Quando la Socialdemocrazia tedesca tradì se stessa: Bad Godesberg e il ripudio della democrazia economica

Alessandro Somma



Nel 2019 ricorrono due importanti anniversari tondi che i tedeschi stanno celebrando con una certa enfasi: cento anni fa veniva promulgata la Costituzione di Weimar, la prima in Europa a parlare di diritti sociali e di democrazia economica, mentre settant’anni fa vedeva la luce la Costituzione di Bonn, l’unica nata dalla sconfitta del fascismo a non menzionare i diritti sociali e la democrazia economica.

Un altro anniversario tondo è stato invece tenuto un poco in sordina. Sessant’anni or sono il Partito socialdemocratico tedesco (Spd) varava il Programma di Bad Godesberg che formalizzava l’accettazione dell’economia di mercato e con ciò il ripudio della democrazia economica come suo orizzonte programmatico.

Democrazia economica

La democrazia economica è stata a lungo un cavallo di battaglia dei Socialdemocratici tedeschi, che coniarono l’espressione ai tempi della Repubblica di Weimar nell’ambito del movimento sindacale[1], per indicare una forma di risocializzazione dell’economia non ridotta alla mera richiesta di un primato della politica. Quel primato era per molti aspetti una realtà: all’epoca i Paesi capitalisti avevano in massima parte riconosciuto la pianificazione come ineludibile[2], motivo per cui occorreva impegnarsi per renderla un’attività frutto di decisioni partecipate. Di qui il primo fondamento della democrazia economica: l’individuazione attraverso il circuito democratico delle scelte produttive complessive e di lungo periodo (Gesamtwirtschaftsplan)[3].

Non si trattava di superare il capitalismo. La pianificazione comportava il coinvolgimento del Parlamento nelle scelte complessive circa il «cosa produrre», per realizzare l’interazione tra meccanismo concorrenziale e meccanismo democratico. Il «come produrre» restava invece ancorato ai fondamenti che contraddistinguono il capitalismo: esso «può e deve essere affidato all’economia di mercato, che presumibilmente si muoverà in modo sensato e proficuo fondandosi sulla libera concorrenza»[4].

Si prevedevano però due istituti destinati a democratizzare le scelte assunte a livello di singola unità produttiva: la codeterminazione (Mitbestimmung), ovvero la partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’impresa, e la socializzazione (Sozialisierung), per promuovere il coinvolgimento nei processi decisionali dei portatori di interessi coinvolti dall’esito di quel processo: dai consumatori ai cittadini in genere. Di qui la sottolineatura che la socializzazione era cosa ben diversa dalla statalizzazione (Verstaatlichung), ovvero dalla mera sostituzione della proprietà privata con la proprietà pubblica, quest’ultima incapace di contrastare «l’accumulazione» come finalità dell’attività produttiva e «l’autoritarismo nella gestione dell’impresa»[5].

Economia sociale di mercato

Alla conclusione del secondo conflitto mondiale in Germania era diffuso il convincimento che il crollo del nazismo avesse segnato la fine del capitalismo, e che la dittatura, se anche non poteva considerarsi una genuina espressione del capitalismo, di certo era in qualche modo implicata nel suo sviluppo[6]. Altrettanto diffusa era però la presa di distanze dall’esperimento sovietico e dalle sue deviazioni staliniane. Di qui ulteriori stimoli alla ricerca di una terza via tra il regime pubblico e il tradizionale regime privato dei mezzi di produzione, da porre al centro di un nuovo «socialismo democratico»[7].

Il tema della democrazia economica fu centrale nella riflessione socialdemocratica sulla terza via. Venne valorizzata dal programma varato a un anno dalla fine del conflitto mondiale, dove si precisa che il riproporsi di una soluzione fascista alla crisi del capitalismo non era impedito dal solo recupero delle libertà politiche: per salvare la società minacciata dallo «sfruttamento capitalista» occorreva realizzare anche la «liberazione economica della persona umana»[8].

Le idee socialdemocratiche ispirarono alcune Costituzioni regionali, e in particolare quella assiana del 1946, ma il clima politico sarebbe cambiato radicalmente nell’arco di poco tempo. L’opposizione delle forze di occupazione, in particolare statunitensi, indebolì il fronte dei fautori della democrazia economica, che comprendeva settori inizialmente maggioritari del Partito cristianodemocratico (Cdu): anche lì si auspicava l’avvento di un «socialismo economico su base democratica» comprendente forme di complessiva pianificazione e socializzazione dei mezzi di produzione[9].

