Quantitative easing: un bilancio fallimentare
Enrico Grazzini
Quale è il bilancio finale del Quantitative Easing? Ha funzionato oppure no, nell’eurozona e in Italia? Il QE appena terminato è stato sufficiente per evitare una nuova crisi dell’eurozona? La risposta non può che essere negativa. Il programma di espansione monetaria lanciato dalla Banca Centrale Europea nel marzo 2015 e terminato alla fine di dicembre 2018 ha creato dal nulla moneta per ben 2600 miliardi di euro: una somma enorme, pari a circa il 20% del PIL dell’eurozona! Questa colossale liquidità è stata immessa a favore delle maggiori banche dell’area euro con l’obiettivo ufficiale di contrastare le tendenze deflazionistiche e produrre reflazione. Quale il risultato? Il QE ha temporaneamente salvato l’eurozona ma gli effetti del QE sono complessivamente molto deludenti. L’euro è sempre a rischio e l’eurozona potrebbe presto subire una nuova crisi. Nonostante il QE tutte le previsioni e tutti gli indici sono in netto peggioramento.
In effetti la BCE ha messo una enorme pezza solo per salvare le banche afflitte dal peso dei titoli tossici (comprati soprattutto dagli USA al tempo dei subprime e pari a 6800 miliardi, una somma astronomica concentrata per il 75% soprattutto negli istituti di Germania e Francia) e dei crediti deteriorati (900 miliardi); e per salvare gli stati in forte difficoltà di bilancio – Spagna, Portogallo, Irlanda, Italia – o in via di fallimento, come la Grecia. Tuttavia la banca centrale europea non è riuscita a centrare né l’obiettivo ufficiale del QE – inflazione stabilmente sotto, ma vicino al 2% – né l’obiettivo strategico: l’eurozona infatti è sempre in crisi e gli indicatori dell’economia sono ancora pericolosamente declinanti.
Del resto probabilmente la BCE non poteva fare molto meglio di quanto è riuscita a fare. La BCE è infatti una banca centrale dimezzata: a differenza di tutte le altre banche centrali, in base al suo Statuto deciso a Maastricht non può aiutare gli stati in difficoltà stampando moneta per monetizzare il loro debito pubblico. Non può intervenire neppure in caso di attacco speculativo. Non può intervenire neppure come prestatore di ultima istanza per quelle banche in forte crisi di liquidità. Inoltre ha come compito statutario principale quello di combattere l’inflazione, ma non quello di alimentare lo sviluppo e la piena occupazione. Quindi la BCE ha per statuto le mani legate, soprattutto se invece dell’inflazione deve combattere la deflazione con manovre espansive, come accade attualmente. Infine, come vedremo, c’è un altro problema: nei sistemi monetari moderni le banche centrali non hanno il potere di aumentare direttamente la quantità di moneta (e quindi la domanda e l’inflazione) che circola nell’economia reale. Questo potere è invece proprio delle banche commerciali.
In questo contesto, nel 2015, quando i prezzi nell’eurozona crescevano meno dell’1% e la deflazione rischiava di trasformarsi in depressione strutturale, la BCE di Draghi ha sfruttato intelligentemente il pretesto di riportare l’inflazione stabilmente intorno al 2%, con il fine (vero, ma non confessabile apertamente, perché fuori dalle sua competenze) di aiutare o salvare il settore bancario e i Paesi mediterranei grazie all’acquisto sul mercato cosiddetto secondario dei titoli di stato e di altri titoli. Per certi aspetti il QE si fonda su un trucco: facendo finta di rilanciare l’inflazione, l’obiettivo vero della BCE era di immettere denaro nelle riserve bancarie per incentivare i prestiti delle banche commerciali verso le imprese e le famiglie, cioè verso l’economia reale. Infine l’espansione monetaria comportava la svalutazione della moneta europea nei confronti del dollaro e delle altre valute mondiali di riserva.
