Quando l’arte è altrove

Mariasole Garacci

Costruire con una materia nuova, intangibile, per via di levare; sospendere e sottrarre il nostro tempo alla successione degli eventi e delle disordinate sollecitazioni mondane. Giorgio Andreotta Calò riempie lo spazio di assenza (la sua) e attesa (la nostra): l’azione e la trasformazione del corpo attraverso il processo continuativo del cammino sposta il limite della rappresentazione oltre i limiti della rappresentazione.

Giorgio Andreotta Calò è nato a Venezia nel 1979. Ha studiato scultura all’Accademia di Venezia ed alla KHB Kunsthochschule di Berlino, diplomandosi con un lavoro sull’opera di Gordon Matta-Clark. E’ stato uno degli artisti in residenza alla Rijksakademie di Amsterdam, città dove attualmente vive e lavora. I suoi interventi sono caratterizzati dalla labilità e dalla messa in discussione del mezzo materiale del messaggio estetico, utilizzando resti architettonici e cellule abitative effimere costruite da lui stesso, fino all’estrema rarefazione di esso attuata nel processo di acquisizione presso di sé della funzione di significante. E’ questo il caso di performance come Il Prodigioso Cristo di Limpias (cammino di 1600 km attraverso Francia, Spagna e Portogallo, nel 2008) e di Beirut-Tripoli (cammino di 98 km lungo la vecchia ferrovia costiera del Libano, nel 2007). L’intervento di Andreotta Calò nella mostra Illuminazioni è evocato attraverso loop audio nel Giardino Carlo Scarpa, ma si realizza altrove, è il cammino di 1200 km da Amsterdam a Venezia compiuto dall’artista in questa occasione. Il corpo dell’artista si concentra in un’universale e solitaria funzione, facendosi medium materiale dell’opera d’arte; il cammino – fisico, psicologico, morale – trova il punto di arrivo ideale nello “spettatore”, che dell’opera diventa il luogo.

Ritorno, il lavoro con cui hai partecipato alla Biennale, è una riflessione sul divenire spazio-temporale, una ricerca che sposta e rinnova i limiti materiali dell’opera d’arte facendo dell’artista stesso l’oggetto di un processo di trasformazione. Nella tua ricerca, il cammino è inteso, però, anche come “forma di impegno umano verso un corpo sociale”. Ciò può essere letto come una forma di vocazione politica in senso lato, intesa come un’assunzione di responsabilità da parte dell’artista nel suo intervento nella realtà?
La responsabilità di fronte alle proprie azioni riguarda tutti, indistintamente. La politica deve essere il riflesso di uno sguardo profondo verso la realtà. L’ arte in questo senso ha la capacità di trasfigurare la realtà gettando su di essa una visione inedita che abbia la forza di spingerci alla riflessione, alla presa di coscienza e al cambiamento. Così l’arte agisce politicamente, dal corpo individuale al corpo sociale. Il cammino è un gesto povero, semplice, "dimenticato". Nel suo utilizzo paradossale crea un cortocircuito nella percezione della realtà, in quel rapporto tra spazio e tempo che viene stravolto, o che ritorna semplicemente ad un’ umana proporzione. Attiva un processo di riflessione. Diventa un viaggio interiore, uno spostamento che è anche mentale. Fisico in avanti, mentale all’ indietro, a ritroso nella memoria. Ed il punto d’ arrivo, il tornare a casa, è ritornare a noi stessi.

Nella percezione del visitatore, nella mia percezione, Ritorno crea un paradosso: lo spazio del Giardino Carlo Scarpa, l’area che ospita il tuo intervento, è diventato il luogo di un’assenza pure riempita di un’attesa, l’attesa palpabile del tuo ritorno, e questa sensazione in qualche modo ti ha reso straordinariamente “presente”. Un paradosso che mi fa riflettere sul senso del termine nòstos (“ritorno”, appunto), e del sentimento affettuoso, umano, della nostalgia. E le idee di una presenza evocata e, per contro, di un’assenza fisica, mi hanno ricordato, per contrasto, la performance di Marina Abramović al MoMA, The Artist is present (14-31 maggio 2010). Cosa ne pensi?

Rivolgendosi ad uno spettatore, quel gesto voleva creare un ponte di collegamento tra due punti, colmando un vuoto creato da un’assenza. Il mio era un avvicinamento fisico, ma chiedevo al pubblico di compierlo mentalmente attraverso il processo immaginativo. Evocare il ritorno in quel giardino attraverso la voce, serviva ad attivare questo processo di avvicinamento tra le due parti, tra opera e pubblico, tra attore e spettatore. L’assenza era dunque indispensabile. Necessario compiere realmente quel viaggio a piedi. Necessario immaginarlo, trasfigurando la propria posizione di spettatore, la circostanza di trovarsi a Venezia, in quel momento, in quel giardino e proiettarsi lontano, al di fuori. Riguardo alla performance di Marina Abramovic, lei era fisicamente vicinissima allo spettatore, il suo silenzio invece creava un’ incolmabile distanza.

Pensando, ad esempio, al Padiglione USA e a quello egiziano – in cui era immediato il riferimento alla recente cronaca politica dei rispettivi stati – ritieni che i padiglioni nazionali valgano ad esprimere, in questa vetrina internazionale, l’identità di un paese, o un suo astratto Kunstwollen?
Vale appunto per gli esempi che hai citato, ma non tutti gli artisti sono interessati a riflettere su questa identità e rappresentarla. Nel caso della Spagna, per esempio, viene anzi dichiarato un senso di inadeguatezza a riguardo.

Avere trent’anni in Italia: una generazione che deve inventare il proprio futuro su basi inesistenti, poche e labili sicurezze. Come artista, come soggetto sociale, cosa pensi della nostra situazione? Quali sono i tuoi timori, le tue speranze, le tue critiche?
I miei trent’ anni li sto vivendo in Olanda dove lo stato sostiene economicamente la mia ricerca. Vivo qui per questo motivo, Non ci sono molte altre ragioni. Guardando all’ Italia ciò che mi pesa maggiormente è l’ eredità che mi sta lasciando sulle spalle chi in questo momento è al potere. Nessuno escluso. Una politica che si ostina a procedere in direzione opposta a quella indicata dall’ evolversi del presente, in una corsa con i paraocchi verso lo sfascio. La mia generazione è stata educata al rispetto, alla silenziosa reverenza, a restare in castigo in un angolino con la mano alzata aspettando che gli sia concesso di parlare, diventando così inconsapevolmente complice.

(5 settembre 2011)

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