Raniero La Valle: Il lavoro del servo

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di Raniero La Valle, dal n. 20 di "Rocca"

C’è una parola di Benedetto XVI, tra le tante consuete e inconsuete che ha detto nel suo viaggio a Parigi ed a Lourdes, che si distacca dalle altre e resta come motivo di illuminazione e di ripensamento. È stato quando, nell’ex monastero benedettino dei Bernardins, dinanzi al mondo culturale francese, a due ex Presidenti della Repubblica e ai musulmani che vi erano stati invitati, è passato dal discorso sulla preghiera (“ora”) a quello sul lavoro (“labora”); e per dire quanto a questo riguardo il monachesimo era stato innovativo, ha ricordato da dove veniamo: veniamo da una cultura, da una società, da una storia nella quale il lavoro era considerato spregevole ed era addossato esclusivamente ai servi, agli schiavi.

Ha detto il Papa: “Nel mondo greco il lavoro fisico era considerato l’opera dei servi. Il saggio, l’uomo veramente libero, si consacrava unicamente alle cose spirituali; egli lasciava il lavoro fisico come qualcosa di inferiore a quegli uomini che erano considerati estranei a questa esistenza superiore, quella dello spirito”. Dunque c’erano due categorie di esseri umani: l’una fatta per le cose fisiche, l’altra per quelle spirituali; l’una atta ad obbedire, l’altra a comandare, come diceva Aristotele riferendosi egualmente all’altra grande subordinazione gerarchica, quella della donna rispetto all’uomo. Questo era il “logos” greco, la percezione razionale greca della realtà umana. È significativo che il Papa, che è un gran sostenitore della radice greca del cristianesimo, metta a nudo proprio questa tara congenita dell’antropologia greca.

Anche il suo predecessore, Giovanni Paolo II, aveva denunciato questo peccato originale del mondo classico: “L’età antica – aveva scritto nella Laborem excersens, introdusse tra gli uomini una propria tipica differenziazione in ceti a seconda del tipo di lavoro che eseguivano. Il lavoro che richiedeva da parte del lavoratore l’impiego delle forze fisiche, il lavoro dei muscoli e delle mani, era considerato indegno degli uomini liberi e alla sua esecuzione venivano perciò designati gli schiavi”. Nulla poteva essere più contrario alla sensibilità di papa Wojtyla, che in quella sua enciclica faceva del lavoro il segno distintivo dell’uomo, fino a dire che il lavoro costituisce “la sua stessa natura”: dunque non solo il lavoro come opera dell’uomo, ma l’uomo è lavoro.

Quali sono i motivi più profondi di questo rovesciamento cristiano della filosofia antica? Sia Giovanni Paolo II che Benedetto XVI ne pongono il fondamento nella somiglianza dell’uomo con Dio: come Dio ha lavorato per la creazione del mondo e tuttora “lavora” nella storia (“ergázetai”, ha detto il Papa a Parigi), così anche l’uomo lavora partecipando alla sua opera. Giovanni Paolo II aggiungeva a questa apologetica il richiamo al fatto che anche Gesù, come Giuseppe, lavorava come artigiano, per non parlare del lavoro dei Dodici e di quello di Paolo.

Ma c’è un motivo ancora più dirompente nel messaggio cristiano, per il quale il lavoro non dovrebbe mai più, mai più, essere diffamato, alienato, sfruttato, ridotto a merce, assimilato agli altri “mezzi di produzione”, comprato “per un paio di sandali” e reso pericoloso e precario, come fa “l’economismo” capitalistico; né mai la liberazione umana dovrebbe essere concepita come liberazione “dal” lavoro, come fa il marxismo. E la ragione sta nella radicalità della decisione di Dio, che non solo si è fatto uomo, assumendo l’una e l’altra delle due categorie della società greca, i signori e i servi, ma si è fatto servo, assumendo come primariamente divina la condizione più disprezzata, e nemmeno tenuta per umana, e assumendo perciò nella nuova realtà teandrica proprio l’opera esclusivamente addossata ai servi, cioè il lavoro.

La Chiesa si è dimenticata questa parte del suo messaggio, che tuttavia è decisiva. Le prime comunità cristiane dicevano che il Logos, il Verbo, Cristo Gesù, pur essendo nella natura di Dio aveva assunto la natura del servo. Poi lo proclamò nella sua definizione di fede il Concilio di Calcedonia. Oggi lo diciamo nella liturgia della messa, quando si legge la lettera di Paolo ai Filippesi; ma questo “kerigma” arriva a noi depotenziato, perché il “farsi servo” viene interpretato in senso spirituale e l’essere servo di Gesù viene sublimato come “servo di Dio” o come il “servo” di Isaia. La novità è invece che Dio si è fatto servo, nel senso di schiavo, perché tutti i servi fossero uomini e la loro opera, il lavoro, fosse riscattata ed esaltata come l’opera stessa di Dio fatta nella storia “dalla mente e dalle mani dell’uomo”.

(30 settembre 2008)



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