La BCE stampando moneta per le banche e per gli stati più indebitati ha cercato di compensare la politica restrittiva d’austerità portata avanti dalla UE e da Berlino. Ma la stessa BCE di Draghi ha voluto comunque imporre ai Paesi dell’eurozona le micidiali “riforme strutturali” che, nella neo-lingua dell’Europa, significano: riduzione della spesa pubblica, smantellamento del welfare, deflazione salariale e flessibilità estrema del lavoro.
Tuttavia la BCE ha scelto una strada molto contorta e inefficace per alzare l’inflazione: infatti, come vedremo, stampare moneta e aumentare le riserve liquide delle banche non comporta per nulla aumentare il credito all’economia e quindi alimentare la domanda di beni e servizi e provocare l’inflazione. La BCE ha alimentato le riserve bancarie ma nei sistemi moderni in nessun caso la quantità di riserve liquide condiziona direttamente la capacità delle banche commerciali di prestare denaro all’economia reale. In effetti la banca centrale può solo incentivare le banche commerciali a prestare denaro aumentando le loro disponibilità liquide e lavorando sul costo del denaro; ma non può aumentare direttamente la liquidità nell’economia reale. Solo le banche, facendo credito e concedendo prestiti, possono creare moneta per l’economia reale e quindi alimentare l’inflazione . Purtroppo, nonostante il QE, le banche europee non hanno aumentato in maniera sufficiente i prestiti alle famiglie e alle imprese creando sviluppo – per non parlare delle banche italiane, che hanno addirittura diminuito i loro prestiti –: questo è il grande punto debole del QE.
La crescita delle riserve bancarie, attuata dalla BCE stampando moneta in cambio di titoli di stato e altri titoli, non comporta per nulla che le aziende e le famiglie chiedano prestiti, che la loro richiesta sia valutata solvibile e redditizia, e che venga accolta dalle banche, e che così il nuovo denaro fresco giunga all’economia reale. Aumentare le riserve bancarie, aumentare il credito bancario, e così incrementare l’inflazione sono tre processi diversi non necessariamente collegati. Le riserve liquide bancarie costituiscono solo una pre-condizione per concedere prestiti, ma se “il cavallo non beve”, ovvero se le imprese e le famiglie non vogliono indebitarsi ulteriormente per chiedere soldi alle banche, se le loro richieste di denaro non vengono valutate sufficientemente affidabili, e se le banche non concedono prestiti, allora l’inflazione e l’economia non ripartono.
L’unica maniera di contrastare immediatamente la deflazione e di scatenare l’aumento dei prezzi – e quindi fare ripartire l’economia – sarebbe quella di “mettere direttamente i soldi nelle tasche” delle famiglie, delle imprese e degli enti pubblici, in modo da aumentare il loro potere d’acquisto e la domanda aggregata. Come vedremo, la maniera più efficiente di fare ripartire la domanda e l’economia è ciò che in gergo si chiama “helicopter money”. Ma questa strada la BCE non ha potuto né voluto prenderla neppure in considerazione.
La BCE, per superare la contrarietà della Germania al QE, ha comprato dalle banche oltre 2.100 miliardi di titoli di stato suddividendo però gli acquisti tra i diversi Paesi in base alle quote di capitale in capo alle banche centrali dei Paesi stessi. La BCE fin dall’inizio non si è comportata perciò come come una vera banca centrale, ma come una qualsiasi società privata per azioni che deve attribuire perdite e profitti pro quota ai suoi azionisti: quindi ha acquistato Bund tedeschi (circa 515 miliardi a fine novembre), seguiti da OAT francesi (418 miliardi) e BTP italiani (363 miliardi)[2].
