Remo Bodei: Pensieri immensi. Leopardi e l’‘ultrafilosofia’

Remo Bodei

Attraverso un’analisi delle sue opere, la dimostrazione di come Leopardi intenda completare l’Illuminismo interrotto mediante un’‘ultrafilosofia’ che si colleghi alla poesia, alla comprensione dell’uomo come essere desiderante e insieme incapace di realizzare l’infinità del suo desiderio.
, da MicroMega 5/2002

1. Al pari di ogni altro essere vivente anche l’uomo, secondo Leopardi, desidera in maniera categorica un piacere infinito, «senza limite» per intensità e durata (1). Perfino nei momenti di maggiore godimento, vorrebbe provarne sempre di più. Per questo, la sua anima, «cercando il piacere in tutto, dove non lo trova, già non può essere soddisfatta, dove lo trova aborre i confini» (ibidem). Eppure vi sono casi, in cui i limiti posti al diretto esplicarsi di un piacere infinito, invece di procurare repulsione, dilettano. Infatti, «Alle volte l’anima desidererà ed effettivamente desidera una veduta ristretta e confinata in certi modi, come nelle situazioni romantiche» (ibidem).

Queste «situazioni romantiche» – definite dalla privazione sensoriale di quanto lo sguardo potrebbe mirare o l’udito ascoltare, qualora non si scontrasse con ostacoli che ne impediscono l’espansione completa – non contraddicono tuttavia il desiderio di piacere. L’immaginazione supplisce, infatti, tale bisogno «fingendo» (ossia simulando) quell’infinito che si situa oltre i confini percettivi: «Allora in luogo della vista, lavora l’immaginazione e il fantastico sottentra al reale. L’anima si immagina quello che non vede, che quell’albero, quella siepe, quella torre gli nasconde, e va errando in uno spazio immaginario, e si figura cose che non potrebbe, se la sua vista si estendesse da per tutto, perché il reale escluderebbe l’immaginario» (ibidem).

Proprio perché tutti i sensi sono limitati (compresa la vista, che tuttavia giunge più lontano di tutti gli altri organi, sino alla percezione di remotissime stelle), l’immaginazione integra per absentiam le loro deficienze. Se i sensi fossero in grado di penetrare dappertutto, l’immaginario non esisterebbe e non potrebbe così surrogare la realtà, non potrebbe procurare quel «piacere ch’io provava sempre da fanciullo, e anche ora nel vedere il cielo ec., attraverso una finestra, una porta, una casa passatoia, come chiamano» (ibidem).

Alla sensazione (bloccata da «impedimenti» spazio-temporali o da incertezze relative alla configurazione dei suoi oggetti) si sostituisce, per compimento e per contrasto, l’immaginazione. In questo modo il piacere, qualora venga per un certo tempo tenuto adeguatamente a freno, scatta infine con forza, alla maniera di una molla compressa: «Qualunque cosa ci richiama l’idea dell’infinito è piacevole per questo, quando anche non per altro. Così un filare o un viale d’alberi di cui non arriviamo a scoprire il fine» (ivi, 25 luglio 1820 e cfr. per numerosi esempi del genere ivi, 20 settembre 1821).

È infatti la negazione o il restringimento delle percezioni sensibili a creare un mondo complementare (ossia non speculare e non opposto) a quello immediatamente esperito tramite la vista, l’udito, il tatto, l’olfatto e il gusto. Tale «spazio immaginario» appare, per certi versi, uno spazio concavo rispetto alla convessità di quello reale, in quanto derivante da un calco ipotetico e congetturale di essa. Per certi altri aspetti, è invece antagonistico, in quanto nasce da un desiderio di infinito che, privo di corrispondenza con questo mondo inadatto a rappresentarlo, non solo non lo rispecchia, ma è costretto a riformularlo secondo altre regole.

