Recovery fund: c’è bisogno di territorio

Fausto Carmelo Nigrelli

In poche settimane occorrerà costruire una visione per l’Italia e per l’Europa che non siamo stati capaci di costruire negli ultimi trenta anni. Ed è necessario ripartire dal territorio, dalle aree interne che non rispondono alle logiche della massimizzazione del profitto, dalle comunità che hanno continuato a coltivare il tempo lento.

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Territorio è una parola polisemica, il che è sintomo della ricchezza di una lingua. Ma può essere anche una maledizione, a volte. Così mi sembra per questo termine.

Nel dibattito pubblico prevale la definizione giuridico- amministrativa cioè quella che lo considera un’estensione di terreno soggetto a una qualunque giurisdizione, una zona di competenza determinata unicamente da una superficie, da una forma e da confini.

In tempi di sovranismo o di tribalismo, questo significato torna utile, quasi familiare. Individua un dentro e un fuori, un noi e un loro, un positivo e un negativo. Accentua le differenze, le separazioni. Quelle differenze e quelle separazioni che la pandemia ha spazzato via in un sol colpo con buona pace di coloro che ora sbraitano contro gli immigrati untori del virus e dimenticano che il vettore che lo ha portato, per esempio, in Italia, pare che venisse dalla arianissima Germania.

Non è dunque questo il territorio utile nel momento in cui si comincia a parlare di Next generation, di fondo per la ripresa.

Di una cosa però non si deve dubitare: ora, proprio ora, il territorio serve, può essere la chiave di volta della visione che deve guidare il progetto della nuova Italia nella nuova Europa. Dobbiamo però rivolgerci a un’altra definizione, meno banale o forse solo meno conosciuta.

Il territorio è terra che è diventata oggetto e mezzo di comunicazioni, di lavoro, di produzioni, di scambi, di cooperazione. È prodotto, ma anche produttore, dell’azione delle comunità di cui è progetto, ma delle quali indirizza le progettualità, è esito della capacità immaginifica degli uomini, ma anche ne influenza cultura e pensiero. È fisicità, ma anche simbolo.

Fattori fisici, economici, culturali, simbolici, relazionali ne costituiscono gli shapes, le forme, e ognuno di essi è prodotto e produttore degli altri.

Perché, adesso che in poche settimane occorrerà costruire una visione per l’Italia e per l’Europa che non siamo stati capaci di costruire negli ultimi trenta anni, è necessario ripartire da lì?

Semplicemente perché è alla cancellazione delle differenze, alla sordità alle specificità, alla cancellazione del territorio in questa accezione, alla sua derubricazione a spazio euclideo, alla hybris ipercapitalista, che, in qualche modo si può ascrivere il segnale che la natura ci ha dato.

Allora interpretiamolo, questo segnale, restituendo centralità, nella visione, alle regioni che erano state “scartate” da quel modello: alle aree interne che non rispondevano alle logiche della massimizzazione del profitto, alle comunità che hanno continuato a coltivare il tempo lento, il tempo giusto e non quello accelerato, alle attività che si prendono cura e non a quelle che dissipano. Interpretiamolo con una azione corale di riequilibrio.

Lo sa e lo dice il ministro Provenzano che è riuscito a fare inserire uno sconto del 30 per cento sul costo del lavoro nelle otto regioni del Mezzogiorno. È però necessario che almeno il 34 per cento degli investimenti totali del Recovery Fund siano destinati a queste regioni e che una parte consistente degli altri sia destinato alle aree interne delle regioni più forti.

Senza un salto di qualità (che non è ovviamente solo dato dalle quantità di denaro investito), la misura della fiscalità di vantaggio non potrà sviluppare a pieno le sue potenzialità.

Il salto di qualità deve essere culturale e politico. Non è possibile che esponenti importanti dei partiti che sostengono il governo reagiscano alla norma voluta da Provenzano, ricordando che la locomotiva dell’Italia è il Nord. Non è possibile continuare a sottolineare i confini, a marcare le differenze.

L’Italia si costruisce una prospettiva, il Nord si dà un nuovo slancio se si riduce il divario con il Mezzogiorno, se le aree interne trovano nuova desiderabilità. Questo obiettivo deve essere di tutto il governo, di tutti gli schieramenti politici.

Lo dice, se si interpretano bene i dati, anche chi sottolinea la necessità di rafforzare i comparti produttivi più vocati alle esportazioni.

Secondo la fondazione Edison, l’Italia è leader mondiale nella produzione di alcune centinaia di prodotti che riguardano i comparti dell’edilizia, delle infrastrutture anche digitali, dell’economia verde e della produzione di energie alternative che potrebbero avere una enorme spinta dal mercato interno visto che il grosso degli investimenti europei sono messi a disposizione modernizzare il Paese attraverso investimenti infrastrutturali, digitali e ambientalmente sostenibili.

Allora l’aumento della domanda interna, nel Mezzogiorno e nelle aree interne, potrà avere una ricaduta importante (qualcuno dice il 50 per cento) sulle aziende che operano in questi comparti.

Ci sono però almeno quattro questioni che si possono porre.

La prima. Se l’auspicabile aumento di produzione richiedesse la realizzazione di nuovi stabilimenti si potrà imporre, con significative agevolazioni, che questi non vengano realizzati costruendo nuovi capannoni, ma utilizzando quelli esistenti e dismessi o mai utilizzati, possibilmente all’interno delle aree di sviluppo industriale vuote o semivuote del sud.

La seconda. Le migliaia di ettari urbanizzati di aree di sviluppo industriale inutilizzate a sud potrebbero diventare le zone esclusive in cui concentrare i nuovi impianti di produzione di energia rinnovabile (solare, eolica, da rifiuti), tutelando così il suolo e il paesaggio agricoli.

La terza. L’investimento nell’industria, per confermare il ruolo internazionale dell’Italia, deve essere integrato con gli investimenti di valorizzazione del patrimonio territoriale e, in primo luogo, in quelli nell’agricoltura di qualità (indispensabile per garantire la salute dei cittadini e la manutenzione del territorio), nel patrimonio naturale e in quello culturale che impiegherebbero grandi quantità di giovani con alto livello di formazione ricostruendo il legame tra comunità e territorio.


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La quarta. Una nuova stagione di infrastrutturazione del sud e delle aree interne che comprenda le infrastrutture digitali, stradali e ferroviarie (piuttosto che il ponte o i tunnel dello Stretto) e il sistema del welfare (sanità e scuola soprattutto) attraverso l’ottimizzazione e il recupero dell’esistente e la creazione di sistemi urbani reticolari che comprendano città di rango e dimensioni diverse, ma che, insieme, moltiplicano la desiderabilità del territorio che le contiene.

Una postilla. In uno scenario di questo tipo lo sviluppo locale come finora è stato inteso potrebbe non essere adeguato, anzi potrebbe determinare il fallimento della strategia. Molte comunità del Mezzogiorno e delle aree interne sono spossate da diversi lustri di migrazione massiccia dei giovani più formati e di quelli più intraprendenti e oggi mostrano una evidente crisi di classe dirigente: vecchia, demotivata, clientelare.

Anche in questo caso un intervento centrale con forte incentivazione al “rientro dei cervelli” e la semplificazione delle procedure che consentono alle Università, nel quadro della terza missione, il supporto al territorio, di affiancarsi alle élite locali per la costruzione delle prospettive specifiche e la predisposizione di piani e progetti sono azioni importanti per il raggiungimento dell’obiettivo.

*Nel Fausto Carmelo Nigrelli è autore del saggio “Pandemia e urbanistica: ridisegnare l’Italia”

(11 agosto 2020)




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