La Germania è stata così paradossalmente la principale beneficiaria della manovra: in
fatti con il QE l’euro si è svalutato rispetto al dollaro e così Berlino ha potuto migliorare ulteriormente il suo forte saldo commerciale extra-UE; inoltre, grazie ai forti acquisti dei Bund da parte della BCE, lo stato tedesco ha goduto di un rendimento negativo sui suoi titoli di debito e quindi ha potuto ridurre facilmente il suo debito pubblico che ormai sta scendendo velocemente sotto il 60% del PIL, come previsto da Maastricht. Germania a parte, che valutazione si può dare complessivamente del QE?
Gli spread sono diminuiti ma il rischio di deflazione è alto e l’economia non riparte
Secondo le ultime stime della BCE, l’inflazione è salita nel 2018 dell’1,8%, si abbasserà all’1,5% nel 2019 e all’1,6% nel 2020. Per il 2021 la previsione e’ all’1,7%. L’obiettivo della BCE di incrementare l’inflazione per portarla stabilmente sotto ma vicino al 2%, è quindi sostanzialmente mancato.
Ma 2,6 mila miliardi di euro non sono stati tutti spesi invano. Il primo effetto degli acquisti della BCE sul mercato cosiddetto secondario dei titoli di stato è stato di alzare i loro prezzi e quindi di ridurne drasticamente il rendimento. I rendimenti pagati dai governi sui bond di nuova emissione si sono azzerati o quasi. In Germania e Francia i titoli con durata inferiore ai 5 anni pagano attualmente rendimenti addirittura negativi. L’Italia pagava qualcosa come il 4,5-5% per i suoi BTP decennali, ma dopo l’avvio del QE è arrivata a pagare poco più dell’1%. Questo è stato il vero grande beneficio del QE.
Ma c’è anche un aspetto negativo: la forte diminuzione del rendimento dei titoli di stato ha spinto gli investitori a trasferire i propri investimenti sul mercato azionario. Gli acquisti di titoli pubblici sono serviti ad immettere liquidità che è andata a sostenere i corsi azionari, le operazioni speculative, i buy-back e le acquisizioni, determinando una forte crescita delle borse europee scollegata dall’economia reale. Un boom che però ha cominciato a sgonfiarsi negli ultimi mesi del 2018.
Se guardiamo all’economia reale, il QE non ha aumentato come ci si attendeva i crediti nell’Eurozona. Poco prima dell’avvio del QE, i prestiti a famiglie e imprese erano pari a 10.400 miliardi che, con il QE, sono diventati 11.100 miliardi. La crescita dei prestiti all’economia reale è stata complessivamente pari a circa 700 miliardi, cioè solo al 27% dell’espansione del bilancio BCE (2,6 triliardi). Per ogni 100 euro “creati” da Francoforte grazie al QE i prestiti all’economia reale sono aumentati di appena 27 euro. Il credito bancario è ripartito ma non ha supportato in maniera consistente l’aumento degli investimenti, dei consumi e infine del PIL dell’eurozona: non a caso la disoccupazione è rimasta su livelli elevati, pari a oltre l’8%.
La grande maggioranza dei denari creati dalla BCE è tornata alla BCE sotto forma di liquidità in eccesso detenuta dalle banche presso la BCE stessa. Le banche dell’area euro hanno depositato circa 1,8 triliardi come riserve in eccesso (oltre quelle obbligatorie) nelle casse della BCE rispetto ai 150 miliardi registrati prima del QE. Le banche hanno approfittato del QE per liberarsi degli assets a rischio (inclusi i titoli di stato di paesi “rischiosi” come l’Italia), per rendere più solidi i loro bilanci, e per migliorare il loro livello di liquidità immediatamente disponibile in caso di bisogno. Ma i principali problemi del sistema bancario dell’eurozona – titoli tossici e crediti deteriorati – sono tuttora irrisolti.
