Ricci/Forte: “Noi, artigiani di poetico stupore, contro il muro ostile dell’omologazione”

Giacomo d'Alelio

Intervista a Stefano Ricci e Gianni Forte,

STILL LIFE (2013), la nuova creazione di ricci/forte, ha avuto la sua prima incarnazione pubblica il 25 giugno al Teatro Argentina di Roma. La cornice è quella del Garofano Verde, la rassegna sugli “scenari di teatro omosessuale” a cura di Rodolfo di Giammarco, che l’ha fatta nascere venti anni fa. Un’occasione ancora più importante dunque, quella della celebrazione del suo ventesimo compleanno, con, invece della consueta location del Teatro Belli a Trastevere, quella più “istituzionale” dell’Argentina. In un’annata che, per le difficoltà economiche in cui versa anche la cultura, vede il Garofano Verde a rischio. Con il teatro posizionato nel cuore di Roma, gremito di pubblico e del suo calore per ricci/forte, si deve sperare che questa anteprima al festival, solitamente programmato tra giugno e luglio, e annunciato ora per il prossimo settembre, porti buone nuove. Intanto, il bullismo e le sue ramificazioni bastarde hanno avuto un degno avversario in STILL LIFE (2013). Da sempre ricci/forte, all’anagrafe artistica Stefano Ricci e Gianni Forte, hanno tentato di aprire un varco nella sensibilità del pubblico con le loro creazioni in bilico tra tenerezza e crudeltà, con cui chiedono ogni volta a noi spettatori di mettere in discussione le nostre certezze. Ma come e perché? Ce lo raccontano Ricci e Forte in questa intervista.

Per la prima volta il Garofano Verde arriva al Teatro Argentina, e lo fa con la volontà di puntare l’attenzione sulla discriminazione identitaria…
STILL LIFE (2013) è il titolo della performance che stiamo provando in questi giorni per celebrare una rassegna importante come quella del Garofano Verde e che festeggia quest’anno i vent’anni, passati nel tentativo di affrontare quelle che sono le differenze, i temi identitari cari non solo al mondo LGBT ma che dovrebbero esserlo soprattutto ad una società che ha bisogno di recuperare il valore dell’altro. Abbiamo accettato con entusiasmo e con senso civile, per realizzare prima di tutto una testimonianza, una riflessione su quello che riteniamo essere il problema principale in questo momento: non si tratta solo di discriminazione sessuale o di bullismo omofobico, ma dall’humus di ignoranza da cui nascono e che ci devastano quotidianamente. Conosciamo già i perimetri culturali italici azzerati e che negli ultimi tempi si sono palesati appieno. A questi si unisce una nuova generazione di ragazzi che vive di omologazione, nel bisogno di riconoscersi nei passi seguiti da altri, diffidando di qualunque “diversità”. È angosciante che ci sia una giovane leva che sta crescendo, e che domani dovrà gestire un paese, che ha già steccati di default; che intende la fantasia, come un problema e non come valore aggiunto. Come ensemble ricci/forte abbiamo da sempre cercato di raccontare il potere dell’immaginazione, di poter respirare, seguendo i propri canoni. Per STILL LIFE (2013) abbiamo preso come spunto iniziale eventi di cronaca che tutti conosciamo, causati dall’autoannientamento dell’individuo, in una fase così delicata come quella dell’adolescenza. Nostro compito è come sempre quello di innestare dubbi. Non volendo puntare il dito su nessuno, cerchiamo di comprendere dove si nascondano le responsabilità di ognuno di noi, e come tutti possiamo dare un contributo, accettando che si possa crescere esclusivamente riconoscendoci nelle nostre divergenze.