Si giunge così alla Costituzione di Bonn del 1949, che pure contiene un sibillino riferimento alla socializzazione rimasto lettera morta (art. 15), e che tuttavia non parla di democrazia economica. L’ordoliberalismo aveva del resto prevalso, con la sua idea di affidare ai pubblici poteri il compito di imporre la concorrenza e di assecondare i soli comportamenti individuali che rappresentano reazioni automatiche agli stimoli del mercato[10]. Il tutto celato dietro l’impiego dell’espressione «economia sociale di mercato», appositamente coniata, oltretutto da un nazista della prima ora[11], per creare confusione attorno al riferimento alla socialità: non rinvia a una sorta di capitalismo dal volto umano, bensì indica il convincimento che l’economia di mercato in quanto tale è sociale, ovvero che l’inclusione sociale deve ridursi a inclusione nel mercato[12].

I Socialdemocratici finirono per accettare tutto ciò perché erroneamente convinti di poter affermare la loro visione con lo strumento della legge ordinaria una volta conquistata la guida del Paese. Il tutto stigmatizzato dai rappresentanti comunisti nel Consiglio parlamentare, l’assemblea che approvò la Costituzione di Bonn: ritennero che la mancata previsione dei diritti sociali fosse imputabile a un accordo tra Socialdemocratici e Cristianodemocratici, per cui i secondi avrebbero evitato di insistere sulle tematiche religiose in cambio di una desistenza sui diritti sociali: un accordo che avrebbe aperto la strada verso la costruzione di uno «Stato della reazione»[13].

Partito popolare

La prime elezioni libere furono vinte dai Cristianodemocratici, che poterono avviare la lunga serie di esecutivi presieduti prima da Konrad Adenauer (1949-1963) e poi da Ludwig Erhard (1963-1966). Nel mentre i Socialdemocratici si avviarono verso un superamento della loro impostazione tradizionale, tradottasi nella scelta di trasformarsi da partito dei lavoratori (Arbeiterpartei) a partito popolare (Volkspartei). Scelta che per i suoi critici segnò invece il passaggio da «partito delle riforme» a «partito di Stato», magari formalmente interessato a realizzare la democrazia economica, ma nei fatti impegnato a limitare fortemente la portata dei suoi principali istituti[14].

Il tutto venne formalizzato nel Programma di Bad Godesberg del 1959, dove in effetti
non si parla di democrazia economica: espressione sostituita da riferimenti alla democrazia tout court, combinati con affermazioni in cui confluiscono in modo confuso e contradditorio pezzi di tradizione socialdemocratica e pezzi del discorso ordoliberale.

La tradizione socialdemocratica affiora nella riproposizione del motto per cui «il socialismo si realizza solo attraverso la democrazia e la democrazia attraverso il socialismo», e nella precisazione che questo implica il «controllo pubblico» di ogni «potere», da porre alla base di «un nuovo ordine sociale ed economico». È invece decisamente in linea con la riflessione ordoliberale l’affermazione di principio per cui la politica economica deve assicurare la stabilità monetaria e la crescita costante della produttività, nell’ambito di un sistema di mercato concorrenziale finalmente liberato dal condizionamento delle concentrazioni di potere.

Riprende il tradizionale discorso socialdemocratico anche la riflessione sulla pianificazione economica, menzionata però più per limitarla che per promuoverla: si doveva realizzare «concorrenza nei limiti del possibile e pianificazione nei limiti del necessario». Manca però il raccordo con il tema della socializzazione, che cede il passo a una strategia incentrata per un verso sul potenziamento della piccola e media impresa «capace di essere concorrenziale», e per un altro sul ricorso all’impresa pubblica come strumento per far valere gli «interessi della collettività». Quest’ultima soluzione andava però adottata limitatamente ai casi in cui «prestazioni economicamente ragionevoli» possono essere fornite «solo escludendo la concorrenza».

