Quarant’anni dopo il golpe sociale fortunato dei quarantamila

Giorgio Cremaschi

Nel 1994 incontrai a Torino alcuni dei partecipanti alla marcia dei quarantamila. La FIAT di Cesare Romiti, in una delle sue periodiche ristrutturazioni con taglio di personale, aveva deciso di liberarsi della preziosa collaborazione di impiegate, impiegati, capi e capetti che il 14 ottobre 1980 avevano manifestato contro la lotta ai cancelli, costringendo il sindacato confederale a firmare la resa. La riconoscenza del padrone non è mai infinita, e quattordici anni dopo migliaia di coloro che avevano sfilato furono dichiarati “esuberi” e espulsi dal lavoro. Finiva così la stagione dei “quadri”, cioè i capetti aziendali, che dopo la sconfitta sindacale alla FIAT sui mass media erano diventati la nuova figura sociale centrale, che la sociologia dominante esaltava al posto degli operai. Era il futuro del lavoro che era sceso in corteo a Torino e la vecchia sinistra della lotta di classe non aveva capito niente, attardandosi a difendere quei dinosauri degli operai della catena di montaggio. Questo fu il motivo guida ideologico che dominò la scena politica e sociale dopo il 14 ottobre 1980, la base delle laceranti autocritiche e delle epurazioni nei gruppi dirigenti sindacali e della svolta a favore delle imprese e del mercato da parte della sinistra.

Una manifestazione di crumiri precettati e organizzati dal padrone, amplificata a dismisura nel numero e nel significato dai mass media, cambiava in pochi giorni il paese e la sua politica, come fu possibile? Quel corteo fu una spallata reazionaria data al momento giusto, che riuscì a colpire con forza un sistema i cui gruppi dirigenti erano già predisposti o rassegnati alla restaurazione padronale e liberista che si stava diffondendo nel mondo. Un atto fortunato, perché proprio in quegli ultimi dei trentacinque giorni nei quali gli operai avevano bloccato la FIAT, il padrone stava per cedere. Cesare Romiti nelle sue successive memorie affermò che la famiglia Agnelli gli aveva concesso tre giorni per chiudere la vertenza, anche a costo di accettare un compromesso con il sindacato. Claudio Sabattini, allora segretario della FIOM responsabile dell’auto, anch’egli confermò che anche dal lato sindacale si raccoglievano segnali che quel compromesso fosse possibile. Perché, è bene ricordarlo, lo scontro non era tra un gruppo industriale in crisi e un sindacato che quella crisi negava. Lo scontro era su COME gestire quella crisi, se con i licenziamenti di massa oppure con la redistribuzione del lavoro e la solidarietà sociale. Anni dopo la Volkswagen, posta di fronte ad una crisi di sovrapproduzione analoga a quella della FIAT, avrebbe concordato la riduzione dell‘orario proprio per non licenziare nessuno.

Il compromesso era dunque praticabile e possibile, e in FIAT questo compromesso era la cassa integrazione a rotazione tra tutti i dipendenti, invece che l’espulsione definitiva di una parte di essi attraverso la cassa integrazione a zero ore. Che giustamente i lavoratori consideravano un licenziamento mascherato finanziato dallo stato. Come del resto testimoniavano le stesse posizioni della proprietà, che nel giugno del 1980 in un’intervista a Repubblica di Umberto Agnelli, aveva chiesto la mano libera sui licenziamenti di massa (come Bonomi oggi) e la svalutazione della lira. Beniamino Andreatta, che dopo due mesi sarebbe diventato ministro del tesoro e avrebbe con Ciampi guidato la svolta liberista nella politica economica separando la Banca d’Italia dal Tesoro, aveva risposto che la svalutazione della moneta non si poteva più fare, perché l’Italia era entrata nel processo di costruzione della moneta unica europea. Nessun accenno ai licenziamenti e così la FIAT si sentì autorizzata a procedere e alla fine delle ferie estive ne annunciò 14000.

