Riapertura delle scuole: la sicurezza è un concetto complesso
Carlo Scognamiglio
I rischi derivanti dalla riapertura delle scuole e quelli della “didattica a distanza”. Perché quando scricchiolano la libertà d’insegnamento e il diritto allo studio la società è indubbiamente fragile, e sotto molti punti di vista insicura.
Occorre riconoscere, in tutta onestà, che elaborare delle disposizioni tecniche per la riapertura delle scuole rimane, nel quadro presente, un’operazione complessa e delicata. Non è sufficiente l’assunzione di responsabilità politica, ma si richiede una determinazione univoca. Invece appare piuttosto languido l’approccio fin qui dimostrato da quasi tutte le istituzioni educative europee. In modo più o meno programmato, procedendo per prove ed errori, si ricomincia un po’ dappertutto. Perché restare a casa protegge dal rischio biologico, ma non tutela la società e le persone da altri fattori di pericolo, nient’affatto secondari.
Tale consapevolezza emerge anche dai documenti tecnici. Ne è un esempio la relazione relativa alle Misure per la riapertura delle strutture della prima infanzia in Europa, pubblicato da Eurydice, che si apre proprio con una dichiarazione di complessità: “L’emergenza Covid-19 ha posto le strutture scolastiche di fronte alla necessità di individuare e organizzare risposte veloci e il più possibile funzionali per il contenimento del virus e, parallelamente, per limitare le ripercussioni di natura psicologica ed educativa sull’utenza coinvolta”.
Il problema della sicurezza, infatti, è sempre più articolato ed eccede l’ambito strettamente biologico. Nella ricerca di soluzioni occorre senz’altro limitare il rischio di diffusione del virus e scongiurare, per quanto possibile, una seconda crisi sanitaria. Abbiamo anche imparato come quest’ultima possa precipitare in una crisi economica, con tutte le conseguenze derivabili. Quando una società s’impoverisce bruscamente, si riattivano pulsioni regressive molto insidiose nella cultura collettiva. L’attuale proliferazione di episodi di discriminazione razziale, alcune sfrontatezze nei confronti degli anziani, la radicalizzazione del conflitto centro-periferia, una certa distrazione rispetto ai problemi delle persone disabili, ne sono solo alcuni esempi.
Come il piano ministeriale di giugno poneva bene in evidenza, il concetto di sicurezza è stratificato, non ha a che fare con il solo rischio della terapia intensiva. La tutela della salute riguarda tutti, ma in particolar modo i soggetti più vulnerabili. Ve ne sono tra gli studenti, tra i lavoratori della scuola e nelle famiglie di ciascuno. Nel legittimo tentativo di proteggere la salute e gli affetti di tutti, bisogna però evitare di alimentare altri fattori di rischio. Per insegnanti e studenti, ad esempio, l’esperienza della didattica a distanza ha garantito un certo mantenimento della relazione educativa, ma ha messo seriamente sotto pressione la vista, la qualità del sonno e il sistema nervoso di molte persone coinvolte, a causa dell’eccessiva esposizione agli schermi. Non a caso, in tutte le istituzioni scolastiche diventa quanto mai urgente aggiornare il Documento per la Valutazione dei Rischi (DVR) e avviare subito un riadattamento contrattuale per definire le modalità di articolazione del lavoro digitalizzato del personale amministrativo e dei docenti.
In termini di sicurezza online, l’improvvisazione e l’inettitudine delle istituzioni appaiono a tratti disarmanti. Fatta eccezione per la retorica evocazione di una piattaforma pubblica efficiente, si continua a consentire ai colossi (privati) del web di costruire una vera e propria biografia cognitiva degli studenti, e quindi anche della futura popolazione adulta, senza peraltro alcuna garanzia di protezione del copyright e di tutela delle informazioni personali. Questo dato, forse giustamente sottovalutato in piena emergenza, avrebbe meritato qualche attenzione in più, rispetto a quanta se ne è dedicata ai banchi monoposto. Sono sei mesi che le scuole sono chiuse. Il tempo per una riorganizzazione non è mancato.
Più che un rischio, l’esclusione scolastica e la limitazione del diritto allo studio sono stati in molte realtà una certezza, specialmente nel primo grado di istruzione. A causa della prolungata chiusura degli istituti scolastici, l’impoverimento sociale e il vuoto culturale costituiscono gravi rischi per la salute psicologica dei ragazzi di oggi, ma anche per il grado di consapevolezza e accortezza della società di domani. Sono effetti poco visibili, e di lungo periodo, ma non possono essere ignorati.