In questo contesto, nonostante l’aumento delle riserve bancarie, le banche hanno aumentato solo per una parte minore i prestiti all’economia reale dei beni e dei servizi, perché la domanda solvibile di prestiti era relativamente limitata e i rischi nel prestare denaro a imprese e famiglie sono invece elevati. Le banche hanno mantenuto in BCE la liquidità eccedente i requisiti regolamentari nonostante che da quattro anni la BCE abbia imposto sulle riserve di denaro depositate presso di lei tassi negativi al -0,4%, apparentemente per cercare di indirizzare la nuova moneta verso investimenti produttivi.
Questo livello molto elevato di liquidità deriva semplicemente dal fatto che la BCE ha creato moneta acquistando i titoli meno performanti e più rischiosi di cui si sono sbarazzati le banche. Ma le riserve sono una sorta di “fondo chiuso” che non serve praticamente per nulla alle banche commerciali per concedere prestiti: infatti le banche creano moneta dal nulla tutte le volte che concedono un prestito o uno scoperto bancario. Esse creano “denaro dal nulla” tutte le volte che concedono un prestito, contabilizzando dalla parte del passivo i soldi che offrono al cliente e dalla parte dell’attivo gli stessi soldi che hanno prestato e che il cliente deve loro con gli interessi[3].
Le banche commerciali non hanno quindi bisogno della moneta creata dalla banca centrale e depositata come riserva liquida per concedere prestiti – a parte la necessità di avere le banconote richieste dai loro clienti per le spese spicciole -. Solo dopo avere creato moneta concedendo un prestito, le banche hanno bisogno di avere riserve bancarie per rispondere alla eventuale successiva domanda di contanti e di moneta da parte dei loro clienti.
In nessun modo le riserve di una banca centrale entrano nelle tasche delle imprese e dei cittadini. In altre parole gli istituti centrali non hanno alcuna influenza diretta sulla creazione di moneta. In teoria infatti le banche commerciali possono emettere tutta la moneta che vogliono. In realtà questo non avviene perché la domanda di nuovi prestiti è limitata, e perché è limitata la capacità di restituirli con gli interessi. Le banche non vogliono correre dei rischi aumentando i prestiti ad una economia appesantita dai crediti deteriorati e dai debiti, e che stenta a decollare.
Comunque l’ammontare così elevato di riserve delle banche è anche un chiaro indice di profonda sfiducia sia verso l’economia reale che nei confronti dello stesso sistema bancario. Il problema è che le banche continuano a non fidarsi le une delle altre e mantengono liquidità elevata per non dovere ricorrere ai prestiti interbancari, che, in caso di crisi (e di crisi di fiducia), possono comportare costi molto elevati o possono addirittura non venire più concessi.
Questa eccedenza di liquidità ha comportato comunque indirettamente anche un effetto benefico: infatti la progressiva riduzione dei tassi del mercato monetario ha comportato anche la diminuzione del costo dei prestiti bancari a favore del settore privato non finanziario.
L’helicopter money della BCE a favore delle multinazionali
Un aspetto poco focalizzato, ma che potrebbe destare sorpresa e scandalo, è stato l’helicopter money – così si chiama in gergo il denaro piovuto dal cielo – condotto dalla BCE a favore delle grandi imprese multinazionali europee. Si tratta di un aspetto particolarmente critico considerando che l’aiuto alle imprese maggiori dei paesi dell’eurozona difficilmente può essere spiegato nella prospettiva ufficialmente dichiarata di aumentare l’inflazione. Perché allora aiutare i giganti europei, che certamente sono già in grado di avere praticamente tutto il credito che vogliono dalle banche?
Sono poco più di 178 i miliardi i titoli societari comprati dalla BCE[4]. Nel bilancio della BCE erano registrate 1.212 obbligazioni emesse da 255 diverse società europee, in prevalenza francesi (30%), seguite dalle tedesche (25%), dalle italiane (12%),
e dalle spagnole (10%). L’elenco delle società beneficiarie non è ufficialmente noto, ma la BCE ha comprato 125 titoli di 24 società italiane, e i giornali hanno riportato tra le possibili assegnatarie tra le quali Atlantia, A2A a ENEL, ENI, Telecom Italia, Terna, Hera, Snam, Acea, Iren, Autostrade, Italgas, 2i Rete Gas, ADR Aeroporti di Roma, Ferrovie dello Stato, Beni stabili, Exor, CNH[5].