Questo significa che il piacere strappato nel campo dell’immaginario ha luogo in un terzo mondo insituabile, in una «realtà altra» costruita soprattutto dalla poesia e dall’arte in genere, entro uno «spazio» che non è né vero, in senso mimetico-speculare, né falso, nel senso dell’invenzione o dello stravolgimento interamente arbitrari (sebbene la sua materia, al pari di quella di tutte le «illusioni», sia fatta di «solido nulla»: ivi, 8 gennaio 1820). Si tratta, piuttosto, di uno spazio da sempre duplice, composto di percezione e immaginazione, di razionalità e di desiderio, di oggettività e di soggettività, che ha il suo analogo nell’eco delle «ricordanze» (ossia nel presente o nello spazio percettivo che rievocano l’assenza del passato e del futuro o la lontananza indefinita degli «interminati spazi», dei «sovrumani silenzi»), in cui l’esperienza si raddoppia: «[…] Qui non è cosa / Ch’io veggia o senta, onde un’immagin dentro / Non torni, e un dolce rimembrar non sorga / Dolce per sé; ma con dolor sottentra / Il pensier del presente, un van desio / Del passato, ancor tristo, e il dire: io fui» (2).

Succede come il «vagare» nel senso del viaggio: «Chi viaggia molto, ha questo vantaggio dagli altri, che i soggetti delle sue rimembranze presto divengono remoti; di maniera che esse acquistano in breve quel vago e quel poetico, che negli altri non è dato se non dal tempo. Chi non ha viaggiato punto ha questo svantaggio, che tutte le sue rimembranze sono di cose in qualche parte presenti, poiché presenti sono i luoghi ai quali la sua memoria si riferisce» (Pensieri, LXXXVII). Il limite non viene rappresentato, nell’Infinito, soltanto dal visibile (dalla siepe e dal buio oltre la siepe), ma anche dall’udibile (dallo stormire delle fronde della «morta stagione» e della «presente e viva») (3). In altre poesie – come Le ricordanze – da rumori e odori che rivivono nello sdoppiamento dell’anamnesis:

[…] Qui non è cosa

Ch’io veggia o senta, onde un’immagin dentro

Non torni, e un dolce rimembrar non sorga.

Dolce per sé; ma con dolor sottentra

Il pensier del presente, un van desio

Del passato, ancor tristo, e il dire: io fui

(II strofa, vv. 5-9).

2. Inseguendo il piacere, vorremmo conseguire l’infinito, ma ciò che non ha limiti, resta per noi una meta irraggiungibile, giacché è frutto della nostra ignoranza e, insieme, una forma del nulla: «Pare che solamente quello che non esiste, la negazione dell’essere, il niente, possa essere senza limiti, e che l’infinito venga in sostanza a esser lo stesso nulla» (ivi, 1 maggio 1826). Del resto, l’infinito e l’eterno sono terribili quanto il nulla: «L’orrore e il timore che l’uomo ha, per una parte, del nulla, per l’altra, dell’eterno, si manifesta da per tutto, e quel mai più non si può udire senza un certo senso» (ivi, 11 febbraio 1821). La natura offre l’idea di infinito come illusione che serve a favorire la «nostra felicità temporale» e non, come sostengono gli «scrittori religiosi» come segno in noi della nostra incapacità di contentarci del mondo, di prova dell’esistenza di «una vita futura» (ivi, luglio 1820). In realtà l’uomo non coglie mai l’infinito: «Niente infatti nella natura umana annuncia l’infinito. L’infinito è un parto della nostra immaginazione, della nostra piccolezza a un tempo e della nostra superbia» (ivi, 20 settembre 1827). Noi scambiamo l’infinito con l’indefinito offertoci dalle operazioni di continuo rinvio dalla percezione all’immaginazione. Ciò non dipende unicamente l’irraggiungibilità dell’infinito, dal suo carattere privativo (l’universo potrebbe essere addirittura «un’illusione ottica»: ivi, 20 set
tembre 1827), e neppure dall’inesauribilità del desiderio, dalla sua velleità di onnipotenza che lo induce a vagare per spazi immaginari. Lo slancio verso l’infinito dipende, in positivo (quando cioè provoca piacere), dalla natura intrinsecamente sublime delle «situazioni romantiche».

