Rojava. E ora?
Elettra Santori
Nuovo Cinema Palazzo, ore 20.30. Si proietta Terroriste, docufilm di Francesca Nava su tre donne – una giornalista, un medico legale e una pittrice – processate dal governo turco per il loro attivismo in favore dei kurdi. La platea del cinema – un centro sociale occupato nel quartiere di San Lorenzo a Roma – si è riempita ben prima dell’inizio della proiezione: sedili, panche di legno, posti a terra, tutto è già occupato. Conviene cercarsi un posto sul ballatoio: prendere una sedia da ufficio a rotelle, di quelle disponibili per gli spettatori volenterosi, e portarsela su per le scale al piano superiore, trovare uno spicchio libero da cui guardare lo schermo incassato nel fondale e assestarsi con gli altri spettatori, chi seduto su un divano in pelle, chi su un parallelepipedo di legno improvvisatosi panchetto, Ci vedi se mi metto qui davanti? Ti spiace se poggio la birra qui sotto ai tuoi piedi? Autogestione degli spazi. Scomoda, ma ci si viene incontro. Sorrisi reciproci di solidarietà.
Il Nuovo Cinema Palazzo è un vecchio cinema occupato da un collettivo di cittadini e militanti della sinistra antagonista per impedire la trasformazione dello stabile in un “casinò” – in realtà l’ennesima, avvilente sala-giochi. Alle pareti, manifesti per il Rojava, Per Kobane e con Kobane. L’ondata di simpatia per il Rojava in duplice lotta contro il Califfato Islamico e il sultanato di Erdogan ha avuto ricadute estetiche multimediali: qui, dove stasera proiettano il documentario sulle dissidenti kurde, giorni fa hanno organizzato una serata per il popolo kurdo, con cena kurda e mostra fotografica di immagini dal Kurdistan. Zehra Dogan, la pittrice di cui parla Terroriste (imprigionata per qualche anno nelle galere turche per aver descritto nei suoi disegni le violenze che il governo di Ankara ha perpetrato nella città kurda di Nusaybin), è ormai conosciuta in tutto il mondo perché Banksy le ha dedicato un murale a New York, ritraendola dietro le sbarre e reclamandone la scarcerazione. L’Ismeo, Associazione internazionale di studi sul Mediterraneo e l’Oriente, ha dedicato diverse pregevoli pubblicazioni alla cultura kurda, tra cui la prima traduzione diretta dal kurmanji all’italiano di un romanzo – Tu, di Mehmed Uzun, figura chiave della letteratura contemporanea in lingua kurda. Al Babel Film Festival di Cagliari quest’anno erano ben tre i film che raccontano il dramma dei kurdi: storie di soprusi, di assedio (come in Shadow of the Kurdistan mountain di Azad Evdike), ma anche di resistenza al programma turco di cancellazione della lingua kurda (Her mal dibistanek – Every house is a school di Ardin Diren).
Romanzi, graphic novel, street art, fotografia, cinema: l’anelito di libertà dei kurdi ha travalicato i confini della geopolitica e si è fatto estetica, ha ispirato azioni e creazioni di un Occidente in cerca di Muse e a corto di èpos. Qui in Italia, poi, la lotta dei kurdi contro il governo di Ankara riattiva antiche memorie ed entra in più o meno consapevole risonanza con la nostra storia nazionale: il Risorgimento, la lotta di liberazione contro l’austriaco oppressore, gli arresti dei patrioti; e Erdogan si insinua nel nostro inconscio come una reviviscenza dell’imperatore Francesco Giuseppe; il Rojava, piccolo laboratorio di democrazia secolare in mezzo a un’area piagata dai fondamentalismi, ricorda da lontano quella Repubblica romana che disarcionò il Papa Re e per un attimo – era il 1849 – pose fine al potere temporale della Chiesa; e Trump, che infine ha abbandonato il Rojava al suo destino dopo averne sfruttato le capacità militari sul campo, somiglia al Napoleone III che prima illuse i patrioti italiani scendendo in guerra contro l’Austria a fianco dei Savoia, e poi improvvisamente pose fine all’alleanza firmando con gli austriaci l’armistizio di Villafranca.
Ma, al di là di parallelismi e diacronismi storici (in fondo le storie di irredentismo si somigliano tutte: repressione, attentati terroristici, carceri speciali, …), l’epica del Rojava ha acceso soprattutto passioni contemporanee. Come non amare le guerrigliere kurde e i loro uomini, veri boots on the ground della resistenza al Califfo nella Siria del Nord. E difatti la causa kurda ha suscitato simpatie bipartisan, a destra intercettando anche le punte islamofobiche («Quanto siamo stati scemi a fidarci di un musulmano come Erdogan» ha twittato il solito Vittorio Feltri dopo l’aggressione della Turchia ai kurdi siriani), a sinistra rinfocolando antichi legami col Pkk di Ocalan, ispiratore dell’esperimento politico del Rojava, oggi all’ergastolo nell’isola-prigione di Imrali.