Il problema è che molti di questi corporate bond non godono attualmente di buona valutazione, considerando che il 44% ha un rating inferiore a Bbb+ e alcuni di questi sono diventati junk, cioè “spazzatura”, e in teoria non potrebbero più venire comprati da Francoforte[6]. Resta da spiegare il motivo di questi aiuti alle maggiori imprese europee.
L’alternativa possibile: l’helicopter money per il popolo e le attività produttive
Un’altra manovra poteva essere fatta, assai più efficace e più giusta, anche se più innovativa e radicale. La BCE invece di fare helicopter money per le banche e per le maggiori società dell’eurozona poteva creare moneta direttamente a favore delle famiglie, delle piccole e medie imprese e degli enti pubblici (anche se sappiamo che l’articolo 63 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea impedisce alla BCE di finanziare gli stati membri dell’eurozona). In questo modo l’economia si sarebbe sicuramente e velocemente – per non dire subito – risollevata.
Basta fare due semplici calcoli: 2,6 triliardi distribuiti ai 340 milioni di abitanti dell’eurozona (neonati e ultraottantenni compresi) avrebbero comportato che ogni abitante poteva percepire oltre 7650 euro, cioè circa 160 euro al mese per i 46 mesi del QE. Ogni famiglia, considerando una media di 4 persone per famiglia, avrebbe ricevuto 640 euro in più al mese per poco meno di quattro anni. 640 euro in più al mese sono tanti!!! Se i soldi fossero stati assegnati direttamente alle famiglie, alle imprese e agli stati per gli investimenti pubblici, invece che alle banche, la domanda aggregata (consumi, investimenti, spesa pubblica) e l’inflazione si sarebbero riprese subito e avrebbero trascinato immediatamente al rialzo la produzione e l’occupazione. Ma la BCE ha preferito ignorare anche solo la discussione su questa possibilità.
Obiettivo fallito per l’Italia
In Italia la BCE, attraverso la Banca d’Italia, ha comprato titoli di Stato italiani per 363 miliardi di euro, una somma più che doppia rispetto al deficit di bilancio degli anni 2015-2018, ammontato a soli 152 miliardi di euro[7]. La BCE, imputandoli al bilancio della Banca d’Italia, ha assorbito quindi il doppio delle emissioni nette di nuovo debito pubblico: un impegno assolutamente notevole che però ha prodotto risultati non altrettanto rilevanti.
Il vero risultato positivo è che lo spread è diminuito. Il QE ha ridotto di gran lunga il costo del debito pubblico nazionale. L’Italia ha risparmiato non meno di 15-20 miliardi all’anno. Denari che sono stati impiegati per erogare beni e servizi e anche per contenere le nuove emissioni, ossia per tenere sotto controllo il deficit. Il problema del Tesoro italiano sono casomai i derivati, ma questo è un altro discorso rispetto al QE.
Invece è stato mancato l’obiettivo della crescita dei prezzi al consumo: il deflatore dei consumi privati è stato dell’1,1% nel 2015, dovrebbe attestarsi alla medesima percentuale nel 2018, mentre per il 2019, il 2020 e 2021 si prevede (troppo ottimisticamente) rispettivamente 1,4% 2,2% e 1,6%[8]. L’Italia resta in una condizione di deflazione strutturale, derivata dalla carenza di domanda domestica e dal modello economico mercantilista basato sull’export e sui bassi salari.