La categoria del «sublime» – di cui Leopardi si era occupato e di cui conosceva bene le implicazioni e la storia (4) – si rivela qui in veste di conflitto incomponibile tra esclusione e inclusione, limite e illimitato, forma e amorfo. Ed è, appunto, questa tensione a evocare l’infinito attraverso l’indefinito: tanto più il limite è netto, tanto più richiama – per contrasto – l’infinito. Come mostra esemplarmente L’infinito, il sublime scaturisce da un ineseguibile confronto («vo comparando») tra i bordi della siepe e gli «interminati spazi di là da quella» (il «buio oltre la siepe», per così dire); tra il frusciare attuale delle foglie e «i profondissimi silenzi»; tra «le morte stagioni» e la «presente e viva e il suon di lei». Con la comparazione – in cui il limite raffigura il termine medio di esclusione e di inclusione – inizia il trattenimento infinito della poesia, come raddoppiamento ed eco di un’assenza nella presenza della parola sentita e pensata, nel rinvio reciproco tra la percezione e l’immaginazione, l’attualità puntuale del tempo e dello spazio e l’eterno e l’infinito di cui ci «sovveniamo». L’arte è allusione a spazi immaginari che si spalancano attraverso il sensibile, non he­ge­liano apparire sensibile dell’idea, incarnarsi. È rinvio a quel­l’infinito che non si può cogliere, ma che si scambia con l’indefinito.

L’infinito si può tuttavia sfidare assumendo un atteggiamento contemplativo («sedendo e mirando», come nell’Infinito, o «tacito, seduto in verde zolla», come nelle Ricordanze). Ma la contemplazione implica, specie nel caso del sublime, il mantenimento di una distanza di sicurezza rispetto all’infinità spazio-temporale che, se colta, ci annienterebbe: «L’infinito non si può esprimere se non quando non si sente: bensì dopo sentito: e quando i sommi poeti scrivevano quelle cose che ci destano le ammirabili sensazioni dell’infinito, l’anima loro non era occupata da veruna sensazione infinita; e dipingendo l’infinito non lo sentiva. I sommi dolori corporali non si sentono, perché o fanno svenire o uccidono» (Z, I, 364 [714], 4 marzo 1821). Per questo, la posizione fisica e mentale assunta dal poeta è quella del contemplante. In L’infinito Leopardi si descrive “sedendo e mirando”; nelle Ricordanze si rivede

[…] allora

Che, tacito, seduto in verde zolla,

Delle sere io solea passar gran parte

Mirando il cielo, ed ascoltando il canto

Della rana rimota alla campagna!

E la lucciola errava appo le siepi

E in su l’aiuole, sussurrando al vento

I viali odorati, ed i cipressi

Là nella selva; e sotto al patrio tetto

Suonavan voci alterne, e le tranquille

Opre de’servi. E che pensieri immensi,

Che dolci sogni mi spirò la vista

Di quel lontano mar, quei monti azzurri,

Che di qua scopro, e che varcare un giorno

Io mi pensava […]

(I strofa, vv. 9-22).

A tale distanza di sicurezza si può solo rinviare in un dolce naufragio o uno «svenimento» del pensiero: «L’infinito non si può esprimere se non quando non si sente: bensì dopo sentito: e quando i sommi poeti scrivevano quelle cose che ci destano le ammirabili sensazioni dell’infinito, l’anima loro non era occupata da veruna sensazione infinita; e dipingendo l’infinito non lo sentiva. I sommi dolori corporali non si sentono, perché o fanno svenire o uccidono» (ivi, 4 marzo 1821). Il pensiero vuol determinare e l’indeterminato e il finito, ma la comparazione non conduce alla conciliazione di entrambi e si conclude con un fallimento, poiché l’immaginazione deborda rispetto alla metrica della ragione, alla sua volontà di misurare e trovare una proporzione e dei confini (5).

