Religione a scuola: quando lo Stato rinuncia al suo ruolo
Cinzia Sciuto
È tempo di iscrizioni scolastiche, che riguardano milioni di famiglie alle prese con la scelta della scuola per il prossimo anno. Sui moduli delle scuole statali, a partire addirittura dalla scuola dell’infanzia, tra i vari campi da riempire c’è anche quello «per l’esercizio del diritto di scegliere se avvalersi o non avvalersi dell’insegnamento della religione cattolica». Una manifestazione di libertà, si dice. Un’abdicazione dello Stato al suo ruolo, in verità.
I genitori che ritengono che il posto della religione non sia nella scuola (pubblica) ma nelle chiese e nelle case, possono richiedere che il figlio esca dall’aula quando entra l’insegnante di religione. Per andare dove? A fare cosa? Quando va bene, la scuola organizza non meglio specificate «attività sostitutive», quando va male i bambini-ragazzi bighellonano per i corridoi in attesa che finisca l’ora di religione oppure entrano o escono prima da scuola se si tratta delle ore iniziali o finali della giornata scolastica. Per cui l’«alternativa» che si presenta al genitore è una sorta di segregazione: mentre (quasi) tutti i tuoi compagni rimangono in classe, tu (insieme a pochi altri) devi uscire e inventarti qualcos’altro da fare. Scelta di cui poi bisogna in qualche modo rendere conto ai figli, e molto probabilmente è più semplice spiegare a un bambino di 3 anni che l’uomo è un animale venuto fuori dopo centinaia di migliaia di anni di evoluzione naturale, piuttosto che fargli capire perché quando arriva la maestra di religione lui deve uscire dall’aula.
Ora, i casi sono due: o l’insegnamento della religione cattolica è parte integrante della formazione che la scuola pubblica intende dare ai suoi alunni, e allora non può essere consentito a nessuno di rinunciarvi, esattamente come nessun genitore può pretendere che il figlio non segua le lezioni di italiano, matematica e persino di educazione fisica; oppure l’insegnamento della religione cattolica è questione demandata alle scelte della famiglia, e allora non si capisce perché queste scelte debbano essere realizzate a scuola. La formazione dei propri figli è una questione complessa, nella quale entrano diverse «agenzie» formative, con ruoli distinti. Dopo la scuola, ogni famiglia decide in completa autonomia come «integrare» la formazione dei figli e sarebbe del tutto insensato pretendere che la scuola (pubblica) copra interamente lo spettro delle opzioni formative delle famiglie.
Uno Stato confessionale ha il pieno diritto di prevedere nell’ambito dei curricula scolastici della scuola pubblica l’insegnamento della religione, poiché in questo modello statuale essa costituisce non già un aspetto della vita privata delle persone, ma parte integrante (e anzi fondamentale) della formazione «civica» dei cittadini. I Patti Lateranensi, recepiti nell’articolo 7 della nostra Costituzione, fino alla loro revisione del 1984, definivano la religione cattolica «religione di Stato» ed era pertanto comprensibile e, a rigor di logica, persino doveroso che lo Stato la inserisse tra gli insegnamenti obbligatori della scuola pubblica.
Nel 1984 però quella clausola fu abolita e la religione cattolica è (dovrebbe essere) oggi una religione al pari delle altre (sebbene continui a godere di uno status privilegiato, ormai non più giustificato), tanto che proprio quella revisione, abolendo la «religione di Stato», abolì anche l’obbligatorietà dell’insegnamento della religione cattolica. Se non c’è una religione «di Stato», la religione diventa questione privata, personalissima che può rappresentare per molti (al limite: per tutti) un’aspetto centrale della propria vita e che può ovviamente esprimersi pubblicamente in tutte le forme e i limiti garantiti dalla libertà di espressione e associazione di tutti i cittadini, ma non può costituire insegnamento in una scuola pubblica.
E scaricare sui genitori la scelta rivela soltanto la debolezza di uno Stato, incapace di assumersi la responsabilità della formazione dei propri cittadini.
(26 gennaio 2012)
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