Quei preti-stregoni che benedicono gli animali
don Aldo Antonelli
Ho visto, al TG2 delle 13 di oggi, le immagini della benedizione degli animali che sono stati portati in Piazza San Pietro a Roma (oggi è sant’Antonio…) e mi sono sentito male. Non per gli animali, incoscienti ed ignari dell’evento, poveretti, ma per le persone, esse sì, coscienti ma ignoranti, che ve li hanno condotti.
Vorrei che qualcuno mi spiegasse bene, in termini evangelici e non in termini feticcioclericali, cosa sono e cosa significano queste benedizioni. Personalmente ricordo che il primo anno in cui sono stato parroco a Poggio Filippo, un paesino di montagna a 1050 metri, ai parrocchiani che mi chiedevano di benedire gli animali risposi, molto gentilmente, che se avevano delle malattie (gli animali, beninteso…) potevano rivolgersi al veterinario; se invece stavano in salute (sempre gli animali…) “benedicessero” Dio di tanta salute, prete aspergente absente!
Da allora non mi risulta che tra gli animali di Poggio Filippo, vista la mancata benedizione, ci sia stata una epidemia generale, né i miei contadini mi chiesero più di benedire somari o vacche o asini da soma.
Io da anni non benedico più non solo gli animali, ma nemmeno le macchine, le case, ancor meno le banche o i negozi. Benedico le persone che vengono a Messa perché siano esse portatrici di bene per il mondo e chi le incontra possa “dire bene” della vita e di Dio, se credente.
Mi fa senso vedere i preti, ma che dico?, i vescovi e i cardinali ridotti al rango di stregoni, invece che esser coscienti e rivendicare il loro ruolo di educatori nella fede, che nulla ha a che fare con il feticismo. Mi fa senso vedere le chiese, che dovrebbero essere il luogo di crescita e di maturazione dei fedeli, ridotte a supermarket del credulismo e della deresponsabilizzazione.
Se qualcuno può, mi spieghi cos’è quel gesto divinatorio che nulla aggiunge alla bontà che le cose e gli esseri già hanno in sé. Lo so, sono in minoranza, in una strettissima minoranza; ma, grazie a Dio, non sono solo.
Ho avuto modo di leggere appena due settimane fa, una bellissima riflessione di Padre Alessandro Cortesi, del convento di San Domenico a Pistoia.
Scriveva: «Benedire non si esaurisce solamente nel ‘dire’, nel pronunciare una benedizione. Tanto meno può essere identificato con un gesto clericale, quello a cui siamo abituati e a cui spesso si pensa in rapporto a questa espressione, come se fosse qualcosa che dal di fuori si aggiunge alle cose. Benedire è piuttosto scoprire il bene che è presente già dentro nelle cose, gioire di un bene che è dono. Nella natura che ci è data, nei volti delle persone, nelle situazioni, nonostante tutte le contraddizioni. Certamente il male offusca il bene, lo contrasta ma non vince i semi di bene presenti nella vita, la radice di un bene che sta dentro e che se scoperta può aprire a duna fiducia fondamentale.
Benedire non si connota allora come dare qualcosa dall’alto, ma può essere un modo di guardare alla realtà, un modo di ascoltare le vicende e le esistenze, e di starvi dentro e di incontrare gli altri con uno sguardo particolare, con quell’abbraccio benedicente che ripropone l’attesa e la speranza del padre misericordioso della parabola di Gesù.
E’ in questo senso una attitudine laica, non sacrale, tutt’altro dalla religiosità affettata di chi va in cerca di santoni e di ‘benedizioni’».
Perché, scrive Raniero La Valle, «tutto ciò che è umano non ha bisogno di essere ulteriormente sacralizzato, clericalizzato, conteso e strappato al divino».
Capisco che questa volgarizzazione della benedizione sia presente nel mondo delle religioni che pretendono di rendere sacre le cose profane, ma non riesco a capire come ciò possa esser avvenuto all’interno del cristianesimo, là dove, al contrario, si crede nel Dio che in Gesù Cristo rende “profano” se stesso.
(17 gennaio 2012)
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