Recovery Fund: il problema del governo del capitale umano
Fabio Armao
La discussione avviata in queste pagine dall’ e sulle condizioni alle quali il nostro paese potrebbe trarre effettivo vantaggio dall’impiego di quei finanziamenti (ancora virtuali) ha già fissato – anche con i successivi contributi di e – una serie di punti fermi che mi sento di condividere appieno. Dal modello di piano strategico territoriale delineato nel primo articolo, alle considerazioni su quale debba essere il corretto rapporto tra innovazione e tecnologia (Costa), ai “dogmi” che dovrebbero guidare le diverse scelte di allocazione delle risorse da parte del governo (Bonelli).
Per quanto mi riguarda, vorrei provare a fare alcune osservazioni a partire da un filo rosso che attraversa tutti e tre gli articoli e che riassumerei nella rilevanza assoluta della sfera territoriale, nelle sue dimensioni del governo locale e dei processi partecipativi, ben evidenziata da Pellizzetti e che ritorna anche negli altri due articoli nella forma, rispettivamente, dell’ecosistema locale come elemento imprescindibile dell’innovazione (quel genius loci che, solo, è in grado di farla fiorire) e del capitale umano (gli interessi, i valori, il desiderio di condivisione) come fattore altrettanto rilevante di quello economico. Si tratta, in estrema sintesi:
a) di spostare l’attenzione sui processi istituzionali, sul rapporto tra governo centrale e territori, tenendo conto delle “peculiarità” italiane;
b) di provare a proporre un metodo per ovviare ad alcune delle sue più evidenti carenze, che rischiano di vanificare qualunque concreta ambizione di costruire un futuro migliore per la “Next Generation”.
Le polemiche più recenti tra governo e regioni sui criteri di attribuzione del bollino giallo-arancione-rosso, che hanno assunto toni farseschi da grand guignol (dove però la violenza non è solo figurata e verbale, ma reale e si materializza nel computo quotidiano delle centinaia di morti per Covid), rappresentano soltanto l’ultimo esempio di un deficit strutturale. Mi riferisco, in particolare, a quel difetto nel processo di istituzionalizzazione che ha impedito all’Italia di superare la fase nascente dello “stato transpersonale”, quella che nella tradizione europea occidentale ha segnato il passaggio dalla frammentazione feudale al moderno stato-nazione burocratico di weberiana memoria. Come ho già osservato , per una serie di circostanze storiche, nel caso italiano il passaggio dalla fedeltà alla persona alla fedeltà alle istituzioni si è interrotto a uno stadio intermedio nel quale prevale la fedeltà ai potentati che, di volta in volta, si alternano alla guida del governo.
Ciò ha dato vita, fin dall’unificazione, a un peculiare sistema vassallatico che vede sempre e comunque interporsi un elemento di mediazione sia tra governante e rappresentante, sia tra rappresentante e rappresentato, determinando la nascita di una rete sempre più complessa di “relazioni interpersonali ritualizzate” destinate a connettere poteri centrali e periferici, come pure attori politici e rappresentanti del mondo economico e della società civile.
Una struttura vassallatica di questo genere è ciò che ha storicamente consentito, se non di ridurre, quanto meno di gestire gli squilibri economici e sociali tra le diverse regioni: indirizzando la spesa pubblica e facilitando i compromessi politici tra progressisti e conservatori. L’efficacia di tale soluzione, aggiungevo, è determinata dal fatto che il vassallaggio, a differenza della mera sudditanza, si basa su una scelta volontaria e reciproca che, in qualche misura, “compensa” l’ineguaglianza intrinseca della relazione. Le relazioni interpersonali che si instaurano tra gli attori coinvolti permettono di aver ragione di distanze fisiche e mentali altrimenti incolmabili; non escludendo, tra l’altro, la possibilità di fedeltà multiple e/o variabili a seconda delle occorrenze.
Questa soluzione, non priva di un certo pragmatismo, ha permesso alle élites che si sono succedute al governo dall’Unità a oggi di gestire (non certo di risolvere) contraddizioni che, diversamente, avrebbero potuto generare conflitti ancora più violenti di quelli che pure hanno costellato la nostra storia (basti pensare alle vittime della mafia e del terrorismo). Tuttavia ha anche determinato il cronicizzarsi di alcune malattie messe bene in evidenza dagli storici: la negazione reciproca tra governo e opposizione; il dilagare di trasformismo e clientelismo (in realtà, due facce della stessa medaglia); la cronica instabilità dei governi.
Insisto su questi aspetti, perché pretendere di continuare a ignorarli non soltanto ci impedisce di comprendere appieno le dinamiche politiche di questi ultimi drammatici mesi condizionati dalla pandemia; ma può avere effetti deleteri anche sulla nostra capacità di pensare il futuro – a partire dalle strategie di investimento dei fondi europei. Un autentico New Deal che coinvolga poteri pubblici e privati in sinergia strategica, che non si accontenti di applicare nuove tecnologie ma arrivi a concepire veri e propri “atti innovativi” e che si dimostri capace di adottare criteri di allocazione delle risorse coerenti con gli obiettivi prefissati – per tornare ai tre autori che mi hanno preceduto – richiede un’adeguata consapevolezza dei limiti e dei condizionamenti tuttora vigenti nel sistema politico italiano. Il problema è come (provare a) bypassare questi “vincoli strutturali”, non potendo certo contare sui poteri di autocorrezione del sistema stesso.
