantamento o di un allucinogeno. Il prodigioso mutamento si manifestò al termine della prima giornata dei lavori, durò un paio d’ore e non si ripeté mai, neppure nelle assemblee degli anni successivi. Stranamente non fu ripreso da alcun giornale ne’ programma televisivo; le uniche notizie che circolarono furono i racconti di qualche passante meno frettoloso che vi aveva assistito. Insomma, l’evento è giunto fino a noi per tradizione orale.
Essa racconta che già durante i lavori si erano udite risate e schiamazzi provenienti dall’interno del palazzo. Poi, terminati i lavori, vescovi, arcivescovi, cardinali, abati, uscirono tutti arrossati in volto e in evidente stato di euforia, come se avessero passato il tempo a raccontarsi barzellette ed ora se le ricordassero reciprocamente.
Nascevano e si scioglievano capannelli, senza distinzione d’età o di gerarchia: vescovi ordinari con arcivescovi prelati emeriti, abati con cardinali, vescovi ausiliari con arcivescovi, tutti in preda alla più sfrenata allegria; qualcuno, dal gran ridere, si asciugava gli occhi con lo zucchetto o con il fondo della tonaca, senza alcuna preoccupazione per la dignità.
Ogni volta che il tripudio si affievoliva bastava che qualcuno pronunciasse il nome "D’Alema" per riattizzarlo come la miccia di un fuoco d’artificio. Tra una risata e l’altra si sentivano espressioni quali: "ma se D’Alema ha detto così è proprio un semplicione", "cercare un rinnovato patto di potenza? Ma non sa che quello vecchio funziona ancora benissimo?", "La Chiesa, cedere alla tentazione di potere? Ma se di potere ne abbiamo da vendere", "A D’alè, ridillo che ce fai ride…",e ancora risate e sberleffi.
D’Alema era un personaggio che oggi pochi ricordano ma che, all’epoca, era ritenuto capace di ogni astuzia per nuocere agli avversari del momento. Il giorno prima che si aprisse la grande assemblea episcopale aveva accusato pubblicamente la Chiesa di voler rinnovare un patto di potenza con le forze al governo e di cedere alla tentazione del potere e al fondamentalismo religioso.
I maligni, coloro ai quali D’Alema non piaceva troppo insinuarono che accuse così scontate e banali, provenienti da un uomo ritenuto astutissimo, avessero scatenato il senso del comico nei dignitari ecclesiastici, tanto da causare il loro prodigioso cambiamento. Ma nessun studioso ha mai potuto provarlo.

(31 maggio 2008)



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