Romarama/Estate Romana, il vicesindaco Luca Bergamo “risponde” a Ottavia Nicolini

Luca Bergamo

, vicesindaco di Roma e assessore alla Crescita culturale

Gentile Ottavia Nicolini,

Ho letto con cura , condivido il racconto delle ragioni che fecero dell’Estate Romana di Renato Nicolini un unicum. Ritengo ve ne siano anche altre nelle condizioni storiche in cui si realizzò e vorrei riflettere brevemente su alcuni spunti e conclusioni.

Riferendosi all’Estate Romana, lei osserva che “se da un lato quest’esperienza è ancora viva e ricordata con molto affetto delle cittadine e dei cittadini di Roma che l’hanno vissuta in prima persona – dunque costituendo una sorta di pietra miliare in quella che potremmo azzardarci a definire la storia orale della città di Roma – dall’altro lato essa invece è quasi del tutto assente dalla storia ufficiale della città.”

Per chi ha vissuto in prima persona quella Estate Romana il nome evoca una rivoluzione gioiosa e un confronto culturale e politico anche aspro, mentre per gli altri è una denominazione familiare senza particolari significati, che tutt’al più rimanda a un momento/fatto/periodo da rimpiangere ma pressoché sconosciuto nella sua sostanza e articolata realtà. Mi sono domandato spesso il perché. Mi pare che una ragione, non la sola, risieda nel fatto che non si sia potuto storicizzare quell’esperienza avendone tenuto in vita il nome associato a fenomeni molto diversi, diluendo così il legame tra significante e significato.

La cito: “Tre sono stati, a mio giudizio, gli elementi decisivi che, cristallizzandosi tra di loro, hanno dato vita a quell’esperienza generazionale unica e irripetibile dell’Estate romana dal 1976 al 1985: a) il suo carattere di novità; b) l’energia immaginativa che ha saputo sprigionare e c) quella che si potrebbe definire come la creazione di una cittadinanza pubblica felice”. Come dicevo, condivido in buona parte questi elementi che connotano, appunto, un’esperienza generazionale, unica e irripetibile, concepita in e per un’epoca caratterizzata da trasformazioni e equilibri, identità collettive, costumi, tensioni politiche e culturali, … assai diverse da quelle di questo tempo. Certo ci sono anche delle similitudini, in particolare le permanenti diseguaglianze nel godimento del diritto di partecipare alla vita culturale, tra chi vive nel centro e chi lontano dal centro.

Ma le differenze tra le epoche e di conseguenza tra le strategie e gli strumenti da adottare per perseguire fini simili sono tali da meritare un trattato e non le semplificazioni necessarie in poche righe. Tra queste comunque indicherei, solo per iniziare, tre decenni di dissennata esaltazione dell’individualismo e del consumo privato come solo veicolo per la presunta felicità; la perdita di orizzonti e riferimenti complessivi e l’incombenza di catastrofi climatiche provocate dalla miopia del homo-economicus; società sempre più disgregate nel cui seno si confrontano nuovi cesarismi con nuove esperienze di emancipazione e democrazia che però faticano a trovare continuità; la rinnovata concertazione di ricchezze e poteri e la parallela esplosione delle diseguaglianze; il salto tecnologico e il suo impatto senza precedenti; le profondissime differenze tra ciò che caratterizza il mondo reale (e l’immaginario) delle nuove generazioni e quelli di chi ha vissuto il secolo breve; il diverso peso delle generazioni sulla popolazione nel suo complesso e il conseguente impatto sulla propensione al futuro – nel 1980 il 22,2% aveva tra i 15 e i 30 anni, oggi solo il 14,8%, il 12,7% della popolazione aveva oltre 65 anni, oggi oltre il 23,3 %-; la gentrificazione delle aree pregiate delle città – in primis i centri storici – e la concentrazione delle energie più vitali nelle sue zone esterne, e così via dicendo.