L’evento di cronaca in questo caso è la tragedia del giovane romano, Davide, che si è tolto la vita lo scorso novembre a Roma. Qualcosa che fa riflettere, ma che principalmente fa male: un adolescente si uccide, e lo fa nel ventunesimo secolo.
Sì, si uccide, e in una grande città come Roma. Fa riflettere. Credo che il compito di un artista, o comunque di persone che come noi che hanno a che fare con la cultura, sia la necessità di porsi e porre interrogativi. Il tema è naturalmente caldo e sarebbe facilmente cavalcabile. Ma non c’è nessuna volontà di strumentalizzare; c’è invece il tentativo di lasciare un’impronta, la nostra, quella di “artigiani di poetico stupore” ai quali in questi anni, nel bene e nel male, è stata riconosciuta per una propria identità. Pur faticosamente all’inizio, poi ha avuto la possibilità di proliferare, e forse questo è un segnale: dovevamo affrontarlo noi questo tema. Ci siamo sentiti chiamati a produrre un pensiero su qualcosa che ci appartiene profondamente, collegato a doppio filo con la nostra esperienza e la nostra pelle. La fantasia e il suo annullamento, che si esprime e definisce nelle problematiche adolescenziali, è comunque una tinta fosca che ammanta la nostra esistenza. Il suicidio è solo la punta di un iceberg che affonda in un mare melmoso, in cui nuotiamo. Ci confrontiamo e ci scontriamo con questa diffidenza, con questo muro ostile dell’omologazione, e lo facciamo ogni giorno.

“La vita sognata degli angeli”, è il titolo di un film di Erick Zonca, che ho amato molto, su due giovani donne, che fuggono, da quelle gabbie di omologazione, che con le loro radici arrivano a stritolarne i cuori. Una di loro, sul finale di nuovo “ingabbiata”, cade nel suicidio, buttandosi, ma non volando come un angelo. Rinchiusi nelle nostre “camere” (non) personali, stretti dal mondo virtuale dei social network, spalle al muro, cosa possiamo fare?
Abbiamo parlato tanto in queste settimane su quale potesse essere la strada più semplice da compiere, se quella di escludersi, autoescludersi o di riconoscersi un potere in questo relegarsi ai margini e sfruttarlo a proprio vantaggio. Non c’è una chiave d’accesso ma il bisogno di parlarne, perché troppo spesso si tende ad un cordoglio generico online soprattutto tramite i social network, media come facebook, dov’è sufficiente postare una foto, mettere una frase d’effetto e ci si sente deresponsabilizzati. La responsabilità di ognuno di noi è enorme, ogni esistenza che si spegne diventa un fardello che dobbiamo portare. Questo non possiamo dimenticarlo. Probabilmente il clima della performance è proprio lì, non è nemmeno uno spettacolo: vuole essere una conferenza emotiva. Svegliarsi e discutere di certi temi non per sentirsi parte del mondo contemporaneo, ma per riconoscersi uomini, per recuperare dignità. In questo momento manca un senso civile al nostro mestiere, soprattutto perché è considerato merce deteriorabile.

Le Wunderkammer soap, episodi teatrali dedicati ciascuno a un diverso personaggio del mito, della storia, della letteratura, messi in scena in moderne stanze borghesi… STILL LIFE (2013) vuole essere una nuova camera, in cui comprimere dei simulacri, per svelare il segreto che nascondono, o invece un abbraccio, semplicemente un’apertura, per accogliere?
Non credo ci sia una volontà di allestire un simulacro, ma c’è la voglia di gettare un ponte con lo spettatore, facendolo a modo nostro, con un semplice abbraccio. Probabilmente più ruvido di quello a cui siamo abituati perché è nella nostra grammatica non fare sconti. Un momento di riflessione attraverso delle azioni brutali proprio per capire in quale forma ci stiamo trasformando e in che cosa ci stiamo perdendo. È una performance liquida, come liquidi sono i sentimenti che in questo momento ci abitano, e probabilmente attraverso il confronto co
n il pubblico forse riusciremo anche a comprendere qualcosa di noi in modo più luminoso.

Recuperare dunque l’agorà, la piazza, l’incontro, lo scambio con le persone, l’atto politico, che deve essere il quotidiano?
È dal 2006, quando è nato TROIA’S DISCOUNT, che crediamo fermamente in questo. Ma lo mettevano in pratica molto prima di noi gli antichi greci. Crediamo sia giusto parlare a voce alta, raccontare la nostra pupilla e il modo poetico con cui trasfigurare la realtà, proprio per cercare di recuperare la fatica, che è del singolo, di riuscire a raddrizzare la schiena e affrontare tutto quello che ci aspetta fuori dalla porta di casa. Probabilmente aiutandoci con un prodotto culturale, forse possiamo portare a casa qualcosa in più del prezzo di un biglietto.