A proposito di sicurezza, esiste inoltre un rischio politico-sociale nel far saltare alcuni principi cardine della Costituzione italiana. Il diritto allo studio è leso quando gli studenti non hanno i mezzi per seguire le lezioni a distanza, quando le famiglie non sono in grado di accompagnarli, quando l’orario scolastico viene ridotto, quando il tempo pieno salta per aria, quando si alimentano le già esistenti differenze di estrazione sociale. Ma anche, come sento dire da alcuni colleghi, quando si programma di accogliere in presenza solo poche classi, lasciando ripartire tutti gli altri con la didattica a distanza (tra l’altro contravvenendo al protocollo di sicurezza, paragrafo 4, e alle stesse linee guida del Ministero, che prevedono il ricorso a questa modalità solo ed esclusivamente in caso di chiusura totale, suggerendo invece soluzioni complementari nella fase di diffusione controllata dei contagi).
Il problema non concerne soltanto la quantità dell’esposizione didattica, ma anche la qualità. Che le nuove tecnologie siano integrate nel processo di insegnamento-apprendimento, come lo sono nelle nostre vite, è lapalissiano. Che si intenda invece piegare la ricchezza dell’esperienza pedagogica europea per adeguare tutto agli applicativi di G-suite è discorso differente.
Seguiamo con attenzione le ultime Linee guida ministeriali per la didattica digitale integrata. In un primo passaggio, si legge che “ogni istituzione scolastica del Sistema nazionale di istruzione e formazione definisce le modalità di realizzazione della didattica digitale integrata, in un equilibrato bilanciamento tra attività sincrone e asincrone. La didattica digitale integrata, intesa come metodologia innovativa di insegnamento-apprendimento, è rivolta a tutti gli studenti della scuola secondaria di II grado, come modalità didattica complementare che integra la tradizionale esperienza di scuola in presenza”. Questa disposizione sembra prescindere dalle specifiche condizioni territoriali. Se ad esempio in una remota provincia montana non vi fossero attualmente casi di contagio, le istituzioni scolastiche, pur avendo eventualmente spazi adeguati a disposizione, dovrebbero comunque attenersi alla prescrizione della DDI. Almeno questo è quanto si evince leggendo il documento. Il che non implica semplicemente il ricorso alla mediazione delle nuove tecnologie nella didattica. Vuol dire invece che parte della didattica dovrà essere svolta a distanza, in modalità sincrona o asincrona, con un adeguato bilanciamento. È ormai acquisito, anche per non farsi trovare impreparati
di fronte a un nuovo lockdown, che tutte le scuole dovranno sintetizzare le attività in presenza con attività a distanza. Perché? La questione non concerne più la sola sicurezza, ma invade un terreno piuttosto spinoso, quello della rivoluzione dall’alto dei metodi di insegnamento. Si legge infatti poco dopo: “Il Collegio dei docenti è chiamato a fissare i criteri e modalità per erogare didattica digitale integrata, adattando la progettazione dell’attività educativa e didattica in presenza alla modalità a distanza, anche in modalità complementare, affinché la proposta didattica del singolo docente si inserisca in una cornice pedagogica e metodologica condivisa, che garantisca omogeneità all’offerta formativa dell’istituzione scolastica”.
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Qui qualcosa suona in modo poco persuasivo: per quale motivo si parla di omogeneità dell’offerta formativa dell’istituzione scolastica, con un riferimento evidente alla metodologia condivisa? Cosa si intende? Sicuramente non ci si riferisce al concetto di coerenza pedagogica, che riguarda l’unità educativa di riferimento, cioè il Consiglio di classe. Come in una famiglia resta un valore (dove è praticabile) la coerenza pedagogica nei metodi e negli insegnamenti impartiti dai genitori, vale lo stesso nei Consigli di classe, dove è auspicabile un’omogeneità d’intenti. Senza forzature, ovviamente: un genitore sconclusionato non deve essere necessariamente emulato dall’altro, in omaggio all’agognata coerenza. Analogo discorso vale per i team educativi.
Ma le linee guida sembrano alludere ad altro. Bisogna sempre vigilare affinché quell’omogeneità non si traduca in una valorizzazione del conformismo didattico, che penalizza la ricerca, la curiosità e la creatività dei docenti più motivati. E soprattutto affinché non si traduca in una limitazione delle possibilità di scelta metodologica. La situazione attuale rischia effettivamente di lasciare spazio allo sfondamento, da parte di un gruppo molto ideologizzato di docenti ed ex-docenti che hanno raggiunto una discreta visibilità (con siti web e attività di formazione), e divenuti interlocutori o gruppi di pressione presso i tecnici del ministero, con lo scopo di produrre un’ingegnerizzazione dell’insegnamento. Tale aspirazione è più frutto di ignoranza, che di malafede. Ma evidentemente ci si avvicina gradualmente a un’erosione dell’articolo 33 della Costituzione italiana.
E quando scricchiolano la libertà d’insegnamento e il diritto allo studio, la società è indubbiamente fragile, e sotto molti punti di vista insicura.
(14 agosto 2020)
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