Di matrice ordoliberale sono anche le soluzioni al problema per cui «l’economia di mercato non assicura in quanto tale una giusta redistribuzione del reddito». Certo, si invoca una politica di aumenti salariali, e tuttavia la si concepisce come strumento di inclusione nell’ordine proprietario: come modalità attraverso cui i lavoratori possono finalmente aspirare alla «formazione di capitale autonomo». Il che si combinava con l’enfasi posta sulla necessità di aumentare la ricchezza prodotta come presupposto per l’ampliamento delle prestazioni sociali, ovvero con l’individuazione dello Stato sociale, piuttosto che dei diritti sociali da far valere anche nel mercato, come perno attorno al quale sviluppare politiche redistributive in chiave emancipatoria.

Infine il Programma di Bad Godesberg mostrava una matrice ordoliberale persino nel momento in cui promuoveva la cogestione estesa alle «imprese in genere» e a «tutta l’economia». Dissociata dalla pianificazione e dalla socializzazione, la cogestione si rivelava infatti uno strumento di pacificazione sociale, di neutralizzazione del conflitto redistributivo. Tanto che in questa veste veniva avallata anche dall’ortodossia ordoliberale sulla base di motivazioni poi riprese dalla Corte costituzionale tedesca: la cogestione «non solo non pregiudica, ma favorisce la funzionalità dell’impresa», se non altro in quanto i lavoratori «possiedono un forte interesse a realizzare investimenti capaci di produrre stabilità e crescita come precondizione per la sicurezza del loro posto di lavoro»[15].

Grandi coalizioni

Per molti aspetti l’approvazione del Programma di Bad Godesberg ha rappresentato il prezzo da pagare per la partecipazione dei Socialdemocratici al governo del Paese, che si realizzò finalmente con la formazione della prima Grande coalizione tedesca tra il 1966 e il 1969: quella presieduta da Kurt Georg Kiesinger, Cancelliere dal passato nazista, come stigmatizzato anche in occasione di uno studio del Ministero dell’interno[16].

Quello non fu però l’unico prezzo pagato per accedere alla stanza dei bottoni. All’omaggio all’economia di mercato dovette aggiungersi l’appoggio a una riforma fortemente voluta dai Cristianodemocratici: l’inserimento nella Costituzione di Bonn della possibilità per l’esecutivo di decretare lo stato di eccezione, possibilità inizialmente esclusa per il ruolo che questa aveva avuto nella presa del potere da parte dei nazisti[17]. Tanto che fu all’epoca definita come «uno stupro del potere costituzionale del popolo».[18]

Se non altro la prima Grande coalizione introdusse una stagione di governi Socialdemocratici, che non recuperarono i riferimenti alla democrazia economica ma furono almeno capaci di ottennero notevoli successi elettorali. Le cose sono invece andate diversamente con le Grandi coalizioni succedute ai cancellierati dell’ultimo esecutivo presieduto da un socialdemocratico: quel Gerhard Schröder che contribuì in modo determinante alla «scomparsa della sinistra in Europa»[19]. Da allora è stato un crescendo di perdita di consensi, sino al misero 15,8% ottenuto alle ultime elezioni europee, senza che a qualche esponente socialdemocratico sia stato anche solo sfiorato dall’idea di recuperare la democrazia economica come sfondo valoriale per una rifondazione del partito. Il tutto mentre al più tardi la crisi del 2008 ha evidenziato la virulenza dei mercati autoregolati, autentica minaccia per la sopravvivenza delle società, che solo un governo democratico dell’ordine economico può contenere.

O meglio, a un esponente socialdemocratico è da ultimo venuto in mente di recuperare la democrazia economica. Kevin Kühnert, Presidente dei giovani socialdemocratici (Jusos), ha dichiarato nel corso di un’intervista che i potentati economici come la Bmw dovrebbero essere socializzati perché «la redistribuzione dei profitti deve essere controllata democraticamente»[20]. Ovviamente è stato attaccato dai Cristianodemocratici, ma anche i sui compagni di partito non sono stati da meno, come del resto la maggior parte dei commentatori politici.

Tra i pochi che hanno solidarizzato con Kühnert c’è chi ha ricordato che nella sigla Spd la prima lettera sta per socialdemocrazia, ovvero indica la volontà di procedere alla costruzione democratica del socialismo. Se davvero non si vuole più la socializzazione, un contributo fondamentale a quella costruzione, allora significa che «la Spd è degenerata in un Pd»[21]: una storia già vista…
NOTE

[1] Cfr. F. Naphtali (a cura di), Wirtschaftsdemokratie. Ihr Wesen, Weg und Ziel, Berlin, 1928.

