Regno Unito: il tragico legame tra Brexit e gestione fallimentare della pandemia
Eleonora Vasques
La crisi sanitaria provocata dal diffondersi del Covid-19 ha rappresentato, e rappresenta tutt’ora, un evento eccezionale che produrrà effetti significativi e durevoli negli anni a venire. Già nel breve periodo le conseguenze della pandemia sono più che tangibili: una tra molte, lo smascheramento della reale indole di molti dei principali governi di impronta nazionalista come Brasile, Stati Uniti e Regno Unito, i quali occupano, probabilmente non a caso, il podio per numero di morti da coronavirus.
Inizialmente, i leader di questi paesi hanno negato la necessità di adottare stringenti misure di lockdown per fronteggiare la crisi: Jair Borsonaro ha sempre definito la pandemia un’isteria collettiva, scontrandosi con il parere dei suoi stessi ministri e governatori, senza ammettere la gravità della situazione nemmeno dopo essere risultato positivo al test lo scorso 7 luglio. Donald Trump ha affermato diverse volte che a suo parere il coronavirus fosse solo una normale influenza, e che in quanto tale non avrebbe intaccato la quotidianità degli americani. Parallelamente, ha ingaggiato una battaglia politica contro l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), organismo del quale gli Stati Uniti non intendono fare più parte. Infine, nel caso specifico della Gran Bretagna, la ragione principale della gestione fallimentare della crisi sanitaria è stata la Brexit: il primo ministro Boris Johnson ha consapevolmente sottovalutato i rischi del Covid-19, per prediligere il divorzio dall’Ue. Per capire come questo sia avvenuto bisogna tornare alla fine di gennaio, quando il Regno Unito si preparava per l’addio ufficiale all’Unione europea.
Come ha raccontato il Sunday Times in un’inchiesta sulla gestione della crisi sanitaria, già il 22 di gennaio lo Scientific Advisory Group for Emergencies (SAGE) – comitato che supporta e informa il governo sulle questioni tecnico/scientifiche – ha comunicato al governo britannico che il Covid-19 non era una normale influenza: i livelli di infettività, spiegava il gruppo, stavano superando quelli dell’influenza spagnola, che provocò circa cinquanta milioni di morti all’inizio del secolo scorso. Tra i membri del SAGE, Neil Ferguson (epidemiologo, professore all’Imperial College di Londra) ha raccomandato al governo di ragionare sull’eventualità di un lockdown. Il governo non prese in considerazione i pareri del gruppo, definendo la chiusura totale come uno scenario distopico “post-apocalittico”. Di conseguenza, il governo ha seguito un protocollo del 2011 per le pandemie da influenza e ha di fatto seguito l’ipotesi della ormai nota strategia dell’immunità di gregge, come spiegato alla stampa internazionale da Sir Patrick Vallance, consigliere personale del primo ministro su materie scientifiche.
La sorte ha voluto che proprio quel 31 di gennaio, il giorno dei festeggiamenti della Brexit, si registrassero ufficialmente a Newcastle i primi due casi positivi al coronavirus di persone provenienti dalla Cina. Nel mese di febbraio Boris Johnson disertava cinque incontri del Comitato di crisi dedicati alla pandemia, mentre idealmente il “sogno Brexit” cominciava a prendere forma: il leader conservatore ha tenuto infatti una conferenza celebrativa post-31 di gennaio dove evidenziava come il Regno Unito sarebbe divenuto il “Superman del libero mercato”. Nello stesso mese, la ministra dell’interno Priti Patel annunciava le nuove regole per gli immigrati nel Regno Unito tramite un “sistema a punti” simile a quello adottato in Australia. Nel frattempo, in giro poche persone indossavano le mascherine e, nonostante i primi focolai in Europa, la quotidianità procedeva indisturbata.
