Quando fu chiamato a scegliere tra l’Espresso e l’Avvocato
di Bernardo Valli, da Repubblica
Era una delle sue ultime stagioni, ma l’Avvocato sembrava in ottima forma. Nessun segno apparente della malattia che l’avrebbe ucciso. Era una tarda sera d’estate, e sull’altana affacciata sui tetti di Trastevere, in casa di Carlo Caracciolo, Gianni Agnelli esprimeva giudizi sugli uomini politici al potere in quel momento. Ero la sola persona presente, oltre ai due cognati, e non dovevo essere un testimone scomodo, ingombrante, poiché l’Avvocato si esprimeva con grande libertà. I suoi toni erano schietti. Dava voti non troppo indulgenti ai ministri, senza risparmiare, come senatore a vita, i presidenti delle due Camere.
Neppure i membri dell’opposizione sfuggivano alle critiche. Le sentenze erano dettate più da criteri estetici che da altre più profonde valutazioni. Un portamento goffo, un abbigliamento troppo leccato, un linguaggio inelegante potevano motivare condanne senza appello. Il discorso era tuttavia leggero. Prevaleva l’ironia, con qualche punta di sarcasmo. Una severità solenne sarebbe stata disdicevole, inopportuna, in quella notte romana. Né si addiceva ai due personaggi.
Carlo Caracciolo ascoltava divertito. Era come se assistesse al monologo di un attore per il quale nutriva un pregiudizio favorevole ma non al punto da condividerne le idee. Del discorso di Gianni Agnelli gli andava la forma non il significato. Ogni tanto scuoteva la testa. Non era d’accordo. Il più delle volte non lo era. E il suo dissenso, manifestato con battute garbate ma inequivocabili, non dispiaceva a Gianni Agnelli. Carlo non ha mai detto: "Questa è una cazzata". Ma era chiaro che ogni tanto lo pensava. Era altrettanto chiaro che Agnelli era consapevole dei giudizi negativi del cognato. E penso che non ne fosse contrariato.
Erano la prova di un rapporto autentico. Anche in quella non impegnativa circostanza traspariva la natura dell’amicizia tra i due. Due personaggi legati non solo da un intreccio familiare, ma anche da una vecchia complicità giovanile. E al tempo stesso due personaggi ben distinti uno dall’altro.
Da un lato il conservatore, troppo intelligente, spesso troppo dominato dal senso estetico, e prigioniero della propria immagine pubblica di grande industriale illuminato, per manifestare apertamente le intime convinzioni; dall’altro un liberal nel senso autentico della parola, che non faceva "troppo suonare", come dice Molière, le idee progressiste che disegnavano la sua immagine e la sua attività di editore. Uno era l’erede di una grande fortuna borghese che ne aveva fatto un principe di fatto; l’altro era un principe vero, discendente da un casato ricco di secoli ma senza più fortuna materiale, che aveva costruito da solo una carriera e aveva coltivato la fama dell’aristocratico "rosso".
È difficile dire quanto questa diversità abbia pesato, intimamente, nel corso degli anni, sui loro rapporti. Li avevano probabilmente influenzati, corretti, gli importanti mutamenti intervenuti nella vita di entrambi. Dopo essere stato a lungo un playboy, Agnelli era diventato un sovrano senza corona in patria e un personaggio internazionale; mentre Caracciolo, partito con il solo patrimonio dell’intelligenza e dell’ambizione, assecondate da un tratto maschile che non mancava certo di seduzione, era diventato un editore di successo. La posizione politica di Carlo non era certo condivisa, ma forse (esteticamente) invidiata, dal potente amico che vi poteva vedere la prova di una libertà a lui non consentita. A rafforzare il loro rapporto, al di là delle diverse condizioni e convinzioni, hanno senz’altro contribuito i drammi familiari di Gianni Agnelli. Drammi che hanno colpito in egual misura Marella, moglie di Gianni e sorella di Carlo, quindi lo stesso Carlo. Zio di Edoardo, il figlio suicida di Gianni e Marella.
Quella sera, sull’altana affacciata sui tetti di Trastevere, risaltava l’affinità dovuta alla comune "eleganza" (preferirei un’altra parola, ma non la trovo). Sembrava che la diversità animasse, non turbasse, la reciproca simpatia. Nell’"eleganza" includo anche la disponibilità di entrambi a frequentare persone di opposte idee, non solo per ovvii motivi di lavoro, ma anche sulla base dell’amicizia o per semplice curiosità. Oltre alla curiosità, su Agnelli agiva il desiderio di vincere la noia, e i cortigiani l’annoiavano. Caracciolo aveva meno vincoli, era più open minded. Gli amici più stretti (e i compagni di poker e di scacchi) dicevano scherzando che amava "incanaglirsi". Come capita a certi inglesi dell’alta società.
A farli incontrare, quando Gianni Agnelli non aveva ancora trent’anni (Carlo Caracciolo ne aveva quattro di meno), fu Giorgio Agnelli, fratello minore di Gianni. Carlo aveva conosciuto Giorgio in America. Giorgio era al college di Harvard e Carlo alla Law School. Più tardi, a Milano, Carlo presentò Giorgio ai suoi amici giornalisti sportivi (tra questi Giorgio Fattori), pensando che potesse diventare l’editore del periodico che stavano progettando senza avere i soldi per realizzarlo. Ci fu una riunione in una soffitta milanese, e fu subito evidente che Giorgio era un Agnelli debole. Morì del resto assai presto lasciando un malinconico, vago ricordo. Fu tuttavia per suo tramite che Carlo conobbe il futuro cognato. Non erano dei giovani sprovveduti. Entrambi, Gianni e Carlo, avevano appena vissuto gli anni di guerra: Gianni era stato ufficiale prima in Russia e in Tunisia, e poi nell’esercito del Sud, al seguito degli Alleati, dopo l’armistizio dell’8 settembre ’43, e Carlo era stato partigiano in Val d’Ossola.