Il problema è che l’acquisto dei titoli del debito pubblico con il QE è stato effettuato sul mercato secondario e su piazze finanziarie estere, e quindi non poteva raggiungere realmente l’obiettivo di aumentare la liquidità interna, il credito bancario nazionale e l’economia reale dell’Italia.
Non a caso, secondo i dati del Monthly Outlook dell’Abi, il credito bancario erogato alle società non finanziarie e alle famiglie non solo non è aumentato con il QE ma è anzi diminuito: è passato dai 1420 miliardi del marzo 2015 ai 1329 miliardi del dicembre scorso, con un saldo negativo di 91 miliardi, pari a circa il 5% del PIL.
In passato, quando la Banca d’Italia acquistava l’inoptato dal mercato alle aste del debito pubblico, il meccanismo di trasmissione monetaria era diretto: si estinguevano con nuovi contanti i mandati di pagamento dello Stato attraverso le filiali della Tesoreria provinciale. Inoltre (come fa attualmente la Fed) si retrocedevano al bilancio dello Stato gli interessi percepiti su quei titoli, al netto delle spese e delle commissioni d’uso. La nuova moneta entrava direttamente nel circuito economico attraverso il sistema dei pagamenti pubblici, e non attraverso il sistema bancario[9].
Invece, con il QE, i titoli di Stato sono stati iscritti nel bilancio della Banca d’Italia. Il problema è che le operazioni di negoziazione sono state effettuate a Francoforte, e le banche che hanno venduto i titoli italiani in cambio di liquidità se la sono vista accreditare da parte della Bundesbank. Quindi la Bundesbank mel suo bilancio ha registrato all’attivo i titoli di Stato italiano incamerati. Successivamente, ha girato i titoli alla Banca d’Italia, iscrivendo un credito verso la stessa Bankitalia. Questa è divenuta così debitrice di Bundesbank e creditrice dello Stato italiano, peggiorando il saldo del sistema dei pagamenti Target 2. Con questo sistema è però oggettivamente molto difficile che l’immissione di liquidità avvenuta a Francoforte producesse un aumento dell’inflazione dei prezzi al consumo pari al 2%.
In termini quantitativi, le banche italiane, nel dicembre 2018 detenevano titoli di stato per 395 miliardi, mentre erano 387 miliardi nel 2015. Questi dati confermano che il sistema bancario italiano non ha venduto i i titoli di stato per ottenere nuova liquidità: le banche italiane hanno preferito tenere in portafoglio i titoli pubblici che consentono di incassare interessi e non consumano capitale di vigilanza. Senza però concedere credito all’economia reale. In questa situazione sarebbe probabilmente opportuno creare una banca pubblica di sviluppo.
In conclusione, a parte l’effetto positivo sullo spread e sulla diminuzione degli interessi pagati dallo stato italiano, il QE non ha avuto alcun effetto significativo in Italia, né in termini di aumento del credito bancario a favore dell’economia reale né per l’incremento del livello dei prezzi al consumo. Con il sostanziale blocco dei crediti, con il bilancio pubblico recessivo per via dell’avanzo primario e senza investimenti netti, in Italia tutto l’aggiustamento si è fondato prevalentemente sull’abbattimento del tenore di vita.
Conclusione
Si prevede un deciso rallentamento della crescita nell’Eurozona: nel 2019 la stima di crescita è tagliata all’1,5%. Per il 2020 la crescita del PIL sarebbe pari l’1,5%, per il 2021 all’1,4% . La crescita rallenta ma le pur caute previsioni non tengono conto del possibile precipitare di crisi a livello internazionale, a causa dello scontro commerciale tra gli USA di Trump e la Cina di Xi Jinping, a causa della Brexit, della frenata cinese, delle prossime contrastate elezioni del Parlamento europeo, ecc, ecc. Le incognite sono mol
te e lo scenario incerto e minaccioso. La BCE ha “salvato l’euro” ma non è detto che riuscirà ancora a salvare nel futuro la moneta unica e i Paesi europei. L’eurozona è infatti ancora nel tunnel: l’economia non cresce abbastanza, il rischio di recessione persiste, e il rischio di rottura dell’euro – la moneta senza stato – è sempre attuale. Non a caso la diarchia franco-tedesca sta tentando di prendere le contromisure rispetto alla prevedibile prossima crisi: il recente accordo di Aquisgrana tra il premier tedesco Merkel e il presidente francese Macron va forse interpretato anche in questo senso.