Dinanzi alla contemplazione di simili spettacoli, solo l’atteggiamento di relativa lontananza evita la caduta nel terrore. Si ricordi l’espressione dell’Infinito: «Ove per poco il cor non si spaura» (6), che richiama direttamente l’estetica di Burke, in cui il terrore – come attrazione-repulsione, visione di una minaccia alla nostra selfpreservation e, insieme, attrazione per la morte, «regina di tutti i terrori» – sta alla base del sublime, del quale «l’infinito» è nell’Inquiry una delle più specifiche manifestazioni (II, VIII).

Contro le opinioni del padre Monaldo, il quale era fiero avversario delle teorie copernicane, Giacomo le ha ben presto condivise. Assieme ad esse, ha subito lo choc permanente dell’idea che Pascal (e, in misura minore, il Fontenelle di La pluralité des mondes) aveva della posizione dell’uomo nel carcere buio dell’universo. Anche per lui l’uomo è pascalianamente una canna, che sente la sua «piccolezza» nell’universo. Certo, una canna che pensa, sebbene il suo «pensiero», rifiutando ogni «scommessa», sia destinato al naufragio (7). Al kantiano «sublime matematico», spazio-temporale, dell’Infinito, si affiancherà poi nella Ginestra il «sublime dinamico» della potenza naturale dello «sterminator Vesevo».

Leopardi è un poeta del cosmo, vede la storia umana all’interno di lenti processi naturali: «Sta natura ognor verde, anzi procede / Per sì lungo cammino, / Che sembra star. Caggiono i regni intanto, / Passan genti e linguaggi: ella nol vede / E l’uom di eternità si arroga il vanto» (La ginestra, 292-296). La sua visione non è antropocentrica. Come Spinoza, di cui non sembra peraltro avere una conoscenza diretta, anch’egli non considera l’uomo «un impero in un impero»: la sua vicenda è sempre all’interno delle vicende della natura.

3. Se, dunque, l’infinito ci è precluso, non solo dal lato della conoscenza, ma persino da quello dell’immaginazione, che mira sempre a oltrepassare i suoi limiti, quel che ci resta è la facoltà di concepire indefinitamente: «La qual cosa ci diletta perché l’anima non vedendo i confini, riceve l’impressione di una specie di infinità, e confonde l’indefinito coll’infinito, non però comprende né concepisce effettivamente nessuna infinità» (ivi, 4 gennaio 1821). È appunto il gioco del confondere l’indefinito con l’infinito e del nascondere i limiti – mediante «la vastità e molteplicità delle sensazioni» (ivi, 12-13 luglio 1820) – a impedire l’esaurimento istantaneo del piacere.

L’errare, il vagare, il perdersi e il naufragare sono i tratti distintivi non solo dell’illusione, ma della bellezza nella sua non immobile forma. Menzionare le «vaghe stelle dell’Orsa» o «il pastore errante» conferma – sin troppo facilmente, una volta accertata l’ipotesi – che tutti qu
esti sistemi di immagini costituiscono, insieme e inseparabilmente, la cangiante fisionomia della bellezza e dell’indefinito. Se si preferisce: della bellezza in quanto nomadico vagare nell’indistinzione dello «spazio immaginario» che si genera dal tagliente bordo dei limiti e dalla rete non chiusa dei rinvii tra il determinato e l’indeterminato. In questo senso, entro l’ambito dell’immaginazione, la poesia è appunto quella che desta emozioni vivissime, riempendo l’animo di idee vaghe e indefinite proprio a partire da ciò che è preciso, definito.

Nell’interporre degli sbarramenti, cesure, silenzi, ambiguità al desiderio di ulteriori progressi verso un inattingibile infinito, l’al di qua (rispetto a noi) o la forma sensibile vengono determinati, finiti, mentre l’al di là sfuma nell’informe, nello Streben dei romantici, dei letterati e dei filosofi tedeschi, che Leopardi certamente non ama (8).

