Riaprono i musei: propositi e letture dopo il lockdown. Intervista a Edith Gabrielli
Iniziamo una serie di interviste ai direttori dei musei e siti archeologici e storico-artistici italiani che gradualmente hanno riaperto o stanno riaprendo al pubblico. L’interesse da parte dei cittadini, tornati alla riscoperta del patrimonio dopo i mesi dell’isolamento e della paura, è stato significativo; ma tante e complesse sono le sfide che aspettano ora la fruizione culturale e il sistema museale del nostro Paese.
intervista a Edith Gabrielli di Mariasole Garacci
Partiamo da un paio di domande generali sui propositi, le responsabilità e le problematiche posti dal suo ruolo. Lei è attualmente a capo della Direzione Regionale dei Musei Lazio e, ad interim, della Direzione Musei Statali della città di Roma. Insieme le due Direzioni riuniscono il patrimonio già del Polo Museale del Lazio, un ufficio che fino al 30 marzo 2020 ha gestito 46 siti fra musei, aree archeologiche e luoghi di interesse storico-artistico. Stiamo parlando di un insieme di straordinaria importanza, ma anche notevolmente eterogeneo per storia, caratteristiche, e per attenzione da parte del pubblico. Come si gestisce un patrimonio tanto vasto, e come si può promuoverne la conoscenza al di fuori dei percorsi più battuti?
La risposta corretta è: grazie alla museologia. Potrei anche fermarmi qui, ma credo che i tempi attuali e i lettori di MicroMega richiedano un minimo di approfondimento. Vede, non appena il Polo, anzi i Poli Museali divennero operativi, nel marzo 2015, in molti si domandarono: come si possono gestire insieme siti così diversi e come può uno storico dell’arte occuparsi di archeologia, o viceversa, come un archeologo di storia dell’arte? Fatto ironico, quasi sempre le stesse persone contestualmente tuonavano contro l’eccesso di frammentazione nei meccanismi di gestione del patrimonio culturale italiano. Scendo nel merito. Personalmente, come accennavo, giudicai che la moderna disciplina museologica fosse in grado di fornire tutti gli strumenti per gestire il Polo Museale del Lazio, già al tempo capace di attrarre oltre 10 milioni di visitatori all’anno. In linea con questa convinzione abbiamo elaborato una strategia precisa, che abbiamo subito chiamato la strategia del “gigante con le dita di orologiaio”. Di che si tratta? Abbiamo innanzitutto messo a punto un approccio comune per tutti i siti. Partiamo dalla base, dalla gestione economico-contabile e del personale: è quella che amo chiamare la ‘sala macchine’ del Museo, cioè di qualsiasi museo. Parecchie esigenze risultano le stesse per la maggior parte dei siti. Penso ad esempio ai cosiddetti “servizi essenziali”, cioè ai servizi di manutenzione delle strutture, degli impianti e del verde, a quelli di pulizia o, ancora, di vigilanza e di accoglienza. Fare fronte a tali esigenze in modo unitario può risultare estremamente vantaggioso in termini di ottimizzazione delle competenze e delle risorse. E di fatto lo è stato. Ma un approccio analogo lo abbiamo adottato anche all’estremo opposto della catena di gestione, ovvero nell’individuare e definire la visione e gli obiettivi strategici del Polo. Salire di livello quando hai a che fare con il Pantheon, il Vittoriano e Castel Sant’Angelo, ovvero tasselli fondamentali della nostra identità e stabilmente ai vertici delle classifiche nazionali per numero di visitatori, diventa infatti obbligatorio. Qui andare avanti alla giornata, senza una visione complessiva e una programmazione a medio e lungo termine, non è solo limitato: è semplicemente assurdo. D’altro canto, è anche vero che ogni sito, ogni museo è diverso dall’altro e richiede perciò un’attenzione, una cura specifiche. Cosa se possibile ancora più importante: ogni persona interpreta la visita come un’esperienza singola, come un tassello nella propria esistenza. Il mondo dei social media, quello del selfie e la connessa idea di voler “fermare ogni attimo”, insegnano anche questo. In una prospettiva del genere quel tassello, cioè quella visita, deve risultare speciale, al limite unico. Da museologo, devi cioè esaltare quella singola visita e renderla diversa da qualsiasi altra, dentro e fuori dal Polo Museale. La strategia del “gigante con le dita da orologiaio” è appunto questo: la capacità di tenere insieme 46 siti e nello stesso tempo di saper costruire “un vestito su misura” per ognuno dei siti e al limite per ognuno dei nostri visitatori.
Promuovere la conoscenza del patrimonio significa anche incentivare il ritorno ai luoghi “noti” ma con modalità di visita diverse. Penso al caso di Castel Sant’Angelo, tra i siti più visitati in Italia: quali sono le novità già in atto da prima del lockdown, e le ipotesi per il futuro (se ce ne sono in questo momento difficile)?