E tuttavia, ora che, con la ritirata dell’Isis, la fase trionfante dell’epica kurda va scemando per rientrare nei binari consueti, e più localistici, dell’insorgenza anti-turca, l’effetto Rojava col tempo rischia di ridimensionarsi; ed è facile che l’autonarrazione dei kurdi, nonché la nostra percezione di loro, torni a ripiegarsi sul tema carcerario: uno dei luoghi più ricorrenti della letteratura kurda contemporanea, «una ferita profonda nella memoria collettiva, e uno degli elementi cruciali nella costruzione di un discorso di victimhood», spiega Francesco Marilungo nell’introduzione a Tu di Uzun. Triste dirlo, ma i kurdi vittime delle torture e delle allucinanti prigioni turche difficilmente saranno ancora in grado di colonizzare diffusamente il nostro immaginario come hanno fatto con le immagini fiammeggianti della battaglia contro il Califfato, l’arcinemico comune che negli ultimi anni ha compattato l’Occidente e il Kurdistan. Conclusasi la chanson de geste che ha visto i kurdi sacrificarsi contro i nuovi saraceni invasori, l’Occidente si accinge a provare per loro, nel migliore dei casi, nient’altro che un’immobile pietà.
Esiste però un altro discorso che i kurdi fanno su se stessi, certamente visionario ma non martirologico, in cui si rappresentano come proattiva avanguardia dell’umanità: è il confederalismo democratico, teoria elaborata da Ocalan, divenuta pratica socio-politica nell’Amministrazione autonoma del Rojava.
Negli anni, Ocalan e il Pkk si sono spostati su posizioni più negoziali, abbandonando le rivendicazioni irredentiste di uno Stato kurdo indipendente in favore del riconoscimento del Kurdistan turco come regione autonoma. Lo stato-nazione, nell’elaborazione teorica di Ocalan, è un vassallo della modernità capitalistica, una struttura repressiva che assimila le culture in nome dell’identità nazionale. Rivendicarlo non è la soluzione per i curdi, secondo il leader del Pkk, soprattutto in un contesto radicalmente e capillarmente multietnico come quello mediorientale. In contrasto con una idea centralista dell’esercizio del potere, oggi Ocalan sostiene un municipalismo democratico il cui centro di autogestione politica sono le assemblee delle comunità e dei consigli aperti locali, retti con la democrazia diretta, che si riuniscono in congressi generali con funzioni di coordinamento. In sintesi, un nuovo sistema sociale basato su disintermediazione politica, socialismo rivoluzionario, ecologismo (in risposta alla predazione neoliberistica delle risorse) e, soprattutto, femminismo anticapitalista: «un popolo non può essere libero se le donne non sono libere», scrive Ocalan. Dalla ginologia kurda (jin significa donna, in kurmanji) sono nate nel Rojava esperienze e pratiche di emancipazione femminile altr
imenti impensabili in un contesto arcaico patriarcale, e degne di attenzione.
Nel campo della sinistra antagonista, il sostegno al Rojava nasce da una consonanza di ragioni ideologiche che non si esauriscono nella difesa kurda dei valori democratici contro la violenza del Califfato Islamico. I combattenti stranieri che si sono uniti alle milizie armate del Rojava, e che in alcuni casi (come quello di Lorenzo Orsetti) sono morti combattendo contro l’Isis, sono in buona parte militanti di sinistra rivoluzionaria e anarchici, che hanno sposato la causa del Kurdistan siriano non solo come un’operazione militare contro i sanguinari dell’Isis, ma come l’occasione per un progetto politico socialista libertario di superamento del capitalismo, del consumismo, dell’industrialismo e del sessismo (presente, secondo Ocalan, tanto nel fondamentalismo islamico quanto nella mercificazione della donna tipica della modernità capitalista).
Si tratta, però, di un progetto divisivo, fino ad oggi rimasto, o mantenuto, in secondo piano rispetto all’epica kurda anti-califfale. Non certo un programma che può suscitare simpatie trasversali. Ma con tutti i suoi limiti di realizzabilità ed esportabilità, spicca come esempio di un’elaborazione culturale umanistica in un Medio Oriente che oscilla tra dispotismo, fondamentalismo e vittimismo antioccidentale.
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