Ma il limite che il desiderio vorrebbe valicare in direzione del­l’infinito è ponte e barriera: unisce e divide, confonde e separa. È l’insistenza su questa sua natura bifronte che distingue Leopardi tanto dalla tradizione classica e neoclassica, da un lato, quanto dal Romanticismo tedesco (e, in parte, europeo) dall’altro. Egli rifiuta infatti, contemporaneamente, tanto l’esaltazione della «bella forma», quella chiusa di lontana origine pitagorica, basata sulla precisione matematica dei suoi confini, che non allude allo «spazio immaginario» oltre se stesso (tentando di imprigionarlo al suo interno), quanto la tendenza romantica alla forma sperimentalmente aperta o alla dissoluzione schlegeliana dell’ordine tradizionale nel «caos» e della forma nell’amorfo. Il doppio limite si presenta così, simultaneamente, come «romantico», in quanto «il guardo esclude» qualcosa, facendo subentrare l’immaginazione alla realtà, e neoclassico, forma autoreferenziale, in quanto «il guardo include» il qualcosa nella forma al di qua dei confini. Più netto è il contorno separante, più «vaga» la configurazione che ne risulta; più forte è il contrasto spazio-temporale, più si cerca l’infinito nel limitato e nell’indefinito.

Anche in Leopardi la determinatezza diurna, la pretesa solarità dei classici o dei neoclassici (con il loro insistere sulla visibilità dell’armonia, della proporzione, della misura, sino al punto, ad esempio, di idealizzare in architettura i solidi geometrici come la sfera, il cubo o il cono) sono inaccettabili nella loro tendenza alla perfezione conchiusa. Ma egualmente escluso è anche il ricorso totalizzante all’indeterminato e all’indefinito, alla maniera del Novalis del primo degli Inni alla notte, in cui l’anima desidera sciogliersi, svelando un mondo più vero, nell’indistinzione di spazi fluttuanti abbandonati dalla luce che ha piantato le sue «tende» in «altri mondi». Anche l’estetica di Friedrich Schlegel si basa sullo svanire (Verschwinden) di ogni distinzione nel nulla, in quanto «l’essere è, in sé e per sé, niente; è solo apparenza; è solo il limite del divenire, del tendere» (9).

4. Se non vuole essere un «filosofo dimezzato», il pensatore è tenuto infatti a sperimentare passioni e illusioni: «Chi non ha o non ha mai avuto immaginazione, sentimento, capacità di entusiasmo, di eroismo, d’illusioni vive e grandi, di forti e varie passioni, chi non conosce l’immenso sistema del bello, chi non legge o non sente, o non ha mai letto e sentito i poeti, non può essere un grande, vero e perfetto filosofo, anzi non sarà mai se non un filosofo dimezzato, di corta vista, di colpo d’occhio assai debole, di penetrazione scarsa, per diligente, paziente e sottile, e dialettico e matematico ch’ei possa essere; non conoscerà mai il vero, si persuaderà e proverà colla possibile evidenza cose falsissime eccetera. Non già perché il cuore e la fantasia dicano sovente più vero della fredda ragione, ma perché la stessa freddissima ragione ha bisogno di conoscere tutte queste cose, se vuol penetrare nel sistema della natura, e svilupparlo. […] La ragione ha bisogno dell’immaginazione e delle illusioni ch’ella distrugge» (ivi, 4 ottobre 1821). Essendo la ragione stessa materiale (10), per adeguarsi a un mondo intrecciato con il «solido nulla», essa stessa ha bisogno della poesia. Entrambe, ciascuna al suo posto e con strumenti differenti ma complementari (il «ghiaccio» e il «fuoco»), devono contemporaneamente unire e separare il limite e l’illimitato. Solo che ciò deve avvenire mediante una sintesi unilaterale degli opposti, in cui ciascuno tiene l’altro sullo sfondo senza assorbirlo.

Leopardi intende completare l’Illuminismo interrotto attraverso un’«ultrafilosofia» che si colleghi alla poesia, alla valutazione esatta della natura dell’uomo come essere desiderante e, insieme, incapace di realizzare l’infinità del suo desiderio e della sua ricerca del piacere. Si potrebbe dire che l’«ultrafilosofia» non è altro che la prosecuzione della filosofia con i mezzi della poesia. Essa rompe l’isolamento tra ragione e immaginazione, realtà e desiderio, chiarezza concettuale e vaghezza fantastica. Solo chi è, insieme, filosofo e poeta conosce la realtà.