Mi sia concesso qualche numero. Fino all’8 marzo 2020, cioè fino al cosiddetto lockdown, Castel Sant’Angelo accoglieva ogni anno un milione e duecentomila visitatori, per un incasso di bigliettazione lordo di dieci milioni di euro. Rispetto al 2015 siamo rispettivamente a + 20% di pubblico e al doppio degli introiti. Diversi fattori, concatenati e interconnessi, sono alla base di questi risultati, che io giudico rimarchevoli. Data la domanda, in questa sede mi sembra giusto evidenziarne un paio. Il primo è il nuovo percorso di visita, introdotto nel 2017. Sensibilmente più lungo del precedente, il percorso dilata ma soprattutto approfondisce e moltiplica le conoscenze del visitatore, facendogli scoprire panorami, scorci e luoghi in precedenza messi in secondo piano, come il cammino di ronda. Il secondo fattore è la qualità della comunicazione: sempre dal 2017 chi si reca a Castello ha a disposizione nuovi pannelli di visita – in italiano e in inglese – e un’app gratuita in sette lingue, compreso il giapponese e il cinese. Bene: tutto questo non soltanto ha contribuito, come dicevo, a migliorare l’esperienza di visita di Castello, ma anche a renderlo già al momento della riapertura pronto alle sfide del dopo lockdown. Allo stato odierno, insomma, la visita a Castel Sant’Angelo è estremamente sicura e molto, ve l’assicuro, molto soddisfacente. A tratti la definirei elettrizzante. Sul futuro. La situazione è obiettivamente complicata per via delle difficoltà di spostarsi da un paese all’altro e perché molte istituzioni internazionali non hanno ancora idee chiare sulla politica dei prestiti. La nostra scelta è stata di confermare tutte le iniziative di carattere scientifico – a cominciare dai convegni e dalle mostre: si tratterà semplicemente di ri-calendarizzarle, ovvero di scegliere insieme ai curatori il momento più opportuno per porle in atto.
In questo mese di giugno sono gradualmente stati riaperti molti i siti del Lazio: può descriverci la situazione, i numeri, le modalità di visita e il metodo che state seguendo?
L’ho accennato per Castel Sant’Angelo, mi sembra giusto spiegarlo adesso qui. Nell’affrontare il tema delle riaperture dei nostri 46 siti abbiamo messo al primo posto la sicurezza, sia del nostro personale, cioè di chi lavora all’interno dei musei, sia del pubblico. Questo ha determinato una serie di scelte di fondo e la costituzione di un protocollo – cioè di una procedura – molto preciso. Abbiamo cercato di lasciare poco, direi nulla, al caso e ancor meno
all’improvvisazione. Si tratta di un cammino fatto di una serie di passi. Partiamo dal primo. Allorché, poco dopo la metà di aprile, si è fatta strada la possibilità di riaprire i musei dal 18 maggio, ho formato una squadra apposita: cinque persone, tutte con alle spalle una notevole esperienza in fatto di museologia e di sicurezza. Insieme, abbiamo selezionato quanti e quali siti avessero la possibilità concreta di aprire nelle settimane a valle del 18 maggio. Nella scelta abbiamo messo in evidenza i fattori dettati dal Comitato Tecnico Scientifico istituito presso il Dipartimento della Protezione Civile: disponibilità di ampie aree verdi, possibilità concreta di mantenere la distanza sociale e di creare un circuito, e così via. A quell’altezza, voglio ricordarlo, nessuno sapeva bene quale sarebbe stata la reazione del pubblico: non sapevamo cioè se sarebbe prevalsa la voglia di riabbracciare i musei, oppure la paura di uscire di casa. Anche per questo nella prima fase delle riaperture abbiamo deciso di selezionare un numero limitato di siti, che servissero da banco di prova, o di sperimentazione; di lavorare soprattutto nel Lazio, anziché direttamente sui grandi siti romani; di aprire i siti uno alla volta, anziché tutti insieme; di individuare un giorno feriale come momento opportuno in cui effettuare uno stress test, una sorta di “giorno di visita zero” capace di mettere concretamente alla prova sistemi, procedure e modalità di vigilanza e accoglienza; di limitare almeno nel Lazio e almeno in questa fase l’apertura ai soli fine settimana; infine, di condividere il piano delle riaperture con le parti sociali. Si è trattato di una scelta pagante. Segnali estremamente incoraggianti sono giunti in particolare dalle amministrazioni locali. Diverse – penso soprattutto a quelle di Tarquinia oppure di Oriolo Romano – ci hanno dato una mano, mettendo a disposizione personale di supporto al personale dell’area della vigilanza e dell’accoglienza del MIBACT.
Durante il lockdown musei e luoghi di cultura hanno promosso la loro immagine tramite i social media e percorsi di visita virtuali. Cosa pensa della fruizione dell’arte tramite il mezzo digitale?