Aggiungerei che un tratto fondamentale dell’epoca e del progetto nicoliniano è ben racchiuso nelle parole che lei usa: “[…] una sera in fondo dove tutto è possibile e in cui si guarda avanti, fiduciosi in un futuro prossimo che ancora non è arrivato ma che arriverà”. Quella era una società che pur traversata da profondi conflitti, conservava ancora una porzione della fiducia nel futuro che arriverà, formatasi dopo la Seconda guerra mondiale. Quella fiducia oggi non c’è. Anzi, sono queste parole di Gramsci a descrivere meglio il nostro tempo: “La crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati”. La fiducia nel nuovo deve essere costruita dalle fondamenta oggi, penso affrontando prima di tutto le vertiginose diseguaglianze e con un neoumanesimo i cui semi sono preservati nelle costituzioni e carte internazionali nate dopo la seconda guerra.

Ho ammirato e conosciuto Renato Nicolini. Sono tra coloro che dal 1976 al 1985 hanno goduto delle sue intuizioni e scelte, che ne hanno difeso la filosofia e che hanno scelto di assumerla come parte del proprio bagaglio di memorie e riflessioni. Tuttora considero il suo operato di quegli anni come un riferimento, non tanto per i modi – proprio perché pensati per agire nella società del suo tempo – quanto per i valori sui cui si fondava e cui dava concreta espressione.

Sono d’accordo con lei quando di quell’Estate Romana dice: “L’attivazione di una esperienza culturale di felicità pubblica che è stata in grado di creare una comunità di cittadine e cittadini innamorati della propria città, andando oltre il concetto di mera cittadinanza”. E lo sono anche quando dice che quella Estate Romana era una “situazione, dunque, ben diversa da quel solito e ripetitivo “mercatino delle vacche” finalizzato ad attrarre turisti e a far diventare il centro di Roma uno spazio di consumo”, situazione che pure è associata al nome. Mercatino, colgo l’occasione di precisare, che nulla ha a che fare con il Comune di Roma né con i bandi da noi promossi.

Cancellare l’Estate romana significa allora seppellire l’ennesimo tesoro nascosto di questa città, non amarla, […], farla diventare un ennesimo contenitore senz’anima che deve essere riempito per intrattenere il turista e il cittadino qualunque” dice lei.

Con garbo ma senza ambiguità, respingo questa sua frase. L’Estate Romana di cui lei parla è finita 35 anni fa e non si può (né si vuole) cancellarla, come non si cancellano l’astrattismo o la rivoluzione francese dopo il loro termine. Già a circa dieci anni dalla sua fine si era affacciata un’altra stagione vitale fatta di persone, pratiche, idee molto diverse che crescevano negli interstizi della città: Brancaleone, Forte Prenestino, Rialto, la scena dell’elettronica e tanto altro. È il periodo in cui con Zoneattive e Enzimi – figlie dello specifico momento storico che attraversavano, anch’esso profondamente diverso dall’attuale – abbiamo costruito ponti tra queste realtà indipendenti e quella istituzionale, il periodo in cui sono germogliate altre belle esperienze: Dissonanze, l’Orchestra di Piazza Vittorio, Teatri di Vetro, Area 06, Shortheatre. Poi una nuova stagione di stasi e ora, mentre si vedevano forti i segnali di una rinnovata vitalità, il colpo della pandemia cui cerchiamo di rispondere con tutte le
risorse disponibili.

Ho fiducia che chi osserverà con distacco e nella loro concreta manifestazione le politiche culturali di questi ultimi quattro anni, potrà riconoscere che tutte le misure messe in campo convergono – con le loro inevitabili parzialità e mancanze – verso un medesimo obiettivo: dare maggiori possibilità di esercitare il diritto di partecipare alla vita culturale della propria comunità, riconosciuto dall’articolo 27 della dichiarazione universale dei diritti umani. E che la loro ispirazione si radica nel convincimento che la “pari dignità sociale” richiamata dall’articolo 3 della nostra Costituzione, richieda un costante intervento pubblico per cercare di (sempre dal medesimo articolo) “rimuovere quanti gli ostacoli …, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana …”.

