Cinema: “Benedetta follia” di Carlo Verdone
Giona A. Nazzaro
Carlo Verdone è da sempre un po’ di più di quanto la percezione comune del suo personaggio pubblico lasci trasparire. In questo senso anche il suo cinema è sempre stato sottoposto – frettolosamente – alla semplice questione: fa ridere o no? Verdone, nonostante il successo di cui ha goduto e continua a godere, è sempre stato anche un cineasta segreto, umile. Un uomo di cinema nel cui dna si ritrovano alcune delle cose migliori della tradizione cinematografica italiana: la “semplicità” di Mario Mattoli, i guizzi del Marc’Aurelio, ovviamente Sordi e Fabrizi, e un’idea di realismo e di racconto che in fondo è la cifra che il Verdone degli ultimi anni ha iniziato a curare con attenzione sempre crescente.
Non sorprende affatto dunque l’esito estremamente positivo di Benedetta follia, nel quale si evidenziano ancora di più gli elementi di questa gentile malinconia che (datazione arbitraria) da Io, loro e Lara sembra essere diventata la cifra segreta del regista e attore. Sin dalla locandina, schiettamente settantesca, è percepibile il piacere di Verdone di continuare non solo a fare quello che ha sempre fatto ma anche di esplorare versanti della sua persona pubblica sinora custoditi al di là della immagine portante.
Continuando a tracciare un arco generazionale che dal suo esordio in avanti si è offerto come la carta di tornasole del racconto di un paese che forse non ha mantenuto tutte le sue promesse (pur autoassolvendosi dal fallimento), un Verdone che sembra il fratello maggiore (o minore) dei personaggi di Un sacco bello si schianta in moto dopo avere tentato di attaccare bottone con Lucrezia Lante della Rovere alla guida della sua auto. Come dire? L’amore sì, ma si fa presto a mettere il silenziatore alle proprie ambizioni. Sin da questo incipit si comprende il tono del racconto del film. Eppure Verdone riesce all’interno di questo percorso a inserire elementi di profondità molto interessanti. Innanzitutto la satira anticlericale (garbata ma precisa) in grado di restituire l’immagine di un’umanità alla deriva eppure disperatamente ancorata a qualcosa in cui credere, fossero anche solo simboli e icone. E poi lo sguardo, mai altero, nei confronti di un mondo che cambia (e che forse non si capisce più tanto bene) osservato con una curiosità reale, mai accondiscendente.
La disponibilità con la quale il Verdone autore mette a disposizione la sua creazione più preziosa, ossia il Verdone maschera, alle invenzioni della sceneggiatura di Guaglianone e Menotti è notevole e fa il paio solo con la straordinaria interazione che il regista e attore sviluppa con la magnifica Ilenia Pastorelli.
In tutto il film infatti si respira questo piacere della riscoperta di una possibilità di avventura, un uscire un po’ da sé stessi il cui premio – ovviamente – è ritrovare proprio un’altra formulazione di sé stessi (gli inserti psichedelici da ecstasy e il numero musical che cita apertamente le coreografie di Busby Berkeley). Ed è encomiabile la fiducia con la quale Verdone trasferisca sulla sua partner (e le altre attrici) il plusvalore comico del film, lasciando loro la scena, cosa che in questa temperie post-Weinstein fornisce anche una chiara indicazione politica (senza contare il rispetto scevro da ipocrisie politicamente corrette con il quale è accolta la scelta omosessuale della moglie del protagonista).
Irresistibile – in questo senso – la gag del cellulare con Francesca Manzini che inizia come un omaggio alla scena dell’orgasmo finto di Harry ti presento Sally e finisce con una trovata degna di Franco Milizia (sceneggiatore di Nando Cicero e altri eroi della commedia scollacciata nostrana). Il piacere con il quale Verdone tiene una gag “impossibile” (nella quale avrebbe fatto faville un Vitali, un Montagnani, un Carotenuto…) è davvero il segno di una felicità consapevole delle proprie potenzialità. D’altronde ogni scena del film è costellata da una presenza femminile forte, che si tratti di Elisa Di Eusanio o della grinta di Anna Ferraioli.
Così come bastano pochi secondi di battute agrodolci per dare il senso di un’esistenza che non è andata nella direzione auspicata (lo scambio fra Guglielmo e Luna durante il quale i due fingono che l’incontro con il padre di lei sia andato benissimo e che – misteriosamente – ha evocato in noi la conversazione fra il Biondo e Tuco dopo che questi ha incontrato suo fratello Pablo in Il buono, il brutto, il cattivo). [Ma d’altronde Verdone è un “leoniano”…].
Con Benedetta follia, Verdone mette in gioco sé stesso e il suo cinema nel segno di un piacere riconquistato. Certo, alcuni automatismi resistono (si pensa alla fotografia per esempio o alle musiche e ci si ritrova a vagheggiare un Alfio Contini ai colori o un Trovajoli allo spartito…) ma per il momento il piacere trasmesso da Benedetta follia è il segno di un autore vitalissimo e, soprattutto, ancora in pista per sorprendere il pubblico e, soprattutto, sé stesso.
(12 gennaio 2018)
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