Il carattere corrosivo e negativo della ragione viene posto in un rapporto di complementarietà antagonistica con l’inestirpabilità del­le illusioni. Leopardi crede che, effettivamente, la filosofia, specie quella moderna, non sia «capace di operare nulla». Rispondendo a chi lo critica, dice infatti: «Che i miei princìpi sieno tutti negativi io non me ne avveggo; ma ciò non mi farebbe gran meraviglia, perché mi ricordo di quel detto di Bayle, che in metafisica e in morale, la ragione non può edificare, ma solo distruggere» (11). Ma questo non diminuisce il ruolo del pensiero filosofico e scientifico. Combattendo le illusioni, le passioni e i desideri umani in quanto li conosce, la ragione mostra la cruda verità dello stato «basso e frale» dell’uomo nell’universo, ma nello stesso tempo mette alla prova la forza delle illusioni e sa che queste, le più robuste e vitali, resisteranno, indomite, sempre.

Al pari della percezione sensibile, la ragione «esclude», limita, ritaglia con esattezza i contorni delle idee, pone un freno al piacere e ai desideri. Ma – come nel caso delle «situazioni romantiche» – l’«ultrafilosofia» ha bisogno, simultaneamente, dei rigorosi limiti della ragione e del vago «spazio immaginario» delle illusioni e dei desideri. Solo così può cogliere la condizione umana, la lotta ineludibile tra le illusioni vitali che, potate dalla ragione, nondimeno rifioriscono continuamente, e il carattere critico e distruttivo della ragione stessa, che non è però in grado di distruggere le illusioni più forti.

5. In tale prospettiva vanno considerati i discorsi critici sul «Leo­pardi progressivo» o conservatore, rivoluzionario o nichilista, riconoscendo che fuoriesce da queste categorie, proprio perché imposta una concezione nuova, lontana tanto dal liberalismo del suo tempo, quanto dal pensiero reazionario e vicina, piuttosto, a una critica degli usi della modernizzazione e non della modernizzazione stessa. Pe
r questo, appunto, non è contro l’avanzamento della tecnica e delle scienze ossia, contro «le ferrate vie», gli «alambicchi», «le storte», il «vapor» o le «macchine al cielo emulatrici» (cfr. Palinodia al marchese Gino Capponi, 42-45, 49-51). È invece contro l’ideologia di un progresso che promette all’uomo un’esistenza banale, un immaginario paradiso terrestre, in cui la felicità è data dal possesso e dal consumo di cose effimere che dovrebbero invece riempire la vita – nuovi tessuti, canapè o pentole alla moda (12) – ma che non possono soddisfare a pieno le più profonde aspirazioni degli uomini. Queste illusioni sono anzi nocive, perché – oltre a indebolire ulteriormente la natura umana – le impongono una doppia taglia: quella di incrementare un’economia di profitto e di guerre, mossa da «cagion qual si sia ch’ad auro torni» (ivi, 68), e quella di distogliere lo sguardo dalla vera condizione umana, dal dolore ma anche dalla sfida audacemente rivolta alle potenze dell’annientamento.

Leopardi si oppone dunque alle illusioni alimentate dal «secol superbo e sciocco», dominato dalle gazzette, che rischiano di diventare unica fonte di conoscenza e di trasformare gli uomini in animali da allevamento, in esseri gregari incapaci di essere all’altezza della loro condizione, di valutarsi appieno con «magnanimità» (viene qui mantenuto il senso aristotelico di megalopsychia, di capacità di stimare se stessi al giusto, in questo caso di valutare l’umanità attuale senza superbia, ma anche senza umiltà cristiana, errori complementari per eccesso e per difetto). Chi invece «di sue cose / Fa stima al vero uguale», è un «magnanimo animale» (La ginestra, 96-98). «Nobil natura» è quella di chi vede la vera condizione umana e cerca di smascherare coloro che dicono di credere nel progresso, mostrandoli incapaci ed illusi, in quanto attribuiscono all’uomo – con leggerezza o con cattiva coscienza – facoltà prometeiche che non possiede.