Con 798 casi totali e 11 morti, il 13 marzo Boris Johnson dichiarava che non ci sarebbe stato alcun lockdown e che il virus sarebbe stato gestito dando la priorità alle attività economico-produttive del paese. Tre giorni dopo, un report dell’Imperial College mostrava pubblicamente una stima degli effetti che avrebbe avuto la strategia della “mitigazione” del virus approcciata dal governo: le richieste di posti in terapia intensiva sarebbero state superiori di almeno otto volte rispetto ai posti disponibili, ed erano ipotizzabili circa 250.000 decessi nei mesi successivi. Nonostante il governo avesse ricevuto quel report già il 12 marzo, bisognerà aspettare il 23 marzo, con 6650 casi e 335 vittime accertate, per l’annuncio del lockdown e la chiusura di locali pubblici. In questo contesto hanno avuto luogo diversi grandi eventi con migliaia di persone: due esempi tra tanti, il concerto a Cardiff degli Stereophonics del 14 marzo e la mezza maratona a Bath il giorno successivo. Continuavano a vedersi poche mascherine per le strade e addirittura molte persone schernivano chi le portava; nei supermercati iniziavano i litigi tra le persone che si contendevano la carta igienica e la pasta (senza rispettare ovviamente le distanze di sicurezza), e i prezzi di diversi generi alimentari cominciavano a salire. Il mese di marzo si concludeva con i messaggi di speranza e di unione della regina Elisabetta II, trasmessi a livello nazionale, mentre Boris Johnson e Matt Hancock, segretario alla sanità, risultavano positivi al virus.
Il picco è stato raggiunto intorno alla seconda settimana di aprile, mese nel quale il paese ha visto morire quasi mille persone al giorno. I governi di Scozia, Galles e Irlanda del Nord (e molti giornalisti e parlamentari degli stessi paesi) hanno cominciato già da allora a chiedere pubblicamente un’estensione del periodo di negoziato Brexit a causa della crisi. Diversamente la pensava David Frost, incaricato dal governo britannico per condurre i negoziati con l’Unione europea, il quale il 16 aprile dichiarava in un tweet che, a suo avviso, un’estensione avrebbe creato solamente più incertezze per il futuro del paese. Il partito conservatore portava così avanti uno dei punti principali del manifesto elettorale delle scorse elezioni nazionali di dicembre: come racconta Dimitri Scarlato (responsabile del lobby sulla Ue per l’ associazione the3million), Frost ha più volte ripetuto a Michael Barnier (a capo della task force Ue che si occupa delle future relazioni con il Regno Unito) che in nessun caso la Gran Bretagna avrebbe richiesto un’estensione, nonostante l’Unione europea si fosse sempre mostrata disponibile ad accettare quest’ultima, date le significative divergenze sui temi del negoziato e tenendo conto della crisi sanitaria in atto. Nel frattempo, nel dibattito pubblico, coloro che menzionavano l’estensione venivano spesso tacciati di opportunismo politico, poiché era necessario in quel momento concentrarsi sulla pandemia. Era proprio dal mese di aprile che il governo aveva cominciato con estremo ritardo a trattare il coronavirus come una pandemia straordinaria e non come una no
rmale influenza stagionale.
Le misure di restrizione sono continuate, ma il 13 maggio il governo britannico, pubblicando i dati ufficiali di morti per coronavirus, ha smesso opportunamente di affiancare ai dati del Regno Unito quelli degli altri paesi. Il numero dei decessi, infatti, era ormai diventato il più alto d’Europa, ammontando a circa 33.000 unità. In questo scenario desolante, nel mese di maggio è scoppiato lo scandalo di Dominic Cummings, il consigliere personale del primo ministro, considerato lo “stratega” della Brexit. Cummings durante il mese di aprile ha viaggiato per migliaia di chilometri nel Regno Unito con la moglie e il figlio, violando il lockdown, pur avendo peraltro dei chiari sintomi del Covid-19. Alla fine del mese di maggio il consigliere ha dichiarato che non aveva intenzione di dimettersi per la sua condotta, strenuamente difesa dallo stesso Boris Johnson. Bisognerebbe chiedersi perché un uomo scaltro come il leader conservatore ha scelto di seguire questa linea, con il rischio di perdere consensi. La ragione principale è politica: Cummings, fedele a Johnson, è colui che ha avuto un ruolo fondamentale nei giochi di potere all’interno del governo conservatore: difenderlo significava proteggere tutto ciò che era stato costruito politicamente fino a quel momento.