IMITATIONOFDEATH è la vostra opera più recente ispirata al mondo di Chuck Palahniuk. Sul palco le ossessioni della nostra epoca, contaminata dall’accumulo e dal consumo degli oggetti, anche “umani”. A settembre debutterà in Francia, dimostrando un interesse sempre più in crescita nei vostri confronti da parte del mercato estero, se mi si passa un termine così scurrile come mercato… in Italia invece?
E’ un po’ facile dire che l’Italia è il fanalino di coda, ma lo è, a causa di una sua sordità congenita. Quando varchiamo i confini del nostro paese e arriviamo a confrontarci con altre realtà come quelle d’oltreoceano, c’è sempre un entusiasmo tangibile. Puoi capire, così, che attraverso la creazione stai comunicando con qualcuno. Da noi questo è stato dimenticato. Non interessa a nessuno la creazione né porre l’attenzione su un’elaborazione artistica. In un momento così debilitante da un punto di vista anche economico, gli operatori si sono trasformati in commercianti, e nel commercio contano i numeri, non la qualità di quello che viene espresso. Questo è un processo involutivo, depauperante, che non porta da nessuna parte. Ecco perché, quando accade che il nostro lavoro venga apprezzato e selezionato per far parte di una stagione, come ora a Parigi nel teatro MC93, non possiamo che essere grati per un ascolto più attivo rivoltoci. Questo ci dice, anche e soprattutto, che dobbiamo essere attenti a restare agganciati al tempo presente, che è europeo, e non italiano. È un altro tempo, un altro battito, e viaggia con un ritmo meno anacronistico.

Forse l’Italia ha la sua Wunderkammer, poco soap, da lungo tempo…
L’Italia è una Wunderkammer ormai disabitata: è come un palazzo abusivo, che ogni tanto viene occupato. Ci sono ovviamente, come in tutte le lande desolate, delle oasi, delle isole dove è possibile fermarsi un giro e recuperare ossigeno. Romaeuropa Festival è sicuramente una di queste. Negli ultimi tre anni siamo stati prodotti e abbiamo avuto la possibilità di poter parlare con la nostra voce grazie a strutture come Fondazione Romaeuropa, il Festival delle Colline Torinesi, il CSS di Udine, Centrale Fies: luoghi dov’è ancora possibile trovare un respiro comune. Certo, sono atolli, frammenti di uno Stato che ci prova disperatamente ad arginare la catastrofe, ma ora più che mai ci abbeveriamo, come cammelli all’oasi, e ci sentiamo fortunati, perché quando trovi dei singoli con cui la sintonia umana, prima che artistica ed intellettuale, viene sviluppata, ti senti anche un po’ a casa, cosa che non succede spesso quando torniamo in Italia.

Ho amato molto una parola che ho letto nella presentazione di STILL LIFE (2013), quando parlate di ricci/forte come di un collettivo.
Collettivo di cui fa parte anche il pubblico, perché coloro che ci seguono investono energia e una voglia di mordere, che difficilmente è possibile trovare quando si entra come spettatori in una sala teatrale. Un collettivo veramente in espansione, dove i primi sono i performer ad avere un bisogno profondo di condividere un progetto comune: è come un viaggio che fai, che scegli di fare con degli amici cari. Non sai mai cosa porterà, ma non importa il risultato, lo è invece il tragitto da percorrere insieme.

Come affrontate una critica che abbassa a volte il livello del dialogo?
Si tende sempre a considerare la critica come un’entità, una figura mitologica. La critica è formata da persone, che esprimono una loro opinione, frutto più della loro vita e delle loro esperienze, delle loro mancanze o delle loro virtù. Spesso incanalano, analizzando o archiviando frettolosamente un lavoro più che realizzarne un approfondimento. Prendiamo, dunque, una critica come un regalo, perché attraverso di essa conosciamo meglio le persone che ci sono dietro. Le loro debolezze, i loro giochi di potere, i loro parco-giochi, le lottizzazioni, gli entusiasmi autentici, le riflessioni salde e le superficialità. Non arricchisce molto noi, perché non è un valore, a parte ovviamente quelle reali figure critiche che seguono da anni e con costanza il nostro percorso e che ci aiutano a tenere saldo il timone e ricalibrare la direzione. E che non finiremo mai di ringraziare per l’approccio etico che offrono. Ma a parte costoro, gli altri li affrontiamo come quando a una festa incontri delle persone, alcune più interessanti, altre meno, che restano con la loro storia e il loro bicchiere in mano. E che dimentichi immediatamente, appena usciti dalla porta di casa…

(4 luglio 2013)



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