Dopo alcune settimane di lotta nei suoi stabilimenti e in tutto il paese, con Berlinguer che agli operai ai cancelli portò l’appoggio del PCI anche se avessero occupato le fabbriche, il gruppo dirigente aziendale capì che non ce l’avrebbe fatta a passare. Allora la FIAT ritirò i licenziamenti, ma subito dopo mise in cassa integrazione a zero ore 24000 persone. Era una mossa feroce e furba, perché da un lato espelleva dal lavoro ancora più persone che con i licenziamenti, dall’altro però provava a dividere i lavoratori, puntando sul fatto che fosse più semplice la solidarietà con chi veniva anche formalmente privato del lavoro, rispetto a quella con chi stava a casa pagato dallo stato. Ma la mossa non riuscì, la solidarietà e la lotta tennero nonostante tutto e quindi la vertenza si avviò verso quel finale dove avrebbe vinto chi avrebbe resistito un minuto di più. La marcia dei quarantamila spostò la lancetta dell’orologio dal lato del padrone.

Era inevitabile? Certo che no, le forze sindacali e democratiche allora erano enormi e in pochissimi giorni centinaia di migliaia di lavoratori avrebbero potuto a Torino controbilanciare la marcia, come inizialmente minacciò Pierre Carniti. Ma fu un istante, perché poi tutto il gruppo dirigente sindacale, e quello del PCI, ebbero paura di essere coinvolti in uno scontro al di sopra delle proprie volontà. Allora, secondo le memorie di Cesare Romiti, Luciano Lama chiamò l’azienda e affermò: abbiamo perso scrivete voi l’accordo.

La cassa integrazione a rotazione non sarebbe certo stata indolore per i lavoratori, ma sarebbe stata un compromesso sociale nel quale le ragioni dell’impresa sarebbero state attenuate e bilanciate da quelle del lavoro. Che invece vennero totalmente soppresse con l’accordo che espelleva per sempre 24000 persone. Il compromesso sociale veniva negato alla radice, chi era fuori perdeva il lavoro, chi era al lavoro perdeva ogni diritto di fronte al potere dell’impresa. L’attuale sistema ricattatorio e spietato contro il lavoro nasceva allora.
La successiva gestione sindacale della sconfitta la trasformò in disfatta. I consigli dei delegati e i lavoratori, in drammatiche assemblee, respinsero l’accordo, che però fu dichiarato approvato e firmato. Saltava così quell’equilibrio democratico tra organizzazione sindacale e lavoratori che si fondava sul ruolo centrale dei delegati aziendali, scelti liberamente da tutti i lavoratori tra tutti i lavoratori. Pochi anni dopo, con il taglio della scala mobile, i consigli di fabbrica furono definitivamente soppressi.

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La restaurazione del comando assoluto del padrone nei luoghi di lavoro, la fine del sindacato democratico e partecipato degli anni settanta, accompagnarono la svolta liberista sul piano economico sociale politico e culturale. Gli operai scomparvero da ognuno di questi piani, visto che la marcia dei quarantamila, per il pensiero dominante, ne aveva decretato l’estinzione. Diventava passatista e sovversivo non solo rivendicare i loro diritti, ma persino affermare che gli operai esistessero ancora. Al posto del lavoro, il centro di tutto diventava l’impresa e con l’impresa il mercato, il privato, il profitto.

Il mondo liberista ingiusto, senza senso e senza futuro di oggi nasceva da noi con il successo della marcia dei quarantamila. Naturalmente è impensabile che un atto in fondo così limitato abbia potuto produrre effetti negativi così vasti, se non ci fosse stato un sistema predisposto ad amplificarne tutti gli effetti. Se non ci fosse stata una diga già lesionata in molti punti, la sapiente opera di un artificiere non sarebbe stata in grado di farla crollare.

La marcia del 14 ottobre 1980 diede il via alla restaurazione del potere degli affari su quello delle persone, così come avveniva in tutto il mondo. Quella restaurazione poteva essere fermata? Probabilmente no. Poteva essere rallentata, attenuata, circoscritta? Sicuramente sì, ma qui fu il successo particolare della marcia: quello di smontare ogni motivazione alla resistenza, di renderla perdente prima ancora di essere esercitata, soprattutto nei gruppi dirigenti del sindacalismo confederale e della sinistra.

Uno di coloro che avevano marciato nel 1980, quando fu messo in cassa integrazione nel 1994, mi disse: se avessi saputo cosa sarebbe successo dopo, non avrei partecipato. Non gli credetti molto allora, però oggi è ancora più chiaro che fare i conti con quel golpe sociale fortunato è necessario, per liberarci dalle sue conseguenze che quarant’anni dopo ancora ci fanno male.

(13 ottobre 2020)





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