L’attivista egiziana per i diritti civili Sarah Hegazi, incarcerata e torturata in Egitto, si è uccisa in Canada, dove aveva trovato rifugio. Le conseguenze delle torture subite, le continue minacce che la perseguitavano anche dopo il carcere erano diventate troppo pesanti per lei. Che voleva solo vivere libera.
È l’ottobre del 2017, al Cairo c’è un concerto di una famosa band libanese, Mashrou Leila, il cui cantante è un gay dichiarato. Al concerto partecipa l’attivista Sarah Hegazi e insieme ad altri ragazzi decidono di sventolare la bandiera arcobaleno. L’opinione pubblica si indigna, si scatena. La bandiera arcobaleno non doveva essere innalzata perché non rispetta la cultura e la tradizione del paese.
Le forze dell’ordine intercettano tramite le videocamere di sorveglianza le persone che hanno sventolato la bandiera. Circa 70 persone vengono arrestate, ma poco dopo rilasciate. Per questo gesto Sarah Hegazi e un altro ragazzo, Ahmed Alaa, pagano il conto più caro. Sono i più visibili al concerto e le loro foto con la bandiera arcobaleno fanno il giro dei social. Entrambi vengono incarcerati per la durata di tre mesi ciascuno.
L’accusa a loro carico è incitamento ad assumere comportamenti illeciti, indecenti e immorali.
Una terza ragazza, Esraa Serag, viene intercettata dalle videocamere senza però essere arrestata. Per mesi riesce a nascondersi dalla polizia, spostandosi da una casa all’altra per non farsi trovare. Alla band viene negato l’ingresso nel paese e quindi vengono annullate tutte le date dei loro concerti.
Sarah Hegazi durante i suoi tre mesi di prigionia subisce torture fisiche e psicologiche. Secondo alcune fonti subisce anche molestie e violenze non solo da parte delle forze dell’ordine, ma anche da parte delle detenute presenti con lei nella stessa cella. Viene rilasciata su cauzione, ma viene in seguito accusata e ripudiata dalla società per il suo gesto e per il suo orientamento sessuale: nel 2016 Sarah aveva deciso di dichiarare pubblicamente di essere lesbica.
A differenza di qualsiasi altro attivista incarcerato, Sarah Hegazi viene travolta dagli insulti. Il regime l’ha arrestata, ma la società la perseguita dal giorno del suo coming out. Non doveva sventolare la bandiera, pensano che il carcere se lo sia meritato. Ha inizio la sua forte depressione, le conseguenze di ciò che ha subito in carcere e continua a subire, si fanno sempre più prevaricanti nella sua vita.
Decide quindi di andare via dall’Egitto e fare domanda di protezione internazionale in Canada, insieme ad Ahmed Alaa. Parte e prova a ricominciare. Lì continuerà a fare attivismo e chiedere la liberazione degli altri attivisti nelle carceri egiziane. Poco dopo la partenza, sua madre viene a mancare, lasciando i fratelli di Sarah completamente soli. Sul suo profilo Facebook, ora chiuso, scrive una lunga lettera in cui si legge la tristezza e disperazione per non aver salutato la madre prima della morte. Non ha più nemmeno modo di tornare per sostenere i fratelli rimasti ormai orfani.
Sarah Hegazi dopo due anni di esilio in Canada si è suicidata lontana dal proprio paese, al quale nonostante tutto era legata, e dai propri affetti. Sola e depressa, con addosso tutto ciò che ha dovuto subire dal regime, ma soprattutto dalla società. Nella descrizione del suo profilo Istagram si definisce: "Super comunista, super gay, super femminista".
Ha lasciato una lettera prima di morire con scritto: "Ai miei fratelli: ho provato a sopravvivere ma ho fallito. Ai miei amici: l’esperienza è stata dura e io ero troppo debole per lottare. Al mondo: sei stato davvero crudele, ma io ti perdono". Lascia un messaggio anche nella sua ultima foto pubblicata sui social, distesa su un prato in una giornata di sole: "Il cielo è più bello della terra! E io voglio il cielo e non la terra".
La stessa società egiziana che ha ripudiato e accusato Sarah da viva continua a non lasciarla in pace nemmeno da morta. Per molti non merita il perdono divino per il suo orientamento e perché atea. I social si sono nuovamente scatenati con insulti e offese pesanti. La definiscono la donna dai tre peccati capitali: lesbica, atea e suicida.
Per gli islamisti, Sarah Hegazi non merita misericordia, è peccato chiedere a Dio di perdonarla per qualsiasi gesto compiuto in vita, come è consueto fare per qualsiasi morto secondo la tradizione islamica. Viene ritenuta una dannata peccatrice, condannata all’inferno per il suo stile di vita.
Ad uccidere Sarah, è stata la solitudine, la depressione ma soprattutto l’intolleranza di chi non riesce ad imparare il rispetto e la libertà delle scelte altrui.
La morte di Sarah ha evidenziato i danni della religione quando fuoriesce dalla sfera privata, entrando e sfondando le porte della vita degli altri. Non si è più padroni della propria vita, non si è più liberi di credere come si vuole, praticare la religione come meglio si crede o semplicemente non credere.
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Nei giorni successivi alla morte di Sarah, tantissimi l’hanno umiliata e diffamata. L’hanno privata di ciò che voleva essere da viva e hanno continuato come avvoltoi a sputare sentenze sul suo corpo anche da morta. Si dichiarano credenti e sostengono di aver agito in nome di Dio, ma si sono voluti semplicemente sostituire ad esso. C’è una linea sottile tra religione, praticata nel proprio intimo, senza imporre agli altri come vivere, e l’ideologia che punisce, flagella anche solo con le parole chi non segue i dettami ordinati.
Sarah, e tanti altri come lei, hanno deciso di non essere accondiscendenti in una società che non risparmia. Dal giorno del suo coming out non ha fatto altro che fare i conti con gli islamisti, con gli omofobi e con il patriarcato.
Ahmed Alaa, dopo due giorni di silenzio dalla morte di Sarah, ha scritto sui social: “Lontano dalla vostra decisione di non mostrare misericordia e di diffamare una persona morta solo perché è diversa da voi che non ha ragion d’essere. Perché è solo espressione del vostro sadismo e mancanza di umanità. Sarah non era affatto atea”.
Sarah forse era atea, forse credeva in Dio e lo pregava nel suo intimo senza dirlo. Forse non sapeva se credere o meno. L’unica cosa che merita una reale condanna è la prevaricazione della sua sfera privata.
(17 giugno 2020)
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