Vede, la fruizione della storia dell’arte e dell’archeologia hanno un senso solo se e quando realizzate in presenza. Cioè quando è possibile fruire dell’oggetto dal vivo, direttamente, senza mediazione. Solo così – lo spiegano bene fra gli altri Walter Benjamin e Giulio Carlo Argan– fra l’opera e lo spettatore si stabilisce un rapporto vero, unico e ogni volta nuovo. Attenzione: con questo non voglio in alcun modo dire qualcosa contro le riproduzioni delle opere in sé, contro il loro montaggio in realtà e dimensioni digitali o virtuali, caratteristiche appunto dell’era social e digitale, oppure contro i documentari. Tutt’altro, sono favorevole: nel corso della mia carriera di direttore ne ho commissionati molti, anzi moltissimi. Voglio solo chiarirne la sfera di pertinenza: quella della promozione e della divulgazione dei siti museali o delle singole opere. La nuova e diversa sfera può e anzi direi deve affiancarsi e promuovere l’esperienza viva e diretta. Giammai pretendere di sostituirla. Farlo equivale a un appiattimento, a un livellamento verso il basso – che è proprio quel che non vogliamo, come gestori di musei e ancor prima come cittadini di un paese democratico. Ho parlato fin qui come persona addetta alla gestione di musei. Ma come esperta di storia e critica d’arte mi sembra giusto da ultimo spezzare la classica lancia in favore dei nuovi media digitali. Anche qui il rischio è di un appiattimento della componente autoriale. Esattamente come altri meccanismi di ripresa, mi pare giusto porre in evidenza l’intervento dell’autore, dell’artista. Detto in altri termini, esistono documentari d’arte, musei virtuali e immagini digitali di buona e di cattiva qualità. Impiegare questi strumenti solo come veicoli, strumenti al servizio di qualcosa d’altro – opere d’arte incluse – equivale in automatico a svilirli entro una dimensione ancillare, servile.
In questi primi giorni di riapertura, in cui i nostri siti e musei sono meno affollati, stiamo assistendo a una felice riappropriazione, da parte dei cittadini, di quei luoghi dai quali i grandi numeri dell’industria del turismo li avevano fatti sentire esclusi. Cosa si può leggere in questo avvicinamento? Sarà possibile trattenere qualcosa di questa esperienza?
Mi sia consentita una premessa. I musei, tutti i musei, dal più piccolo al più grande, dal più semplice al più complesso, funzionano allo stesso modo: si tratta di macchine della memoria, cioè di meccanismi creati dall’uomo, soprattutto dall’uomo occidentale, per tutelare e trasmettere alle generazioni successive valori stabili, al limite eterni. Questi valori sono incarnati da oggetti – noi tecnici italiani continuiamo a chiamarli beni culturali – che possono essere alle volte materiali, altre volte immateriali. Per questo motivo, come vede certo non astratto, i musei sono parte costitutiva della nostra identità. E per lo stesso motivo il primo obiettivo dei musei era e rimane produrre cultura. Veniamo adesso alla domanda. Personalmente non credo né ho mai creduto a una separazione netta o addirittura alla dicotomia fra produzione culturale e grandi numeri. Tutto questo rientra in una sfera culturale, anzi in una rappresentazione schematica della trasmissione dei saperi che appartiene ormai irrimediabilmente al passato. Il presente e il futuro del museo risiedono nell’equilibrio e nella comunicazione fra questi due elementi, ripeto, fra produzione di cultura e fruizione. Ora, per indole ed educazione posso considerarmi interamente figlia della museologia italiana, che ha dalla sua una tradizione lunga e nobile. Non bisogna mai dimenticare che i primi, veri musei moderni sono nati a Roma e a Firenze nella prima metà del XVIII secolo. D’altro canto, se pensiamo al panorama museale di oggi dobbiamo fare tutti un bagno di umiltà e ammettere con franchezza che in alcune cose i musei esteri e in particolare gli anglosassoni ci hanno insegnato qualcosa. Come avrà capito, parlo in particolare della divulgazione culturale. Al Polo abbiamo sempre lavorato per unire grandi numeri a qualità culturale. È un equilibrio difficile da trovare e soprattutto da mantenere. La contrazione dei numeri assoluti dell’era COVID certamente offre la possibilità di visite più distese, di osservazioni e se vogliamo anche di meditazioni più approfondite al cospetto delle opere. Non vi sono dubbi. Ma la scommessa è appunto questa: fin dove possibile e anche oltre il limite del possibile, da museologi non dobbiamo mai smettere di cercare quell’equilibrio sottile tra alta qualità della visita e numero elevato di fruitori al quale accennavo prima.
MicroMega rimane a disposizione dei titolari di copyright che non fosse riuscita a raggiungere.