Il 30 giugno, data di scadenza per richiedere ufficialmente un’estensione del periodo di negoziato, l’Ue non ha ricevuto alcuna richiesta di proroga da parte del Regno Unito. Il 3 luglio Johnson ha rilasciato un’intervista alla Leading Britain’s Conversation Radio (LBC Radio) durante la quale affermava di considerarsi sufficientemente ottimista riguardo ai negoziati in corso; ha aggiunto, inoltre, che se non si dovesse giungere a un agreement, un no deal rimane una buona opzione, considerando l’eventualità di stringere accordi bilaterali con altri paesi, ad esempio l’Australia. Diversamente la pensa Barnier, il quale lo scorso 9 luglio ha scritto in un tweet che rimangono “divergenze significative” tra l’Unione europea e la Gran Bretagna sugli accordi di scambio commerciale post-Brexit, e che inevitabilmente ci saranno dei cambiamenti importanti nel Regno Unito dopo il primo di gennaio 2021. All’inizio di luglio il paese ha cominciato progressivamente a tornare alla normalità con l’apertura di alcuni esercizi commerciali come pub, bar, ristoranti, attrazioni turistiche, luoghi di culto e alcuni esercizi commerciali per la cura della persona.
Analizzando gli eventi appena riportati, si può prima di tutto affermare che Boris Johnson ha voluto mantenere la sua linea politica sulla Brexit e sull’estensione ad ogni costo. Nel mese di gennaio e febbraio il leader conservatore ha sottovalutato i rischi della pandemia senza preoccuparsi dei seri avvertimenti da parte del SAGE. Questo perché, come sostengono Andrea Pisauro e Laura Parker in un report sulla gestione della pandemia nel Regno Unito, il leader conservatore si è opposto al lockdown ideologicamente, trattando la crisi sanitaria come un nemico politico. Da metà marzo però il governo si accorgeva che questo approccio avrebbe creato un problema di consensi se la Gran Bretagna fosse giunta al collasso sanitario a causa delle scelte governative. Johnson cambiava così rotta, investendo più risorse per combattere la pandemia. Ma oramai le conseguenze dei ritardi del governo iniziavano a mostrarsi durante il mese di aprile: il popolo britannico ne ha pagato le conseguenze piangendo migliaia di morti che si sarebbero potuti evitare.
Nonostante la tragedia in corso e le richieste dei governi di Scozia, Galles e Irlanda del Nord, il n. 10 di Downing street non ha mai preso in considerazione la possibilità di richiedere un’estensione del periodo delle negoziazioni. Le ragioni principali che spingono il governo a portare avanti questa linea politica sono due: difendere la Brexit significa mantenere la coerenza politica su un tema che ha portato Johnson a vincere le elezioni in Gran Bretagna lo scorso 12 dicembre. La richiesta di un periodo di estensione avrebbe significato inclinare gli equilibri all’interno del partito conservatore a discapito di Johnson e a “tradire” gli elettori che lo avevano votato. Il secondo motivo è invece legato alla fase di transizione in cui il paese si trova in questo momento: la Gran Bretagna non ha più propri parlamentari europei e non prende parte alle riunioni dei Consigli europei. Ma nel frattempo, durante le negoziazioni, quasi tutte le regole Ue continuano ad essere vigenti nel paese. Per questa ragione, pur di uscire da questo limbo e cominciare a concludere accordi bilaterali con paesi terzi, il governo manterrà la data di scadenza dell’accordo per il 31 di dicembre 2020.
Nel mezzo del cammino della Brexit però, si è inserita una crisi sanitaria; tuttavia Johnson ha deciso di non preoccuparsi di quest’ultima e andare avanti con il suo piano strategico senza retrocedere, nonostante l’incertezza che una pandemia globale possa comportare sul futuro. Johnson dunque continuerà ad agire nel modo che gli è più consono: scommettere con estremo cinismo. È infatti con questo atteggiamento che ha ignorato la pericolosità della pandemia, ed è con lo stesso cinismo che scommetterà sulla combinazione della crisi economica post-coronavirus e post-Brexit.
Come ha fatto notare a fine aprile l’economista Brunello Rosa in un’intervista per Europa Today, il leader conservatore forse tenterà retoricamente di nascondere gli effetti nefasti della Brexit con la crisi economica mondiale post-pandemia. Si paventa l’ipotesi che da questa crisi Londra non si riprenderà, e che quindi il Regno Unito cambierà il suo ruolo nel mondo. D’altro canto, vi è la possibilità che la Gran Bretagna recuperi un prestigio politico-economico nella sua nuova formazione di non-membro Ue, rafforzando un’idea di mondo in cui le parole d’ordine diventino nazionalismo, capitalismo e laissez faire. Questa è la scommessa che Johnson sta portando avanti. Il problema però è che nel mezzo di questa grande sfida politica e storica c’è un intero paese che, a causa del suo atteggiamento azzardato, ha già visto milioni di persone peggiorare le proprie condizioni di vita e altre migliaia hanno perso i propri cari.
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