Per quanto possa apparire azzardato, tanto più provenendo da un politologo, penso possa rivelarsi utile fare appello alla cibernetica (letteralmente, “l’arte del nocchiero”). Dovendo innovare, del resto, la scienza che può essere di maggior aiuto è proprio quella che si occupa per statuto di descrivere e gestire sistemi complessi, sia nella propria struttura interna sia nelle interazioni con il mondo esterno. Penso, in particolare, a uno dei padri fondatori della cibernetica, l’inglese Stafford Beer, teorico visionario che più di ogni altro si è sforzato di applicare le proprie conoscenze alla sfera della politica, affiancando il presidente cileno Salvador Allende nel tentativo di costruire un modello democratico e economicamente vantaggioso di gestire le risorse del paese. Il Progetto Cybersyn, da lui coordinato, applicava la cibernetica in particolare al problema della nazionalizzazione delle industrie cilene; e arrivò fino alla progettazione di una Liberty Machine, ovviamente computerizzata, e persino di un’avveniristica sala operativa[1]. Il colpo di stato e l’uccisione di Allende hanno di fatto cancellato la memoria di quel vero e proprio esperimento sociale; ma i suoi princìpi operativi sopravvivono negli ultimi scritti di Beer; e il suo Viable System Model è diventato uno standard, noto in particolare agli specialisti di ma
nagement industriale.
L’idea principale di Beer è la costruzione di un piano d’azione basato sulla creazione di gruppi in grado di condividere un certo tipo di informazioni: information set, o infoset[2]. Si può trattare di amici o di cittadini che vivono nella stessa area (infoset di vicinato) o, piuttosto, che condividono gli stessi interessi nella “tecnosfera” (infoset globali). Tali gruppi non si ritengono vincolati da legami di tipo gerarchico, magari nei confronti della propria nazione di appartenenza, o da specifici processi, anche democratici, che implicano per esempio la creazione di partiti politici. Al tempo stesso sono dotati di una solida struttura interna (l’immagine che adotta è quella dell’icosaedro); i singoli membri, inoltre, possono far parte anche di altri gruppi, favorendo il riverbero delle idee, il generarsi di sinergie creative e, soprattutto, l’attivazione di processi basati su quella che definisce “ridondanza del comando potenziale”. Negli infoset, diversamente da quel che accade all’interno delle organizzazioni gerarchiche come gli stati, il comando non è prefigurato, bensì generato di volta in volta dalle concatenazioni di informazioni condivise; ed è continuamente interscambiabile – l’analogia, in questo caso, è con l’attività neuronale del cervello umano. Ogni singolo infoset detiene perciò il potere del comando potenziale.
Certo, ai suoi tempi si trattava ancora soltanto di una “visione”; ma oggi può contare sulla crescente proliferazione di gruppi a livello locale e di movimenti transnazionali che si mobilitano sfruttando le potenzialità della rete su temi che vanno dal diritto alla città, alla difesa dell’ambiente; dalla lotta alla mafia, alla tutela delle minoranze. Si tratta di un processo ancora in buona parte “inconsapevole”, non gestito e che, oltretutto, oggi si scontra con una realtà nella quale il flusso delle informazioni rischia di diventare incontrollabile e soggetto alle manipolazioni da parte dei mezzi di informazione e/o dei politici. Eppure l’idea di favorire la nascita di infoset capaci di un comando potenziale basato sulla circolazione delle comunicazioni ben più che sulla passiva adesione a un’ideologia, possiede delle straordinarie potenzialità – e denota se non altro un significativo salto di qualità rispetto a chi della rete propone un uso meccanicistico (e troppe volte manipolatorio) a meri fini di “democrazia diretta”. Penso, per tornare al problema del governo dei processi di investimento dei fondi che dovessero arrivare dall’Unione europea, alla possibilità di attivare specifici infoset di “coordinamento territoriale per la ricerca e l’innovazione” che potrebbero trovare spazio, ad esempio, nelle Università; ma in stretta collaborazione con le istituzioni locali (camera di commercio, sindacati, gruppi di volontariato, ecc.) e i ministeri competenti, organizzando e ottimizzando i dati a disposizione di ognuna di queste diverse organizzazioni.
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Eppure proprio la drammaticità del momento potrebbe trasformarsi in una straordinaria opportunità almeno per attivare un processo di mobilitazione dei territori che si proponga di sostituire i tradizionali meccanismi clientelari di redistribuzione delle risorse con un progetto più ambizioso e informato (cibernetico) di governo dell’innovazione, in assenza del quale rischieremmo di non poter più guarire dai postumi sociali del Covid.
[2] S. Beer, “World in Torment: A Time Whose Idea Must Come”, Kybernetes, 22, 6, pp. 15-43.
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