Di questo sguardo parlano i tanti interventi fatti, a partire dalla trasformazione (criteri e fondi) e moltiplicazione dei bandi riservati agli operatori indipendenti per estendere l’offerta culturale lungo tutto l’arco dell’anno, portarla anche lontano dal centro e consentire loro di innovare, e rafforzarsi grazie alla programmazione triennale. Come l’invenzione della MIC, la card che per 5 euro l’anno consente a chiunque abiti nella città metropolitana di visitare a piacimento i musei civici e la programmazione che ospitano.

Ne parlano le biblioteche civiche trasformate nel principale polmone di offerta culturale diffusa grazie alla fitta rete di scambi con le altre istituzioni culturali e con l’associazionismo diffuso, come le faticose nuove aperture di siti archeologici o l’unificazione della visita dei Fori. Ne parla la nascita di un polo pubblico dedicato all’esplorazione dei linguaggi contemporanei nella zona di confine tra arte e scienza e la sperimentazione al MACRO di progetti fortemente innovativi, sempre ad accesso libero. Ne parla il nuovo slancio dato dal Teatro di Roma alla sua programmazione e in particolare al Teatro India. Ne parla, con un linguaggio ancora più vicino a quello dell’Estate Romana di Nicolini, la trasformazione del consunto concertone di Capodanno in una festa lunga 24 ore. Una festa che superati i pregiudizi iniziali è senza dubbio riconosciuta, rubo parole sue perché sembrano scritte allo scopo, come “un momento di gioia collettiva in cui ci si riscopre amanti di questa città meravigliosa, antica, rinascimentale, barocca e moderna allo stesso tempo in grado di stupire e affascinare come nessun’altra città del mondo”. Una notte dell’anno lunga 24ore, che attraverso mille forme d’arte dona vita luoghi meravigliosi e restituisce a centinaia di migliaia di persone, rubo nuovamente dal suo testo, “quell’incontro inaspettato tra la città, i suoi luoghi e i suoi abitanti che è anche un incontro/scontro di sogni, aspettative, progetti, opinioni e punti di vista che rendono viva la comunità urbana”. Parole che penso potranno applicarsi anche al nuovo festival di Letterature e ad altre iniziative in programma per i prossimi mesi, se non impedite da una recrudescenza della pandemia. Avevamo infine cominciato a lavorare ai vagiti di una Neo-estate romana (in senso stretto), ma la pandemia ha interrotto questo lavoro.

Non usare il nome Estate Romana oggi non significa seppellire un tesoro nascosto e il dibattito provocato mi pare, al contrario, abbia cominciato a disseppellirlo. Ricorrere a un neologismo – Romarama – per iniziare a raccontare che la programmazione culturale a Roma dura tutto l’anno e che la vita culturale contemporanea non si svolge solo in estate, non cancella l’Estate Romana, anzi forse la libera dalle incrostazioni che ne hanno offuscato l’unicità e consente a ciascuno a farci i conti con chiarezza. A questo riguardo ho fiducia, avendone già parlato con Cesare Pietroiusti, che passate le prossime elezioni comunali per evitare sospetti di intenti strumentali, il Polo del Contemporaneo (Palaexpo-MACRO-Mattatoio) proponga un percorso espositivo e convegnistico sulle trasformazioni di Roma, le grandi stagioni culturali e in particolare l’Estate Romana con il suo legato.

Roma è in grado di stupire e far innamorare nella sua unicità. Lo fa. Potrebbe farlo di più se finalmente si pensasse per ciò che è, una città che produce conoscenza e cultura e non solo come una succulenta pietanza per il palato di turisti frettolosi. Perché ciò accada serve sia percepita come una città che produce e rende accessibile la vita culturale in ogni stagione dell’anno. Chi cerca su Google “cultural life in Rome” ottiene una risposta stereotipata che rappresenta un senso comune: solo immagini del suo patrimonio culturale. Ho fiducia che un po’ alla volta l’algoritmo che forma e rappresenta il senso comune restituirà una visione panoramica della vita culturale romana, ricca delle mille sfumature che la animano la da gennaio a dicembre e che è facile cogliere se, come sembrano capaci i gatti, si abbracci la curiosità per liberarsi dal velo dei cliché.
(14 luglio 2020)





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