Carlo ha raccontato (a Nello Ajello) come fosse stato subito impressionato "dall’enorme desiderio di piacere" del suo nuovo amico Gianni. Ed anche dalla sua "vivacità straripante, quasi pericolosa". Le risorse economiche inesauribili a sua disposizione e gli scarsi impegni (nel consiglio d’amministrazione della Fiat, in cui sedeva, Vittorio Valletta pensava a tutto), consentivano a Gianni Agnelli di vivere una gioventù che Carlo, invece impegnato a creare le basi economiche che non aveva, definiva ancora tanti anni dopo con un sorriso "spensierata".
In quel periodo spensierato la Costa Azzurra era la meta, anzi la residenza preferita di Gianni Agnelli. Ed egli invitava spesso Carlo, che viveva a Roma, a raggiungerlo a Torino per poi compiere incursioni alla ricerca di una spiaggia assolata o per partecipare a una festa. Gianni era meteoropatico. Così un giorno Carlo, dopo una telefonata di Gianni, va a Torino dove passa la notte e da dove parte con l’amico l’indomani all’alba, su un piccolo aereo, per la Costa Azzurra. Ma sulla Costa Azzurra è cattivo tempo. E allora Gianni ordina al pilota di andare a Malta, dove forse c’è il sole. Ma anche sull’isola piove. Nuovo cambiamento di rotta. Questa volta la destinazione è Roma. Dove Gianni trascina Carlo a fare un bagno nelle Acque Albule, vicino a Tivoli. "Lui ha sempre avuto una passione per le terme", ricorderà Carlo, mezzo secolo dopo, quando Gianni è ormai morto.
I due amici passano la notte a Roma, in casa Agnelli, in via XXIV maggio, di fronte al Quirinale. E l’indomani mattina, sempre all’alba, ripartono per Malta, dove il tempo dovrebbe essersi ristabilito. In un’altra occasione, sulla Costa Azzurra, afflitto dal cielo grigio Gianni annuncia a Carlo che è meglio spostarsi a Parigi. Carlo vestito da spiaggia, pantaloncini, maglietta, zoccoli, dice: "Come faccio?". Gianni lo pianta in asso. Se ne va da solo. Di quelle scorribande dei due amici sono rimaste delle tracce tra le coetanee, non solo italiane. Durante una non remota cena, a Parigi, una celebre attrice francese, da tempo non più nel fiore degli anni, ricordava al co
mmensale italiano suo vicino l’incontro con Carlo. E fino al dessert non smise di parlare del "jeune prince", conosciuto in gioventù.
È nel 1953 che Gianni Agnelli sposa Marella Caracciolo, amica di sua sorella Maria Sole, e sorella di Carlo. Il matrimonio viene celebrato a Strasburgo, dove il padre di Carlo e Marella, un diplomatico, è vicesegretario del Consiglio d’Europa. La madre americana della sposa non nasconde la perplessità all’idea che un famoso playboy entri in famiglia. Quando, anni dopo, Carlo Caracciolo è l’editore dell’Espresso la parentela con Gianni Agnelli fa nascere, più che il sospetto, la convinzione che il presidente della Fiat, non più spericolato playboy ma responsabile della maggior industria italiana, abbia legami (e quindi sia coinvolto politicamente) con il settimanale che non risparmia critiche al potere democristiano.
In realtà Agnelli non c’entra con l’Espresso. Il settimanale non fa parte dell’Editoriale finanziaria, di cui l’IFI, la finanziaria della famiglia Agnelli, ha il controllo, e di cui Carlo Caracciolo possiede personalmente un certo numero di azioni. Ma i dirigenti democristiani, dai quali dipendono i prezzi delle automobili e tante altre decisioni importanti, o addirittura determinanti, per l’attività della Fiat, fanno conoscere il loro malumore e agitano minacce. In un’intervista Gianni Agnelli osserva, polemico e ironico, che "i cognati non si scelgono". E a un politico democristiano, che insiste sull’argomento, chiede cosa debba fare per convincerlo che non ha rapporti, né finanziari né politici, con il settimanale del cognato: "Devo divorziare da mia moglie?".
Per smontare la faccenda, viene affacciata una soluzione. Caracciolo potrebbe cedere le sue azioni dell’Espresso a una persona gradita alla Democrazia Cristiana. In cambio gli verrebbe data la direzione della Bantam Books, una casa editrice newyorkese che all’epoca fa capo all’Ifi. L’offerta è allettante, lusinghiera. Ma Carlo la rifiuta. Vende le azioni dell’Editoriale finanziaria, rinunciando a far parte di un potente gruppo che controlla case editrici e giornali locali (ma non l’Espresso), per liberare il cognato da ogni sospetto di complicità. E resta all’Espresso. Alla domanda se tutto quel trambusto politico – finanziario ebbe qualche ripercussione sui rapporti con Gianni Agnelli, Carlo Caracciolo ha risposto: "Assolutamente nessuna, mi pare ovvio".
(16 dicembre 2008)
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