Grazie all’Opera di Roma per un grandissimo Rigoletto: regia di Cherstich, non di Michieletto

Paolo Flores D’Arcais

Il “Rigoletto” di Giuseppe Verdi (ma non più di Francesco Maria Piave), per la regia di Michieletto, ha mandato in sollucchero una parte degli appassionati dell’Opera lirica. L’altra parte, più esigente, non c’è andata proprio, avvertita com’era dai testi promozionali che il Duca di Mantova si mutava in capo di una gang da periferia “non luogo” (orecchiando pulp fiction l’applauso è servito) e Rigoletto in un giostraio (vive in un carrozzone), uomo di bassi servizi. La critica musicale non esiste quasi più, il panegirico per la “genialità”, va da sé “rivoluzionaria”, di questi misfatti è ormai incorporata, più pronta della bava del cagnolino di Pavlov.

Corrado Augias ha avuto la generosità di ospitare su Repubblica, nella sua rubrica “lettere”, alcune mie righe in proposito (ho visto la michielettata nella diretta tv, spero sempre di dovermi ricredere).

Le riporto:

Caro Augias, a proposito del ‘Rigoletto’ nella regia di Michieletto, e consimili, mi permetto una piccola argomentazione di tipo sillogistico.

Un’opera lirica non è solo musica. I musicisti facevano riscrivere parti del libretto, e riscrivevano momenti dello spartito a partire dal libretto. Un’opera lirica è dunque il frutto della sinergia di musicista e librettista, co-autori.

Perciò, a meno di non stabilire che un’Opera lirica è solo musica, al regista non deve essere concesso maggior arbitrio verso il libretto di quanto ne sia concesso al direttore d’orchestra verso la musica. Ora ogni direttore ha ampio spazio per eccellere nell’interpretare, ma neppure a Toscanini è permesso di cambiare le note ad libitum, o di far suonare una parte per violini a delle cornamuse.

Ergo: se “Tosca” si svolge a Sant’Andrea della Valle, Palazzo Farnese e Castel sant’Angelo il 17 giugno 1800, non è lecito trasferirla nella moschea di Portoghesi a Roma o nel palazzo di qualche boss della Magliana. Non più di quanto sia lecito al direttore d’orchestra sostituire pagine musicali di Puccini con rapperie di Lauro De Marinis, per i fans Achille Lauro. Un carissimo saluto, Paolo Flores d’Arcais.

L’amico Augias se l’è cavata invocando i candelabri di Palazzo Farnese indicati nel libretto, ma quelli sono i “de minimis non curat praetor”, ci mancherebbe che il regista non ne avesse licenza, qui si tratta di cambiare epoca, personaggi, tutto (in Rigoletto è quintessenziale che sia un “buffone”, costretto a far ridere anche quando colmo d’angoscia o dolore, nel giostraio/servo tuttofare questa polarità è impossibile).

Augias aggiungeva anche la Tosca prevista a Napoli il 23 in forma semiscenica a piazza del Plebiscito. Ma soluzione di emergenza, appunto, con i cantanti in abito da sera, cioè in “astrazione”, non con stravolgimento d’epoca. Se è per questo, in situazioni di impossibilità di un’opera nella sua pienezza, si danno talvolta esecuzioni non solo senza scene, ma con i cantanti (in “borghese”) accompagnati dal solo pianoforte: si ricordano alcune esecuzioni del genere, notevolissime, di Riccardo Muti.

Contro i mediocri scempi alla Michieletto hanno scritto ad Augias persone che di musica si intendono infinitamente più di me. Vittorio Emiliani, melomane raffinatissimo e di sterminata cultura operistica (suo un recente bellissimo articolo su Piero Maroncelli – il patriota dello Spielberg, della gamba amputata e della rosa – Lorenzo Da Ponte, Edgar Allan Poe e l’opera lirica a New York, su “Il Fatto quotidiano”) e uno dei grandi musicisti di oggi su scala mondiale, Nicola Piovani.

Scene e costumi possono insomma essere “rarefatti” fin quasi all’astrazione, a indicare la portata universale di passioni e vicende, e un regista ha spazi enormi per esercitare originalità e fantasia, al libretto non si possono però “cambiare i connotati”. Se è lecito cambiare epoca e luogo, perché non anche parole, intere frasi, e lo stesso intreccio della vicenda? Del resto, qualcuno ha già provato a non far morire Carmen, sarà lei a pugnalare don José, anzi a sparargli (applausi. Oltretutto è politically correct, quello su Carmen era un inammissibile femminicidio).

Ad Augias mi permetto di sottoporre un ulteriore argomento. C’è una categoria di “interpreti” cui è unanimemente riconosciuta una vasta libertà rispetto all’originale: i traduttori. Vige infatti il detto “traduttore, traditore”, tanto è inevitabile che la trasposizione in una diversa lingua comporti “creatività” da parte dell’interprete. Una nuova traduzione di “Guerra e pace” non potrà certo usare l’italiano ottocentesco, coevo della pubblicazione in russo, e dovrà innovare perfino rispetto a traduzioni giudicate eccellenti solo venti o trent’anni fa.

Tuttavia, non considereremmo una buona traduzione, anzi non la considereremmo proprio una traduzione, ma una truffa, se il traduttore spostasse l’azione dalla guerra napoleonica all’assedio nazista di Stalingrado, e al posto del generale zarista Kutuzov facesse irrompere dalle pagine i generali staliniani Rokossovski, Voronov e Čujkov.


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I registi alla Michieletto sono degli aspiranti autori frustrati. E dire che l’Opera di Roma un “Rigoletto” in odore di genialità l’ha prodotto, anche abbastanza di recente, e con mezzi che rispetto al profluvio del Circo Massimo erano davvero poverissimi. Parlo del “Rigoletto” per la regia di Fabio Cherstich, scene, video e costumi di Gianluigi Toccafondo, allestito per Operacamion, straordinaria iniziativa con cui, utilizzando un Tir come scena, “Rigoletto”, “Don Giovanni”, “Il barbiere di Siviglia”, sono state portate a un pubblico di periferia e di piccoli paesi. Con enorme successo.

Regie capaci di unire il doveroso scrupolo filologico (malgrado i tagli per rientrare nelle due ore, tempo empiricamente massimo di attenzione popolare in piazza) con una ricchezza inventiva che utilizza anche tecniche moderne (proiezioni, filmati). Niente di “parruccone”, insomma. Peccato che non vi siano video di questi straordinari spettacoli, che valgono mille volte la kermesse del Circo Massimo.

Leggo con grande piacere che ora il sistema di Operacamion di Fabio Cherstich ha trovato imitatori, a Genova è nato, utilizzando un Tir, il TIR (Teatro In Rivoluzione), esattamente la modalità di Operacamion (speriamo che riconoscano la primogenitura, altrimenti l’ottima iniziativa si colorerebbe di uno sgradevole grigio/plagio). Insomma, l’Opera di Roma merita gli elogi più grandi per il suo grandissimo “Rigoletto” di Verdi/Piave: regia di Cherstich, però, non di Michieletto.

(5 agosto 2020)




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