[2] H. Peter, Wirtschaft für die Gemeinschaft, in Gewerkschaftliche Monatshefte, 1, 1950, p. 53.

[3] Th. Pütz, Der Gedanke der Planwirtschaft in der ökonomischen Diskussion der Gegenwart, in Europa-Archiv, 4, 1949, p. 2377 ss.

[4] A. Arndt, Planwirtschaft. Erwiderung auf den Aufsatz von Prof. Dr. Franz Böhm über Die Bedeutung der Wirtschaftsordnung für die politische Verfassung, in Süddeutsche Juristen-Zeitung, 1, 1946, p. 169 ss.

[5] K. Renner, Wege der Verwirklichung, Betrachtungen über politische Demokratie, Wirtschaftsdemokratie und Sozialismus, insbesondere über die Aufgaben der Genossenschaften und der Gewerkschaften (1929), Berlin, 1947, p. 23 s.

[6] Ad es. J. Kocka, 1945: Neubeginn oder Restauration?, in C. Stern e H.A. Winkler (a cura di), Wendepunkte deutscher Geschichte 1848-1990, 4. ed., Frankfurt M., 2009, p. 167 s.

[7] Cfr. H.P. Ehni, Sozialistische Neubauforderung und Proklamation des Dritten Weges, in Archiv für Sozialgeschichte, 13, 1973, part. p. 144 ss.

[8] Politische Leitsätze der Sozialdemokratischen Partei Deutschlands dell‘11 maggio 1946, www.cvce.eu/de/obj/politische_leitsatze_der_sozialdemokratischen_partei_deutschlands_hannover_11_mai_1946-de-b3e0168e-5bf6-4d31-8882-9a8e36671768.html.

[9] Politische Leitsätze der Christlich-Demokratischen Union del 15 settembre 1945, www.kas.de/c/document_library/get_file?uuid=835a1835-519c-41f3-2010-b67f7f376821&groupId=252038.

[10] F. Böhm, Die Ordnung der Wirtschaft als geschichtliche Aufgabe und rechtsschöpferische Leistung, Stuttgart, 1937, p. 51.

[11] Alfred Müller-Armack, su cui ad es. T. Grefe, Ein bisschen diktatorisch (14.8.2008), https://jungle.world/artikel/2008/33/ein-bisschen-diktatorisch.

[12] Diffusamente A. Somma, La dittatura dello spread. Germania, Europa e crisi del debito, Roma, 2014, part. p. 19 ss.

[13] Così Renner, nella seduta del 6 maggio 1949, in Parlamentarischer Rat – Stenographische Berichte über die Plenarsitzungen, Bonn 1949, p. 180.

[14] W.-D. Narr et al., SPD – Staatspartei oder Reformpartei?, München, 1976, part. p. 64 ss.

[15] Sentenza del 1. marzo 1979.

[16] Antwort der Bundesregierung auf die Große Anfrage der Abgeordneten Jan Korte, Sevim Dag˘delen, Ulla Jelpke, weiterer Abgeordneter und der Fraktion Die Linke – Drucksache 17/4126 – Umgang mit der NS-Vergangenheit, in Bundestagsdrucksache 17/8134 del 14 dicembre 2011, http://dipbt.bundestag.de/dip21/btd/17/081/1708134.pdf.

[17] H. Abosch, La Germania in movimento (1968), Bari, 1969, p. 158.

[18] Es geht so dunkel und trickreich. Analyse und Kritik der Notstandsgesetze, in Der Spiegel del 10 giugno 1968, p. 31.

[19] A. Barba e M. Pivetti, La scomparsa della sinistra in Europa, Reggio Emilia, 2016.

[20] Was heißt Sozialismus für Sie, Kevin Kühnert?, intervista di J. Bittner e T. Hildebrandt a Kewin Kühnert pubblicata nel settimanale die Zeit (1. maggio 2019), www.zeit.de/politik/deutschland/2019-05/kevin-kuehnert-spd-jugendorganisation-sozialismus.

[21] T. Högele, Kevin Kühnert ist der Einzige, der das S in Spd noch spürt (3 maggio 2019), https://ze.tt/kevin-kuehnert-ist-der-einzige-der-das-s-in-spd-noch-spuert-sozialismus-vergesslschaftung-enteignung.
(9 luglio 2019)


 



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