Il primo passo per uscire dalle meschine illusioni attuali consiste nel riconoscimento preliminare e sobrio della nostra condizione di miseria e di sofferenza. Bisogna confessare «il mal che ci fu dato in sorte», spezzando la tendenza ad incolparne l’uomo, a dargli questa responsabilità del male, che dipende invece dalla «natura», ossia dalla machina mundi impersonale, indifferente alla sorte delle sue creature. Sublime, in questo caso, è sollevarsi dalla banalità guardando con atteggiamento di sfida il potere della natura.

La nobiltà e la dignità dell’uomo consistono non solo nel conoscere la fragilità del suo stato, ma, anche e soprattutto, nel combattere le forze autodistruttive, che lo pongono in contraddizione con se stesso, presenti ormai da tempo (dalla fine della «virtù antica», cfr. Bruto minore, e dal primo consolidarsi del cristianesimo paolino), rinsaldando quei legami civili che – lucrezianamente – sorgono dall’orrore dinanzi alla natura (13). Il male è umanamente dato dal cieco, stupido e vanitoso orgoglio di una ideologia del progresso che non valuta adeguatamente i fini, che rifiuta il pensiero e la crescita possibile della verità, che crede di andare avanti, mentre retrocede rispetto al periodo che va dal Rinascimento all’Illuminismo («Che il calle insino allora / Dal risorto pensier segnato innanti / Abbandonasti, e volti indietro i passi, / Del ritornar ti vanti, e procedere il chiami», La ginestra, 55-58), in quanto rifiuta di conoscere adeguatamente lo stato in cui si trova.

Alla fine ogni essere, compreso l’uomo «magnanimo», verrà distrutto dalle stesse potenze naturali che hanno contribuito a creare le precondizioni della sua esistenza. Tale individuo non sarà tuttavia così vile da rivolgersi ad esse o a qualsiasi altra divinità nella vana speranza di venir risparmiato, né così superbo da ignorarle e da credere di averle sconfitte attraverso i progressi della scienza e della società. Morirà, certo, ma non intimamente sconfitto o connivente con l’aggressore. Questa sublime verticalità del soccombere in piedi, guardando avanti, senza chinare il capo ma senza innalzarlo superbamente al cielo, è l’unica forma di dignità che resta all’uomo. Il suo destino sarà simile a quello della ginestra:

E piegherai

Sotto il fascio immortal non renitente

Il tuo capo innocente:

Ma non piegato insino allora indarno

Codardamente supplicando innanzi

Al futuro oppressor; ma non eretto

Con forsennato orgoglio inver le stelle

[…]

(ivi, vv. 304-310).
NOTE

(1) G. Leopardi, Zibaldone di pensieri, 12 febbraio 1821 (in seguito indicato come Z).

(2) Le ricordanze, 5-9. E cfr. Z, 30 novembre 1828: «All’uomo sensibile e immaginoso, che viva, come io sono vissuto gran tempo, sentendo di continuo e immaginando, il mondo e gli oggetti sono in certo modo doppi. Egli vedrà con gli occhi una torre, una campagna; udrà con gli orecchi il suono di una campana; e nel tempo stesso coll’immaginazione vedrà un’altra torre, un’altra campagna, udrà un altro suono. In questo secondo genere di obietti sta tutto il bello e il piacevole delle cose». Cfr. anche F. Ferrucci, Il formidabile deserto. Lettura di Giacomo Leopardi, Fazi Editore, Roma 1998, pp. 29-43.

(3) L’antitesi tra gli elementi finiti «questo colle», «quella siepe» e quelli infiniti o il contrasto interno a «questa / immensità» sono stati osservati, secondo un punto di vista puramente stilistico, da D. Bini, A Fragrance from the Desert: Poetry and Philosophy in Giacomo Leopardi, Stanford French and Italian Studies, Anma Libri, Saratoga 1983.