Per sistemare l’eurozona occorrerebbero delle riforme sostanziali, delle modifiche ai trattati europei, a partire da quello di Maastricht. Ma è difficile, per non dire impossibile, che tali riforme vengano attuate, che le politiche di austerità vengano rovesciate, e che la “moneta incompiuta” possa in futuro completarsi sul piano fiscale e politico. È escluso che Germania e Francia, due nazioni storicamente sovraniste, metteranno mai i loro bilanci in comune con gli altri paesi dell’eurozona nel nome dell’unità europea.
È da escludersi anche che, quando verrà nominato il successore di Mario Draghi che scade a ottobre, questi farà – come sarebbe necessario – politiche di helicopter money a favore dei principali attori dell’economia reale, famiglie, enti pubblici e piccole e medie imprese. Quindi – QE o non QE – l’euro rimarrà una moneta incompleta, una moneta strutturalmente fragile di fronte ai venti della crisi. Che, secondo le previsioni attuali, è imminente.
L’Italia rimane il paese più problematico perché il suo PIL non cresce abbastanza per compensare la rapida crescita del debito pubblico. In questo scenario l’unica via di uscita concretamente possibile dovrebbe essere percorsa dai decisori politici senza attendersi soluzioni miracolose da parte dell’Europa, ma fidando delle autonome capacità nazionali: si tratta (pur restando nel quadro delle regole dell’eurozona) di recuperare forme legittime e legali di sovranità monetaria grazie all’emissione di Titoli di Sconto Fiscale a scadenza differita (tre anni), immediatamente convertibili in euro, investment grade e quindi promossi dalla BCE e dal sistema bancario[10]. Ma questa è una soluzione che merita un approfondimento a parte.
NOTE
[1] Bank of England “Money creation in the modern economy”, Quarterly Bulletin 2014 Q1, By Michael McLeay, Amar Radia and Ryland Thomas of the Bank’s Monetary Analysis Directorate.
[2] Dove non diversamente indicato, i dati e le stime sono di fonte BCE, Eurostat, Banca d’Italia.
[3] Bank of England “Money creation in the modern economy”, Quarterly Bulletin 2014 Q1, già citato
[4] Sole 24 Ore “La Bce depone il bazooka del Qe. Restano in dote 2.600 miliardi di titoli” di Maximilian Cellino, 28 dicembre 2018
[5] La Repubblica “Ecco le aziende che beneficiano degli acquisti della Bce”, di Raffaele Ricciardi, 29 Ottobre 2017
[6] Sole 24 Ore “La Bce depone il bazooka del Qe. Restano in dote 2.600 miliardi di titoli” di M. Cellino, già citato
[7] Guido Salerno Aletta, Starmag “Bce, tanti soldi e pochi risultati. Un Qe senza strategia?” 27 Dicembre 2018
[8] Ministero dell’Economia e delle Finanze, “Aggiornamento del Quadro Macroeconomico e di Finanza Pubblica” Dicembre 2018
[9] Guido Salerno Aletta, Starmag “Bce, tanti soldi e pochi risultati. Un Qe senza strategia?”, già citato
[10] Enrico Grazzini “Come far crescere l’economia senza scontrarsi con Ue e mercati. Appello al governo Conte“ Micromega on line 2018; Enrico Grazzini “Titoli di Sconto Fiscale con buon rating per superare l’”autunno caldo” dei mercati finanziari” Scenari economici, ottobre 2018;
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