(4) Leopardi ha letto e meditato diversi libri sull’argomento. Nella sua biblioteca si trovano, in particolare, due edizioni dello Pseudo-Longino (Trattato sul sublime, a cura di F. Gori, Bologna 1748, e D. Longini, Opera, graece et latine, Oxford 1778: è un testo che inizia anzi a tradurre il 24 dicembre 1826, pur senza procedere oltre) e la traduzione italiana, pubblicata a Macerata nel 1804, di E. Burke, A Philosophical Inquiry into the Origins of Our Ideas of the Sublime and the Beautiful. Su questi aspetti, da prospettiva diversa da quella che presento, si vedano i pregevoli studi di N.J. Perella, Night and Sublime in Giacomo Leopardi, University of California Press, Berkeley-Los Angeles 1970, e di R. Marchini Iodi, «Leopardi e l’Anonimo del Sublime», in Poesia e stile della lirica leopardiana, Bulzoni, Roma 1981.

(5) In A. Negri, l’irraggiungibilità dell’infinito (cfr. Lenta ginestra. Saggio sull’ontologia di Giacomo Leopardi, SugarCo, Milano 1987, p. 43) sembra in Leopardi collegarsi all’impossibilità della mediazione, nel senso della dialettica hegeliana. Ma in questo Leopardi non si allontana dall’impostazione data al problema da Burke (o da Kant, che però non conosceva se non indirettamente).

(6) Il «cor» va comunque distinto dal «pensier», nel medesimo e in altri contesti: può essere inteso sia in senso tradizionale, sia – rousseauianamente, nelle parole dell’Emilio – come sede di una ragione non separata dal sentimento, come «ragione perfezionata col sentimento». Legate a esplicite o implicite suggestioni heideggeriane sono invece le analisi su L’infinito di G. Agamben, Il linguaggio e la morte. Un seminario sul luogo della negatività, Einaudi, Torino 1981, pp. 82-102, e di A. Prete, «Finitudine e infinito», in Leopardi e il pensiero moderno, Feltrinelli, Milano 1989, pp. 50-65.

(7) In questo senso non è del tutto esatto quanto si dice nell’acuto articolo di G. Mac­chia, «La paura di Pascal vinta dalla poesia», in Saggi italiani, Mondadori, Milano 1983, pp. 272-274.

(8) Cfr. Paralipomeni, I, 17 ss.; Z, 30 agosto 1822, e L. Cellerino, L’io del topo. Pensieri e letture dell’ultimo Leopardi, Nuova Italia Scientifica, Roma 1997, p. 135.

(9) Cfr. F. Schlegel, Kritische Ausgabe, a cura di E. Behler, Schoningh, München-Paderborn-Wien 1938 ss., vol. XII, p. 336: «Das Sein ist an und für sich selbst nichts; es ist nur Schein; es ist nur die Grenze des Werdens, des Strebens».

(10) Cfr. Z, 5 giugno 1820: «Perché infatti la ragione è la facoltà più materiale che sussista in noi, e le sue operazioni materialissime e matematiche si potrebbero attribuire in qualche modo anche alla materia». Si tratta di un’affermazione stoica, riferibile al cosiddetto logos spermatikos o ratio seminalis che governerebbe il mondo attraverso cicli di creazione e distruzione.

(11) Ad Antonio Fortunato Stella, 23 agosto 1827.

(12) Cfr. Palinodia al marchese Gino Capponi, 109-121: «[…] Più molli / Di giorno in giorno diverranno le vesti / O di lana o di sete. I rozzi panni / Lasciando a prova agricoltori e fabbri / Chiuderanno in coton la scabra pelle, / E di castoro copriran le schiene. / Meglio fatti al bisogno, o più leggiadri / Certamente a veder, tappeti e coltri, / Seggiole, canapè, sgabelli e mense, / Letti, ed altro arnese, adorneranno / Di lor menstrua beltà gli appartamenti; / E nove forme di paioli, e nove / Pentole ammirerà l’arsa cucina».

(13) Sull’uomo «come essere contraddittorio» ha insistito, da un diverso punto di vista, E. Severino, Il nulla e la poesia. Alla fine dell’età della tecnica: Leopardi, Rizzoli, Milano 1990, pp. 661 ss.
(8 novembre 2019)



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