Salvate il soldato Matteo. Così parlò il Governo
Giuseppe Panissidi
Stranezze postume. Durante tutto l’iter procedurale, pur relativamente breve, da Agrigento a Catania, via Palermo, non si è avvertito il minimo sentore di una “responsabilità collegiale” dell’esecutivo in merito ai fatti della “Diciotti”, qualificati e configurati come delittuosi da parte del Collegio per i reati ministeriali del tribunale di Catania, nei confronti del Ministro dell’Interno, Matteo Salvini. Tanto i singoli membri del governo, quanto il premier Conte, si sono ben guardati da slanci fraterni e solidali nei riguardi dell’incriminato Salvini. Piuttosto, avevano l’aria mesta di chi doveva abbozzare, a pena di crisi.
Come cambiano le cose. La ragione è trasparente. Fino alla richiesta di archiviazione in capo alla procura di Catania, molto semplicemente non si era reso necessario. Insomma, Salvini, petto in fuori, si dichiarava pronto ad affrontare il processo, quando il processo sembrava svanire all’orizzonte. Ora che esso, invece, appare possibile e reale, lui… declina. Ecce homo.
A tale riguardo, mette conto osservare che, con buona pace dell’ignara ministra Grillo, la “pubblica accusa” ha chiesto l’archiviazione “omessa ogni indagine”, vale a dire senza compiere alcun atto d’indagine, alla stregua della legge costituzionale sui procedimenti nei confronti dei ministri. Le investigazioni preliminari sono state eseguite dal tribunale dei ministri, cui gli atti sono stati prontamente rimessi, come la norma prescrive. In ogni caso, sotto un più generale profilo, se la ministra Grillo vive nel mondo reale, dovrebbe sapere che accade con regolare frequenza che l’accusa formuli richieste che il tribunale rigetta, posto che i magistrati dell’accusa, per quanto anch’essi organi di giustizia, nei contesti di ordinamento giuridico democratico sono essenzialmente degli ‘opinionisti’, come tali privi di legittimazione a “giudicare”. Questo rileva in modo speciale nei procedimenti a carico dei ministri, nell’ambito dei quali, per l’appunto, ai magistrati ordinari del pubblico ministero risulta preclusa qualsiasi prerogativa investigativa, che viceversa l’ordinamento gli attribuisce in tutti gli altri casi, in virtù del principio costituzionale di obbligatorietà dell’azione.
Il punto intrigante. D’improvviso, a seguito della decisione del tribunale dei ministri di chiedere al Parlamento di autorizzare il giudizio, in ordine al delitto di sequestro aggravato di persona, il presidente del Consiglio dichiara che la condotta del suo ministro, nonché vice premier, si deve imputare all’intero esecutivo. Post hoc, ergo propter hoc.
Ma ecco il primo errore di grammatica giuridica. Limpido il dettato costituzionale di cui all’art.27.1, uno dei capisaldi dell’ordinamento giuridico democratico: “La responsabilità penale è personale”. Una disposizione capitale, volta a escludere qualsiasi possibilità di sostituzione personale nella responsabilità penale, ammessa, invece, in ambito civilistico, quanto all’obbligo di risarcimento dei danni causati da un atto illecito. In breve, non è possibile la sostituzione della persona chiamata a rispondere di un illecito penale.
Vero è che, a mente dell’art. 95 della Costituzione, “i Ministri sono responsabili collegialmente degli atti del Consiglio dei Ministri”, ma “individualmente degli atti dei loro dicasteri”. Al riguardo, appare più che certo che nessun atto formale del Consiglio dei Ministri reca tracce della decisione di impedire lo sbarco degli immigrati dalla nave “Diciotti”. Una determinazione che, pertanto, è e resta imputabile al solo Salvini.
Né può rilevare il richiamo al fatidico “contratto” – meglio: patto di potere – non soltanto in quanto semplice accordo tra parti private, sia perché stipulato prima della formazione del governo, ovvero al di fuori del perimetro costituzionale, sia, altresì, perché di necessità generico sulle linee generali della politica dell’immigrazione, “dura quanto si voglia”, e pour cause senza alcun riferimento a eventuali fattispecie di reato commesse nel corso dell’attuazione di tale politica.
Ne discende che la successiva, palesemente strumentale, assunzione di responsabilità da parte del premier/esecutore Conte non può che riferirsi alla condivisione “politica”, di certo non alla concorrente responsabilità nel reato.
Risulta, peraltro, ampiamente provato, e pubblicamente riconosciuto dallo stesso Salvini, che l’ordine è stato “personalmente” impartito da lui. Il ministro, infatti, sfidava apertamente l’Autorità Giudiziaria in questi precisi termini: “Arrestatemi… processatemi…”. Ove mai si fosse trattato di una decisione collegiale del governo, è del tutto evidente che, a lume di grammatica, avrebbe dovuto usare il plurale.
Bisogna, naturalmente, tenere ben presente che, anche qualora l’asserito proposito criminoso del Salvini fosse stato “suscitato o rafforzato” dal governo, quest’ultimo avrebbe potuto e dovuto rispondere della medesima condotta antigiuridica attribuita al Salvini, in conformità a un principio basilare della legge penale. Alla quale previsione, non a caso, fa ora opportuno e specifico riferimento il Presidente della Corte Costituzionale, Giorgio Lattanzi, significando che, in linea teorica e a rigor di diritto, anche un intero esecutivo può essere incriminato, anche se soltanto in costanza dei presupposti di cui sopra.
Nello Stato costituzionale di diritto.
In realtà, non occorrono capacità trascendentali o poteri divinatori per arguire le motivazioni e gli scopi di siffatte e improbabili esternazioni difensive e confessorie scopertamente postume, e connesso profluvio di memorie alla competente Giunta del Senato. L’idea, ingenua, sarebbe: tutti colpevoli, nessun colpevole. Impensabile, infatti, l’incriminazione di un intero governo! Fortunatamente, come sopra argomentato, la questione non si pone, come il Collegio per i reati ministeriali di Catania implicitamente mostra di dedurre e non mancherebbe di ribadire e sillabare al Premier Conte e, se necessario, al Parlamento.
E, per l’appunto, il Parlamento, la più alta espressione della sovranità popolare, tanto cara al mondo pentastellato in costante, regressiva flessione, dovrà spiegare urbi et orbi, a chiare lettere, quale micidiale pericolo pochi immigrati malconci rappresentassero per la società e lo Stato, quale supremo interesse e bene della Repubblica mettessero a rischio. Perché di questo si tratta, non già della (pretesa) intangibilità, separatezza e assolutezza del “mandato popolare”, ora invocato, in fuori tema, dall’ineffabile ministra Grillo, nel medesimo stile democratico costituzionale e temperie spirituale dell’esecrato Berlusconi, non solo d’antan. Davvero, un cameo luminoso del conclamato “cambiamento”, questa ministra “replicante”.
Sia consentita una banale osservazione. Per quali misteriose ragioni, una vasta constituency di popolo dovrebbe continuare a indirizzare il consenso verso i cinquestelle, anziché volgerlo sull’originale, ossia sulle destre? Se è vero, com’è vero, che, in tema di diritto, legalità e giustizia, originario e fondante war-horse pentastellato, Salvini converge ampiamente e convintamente con Berl
usconi. L’esito infausto delle elezioni in Abruzzo, tra l’altro, dovrebbe ricordare al movimento delle cinque stelle di essere nato ed essersi proposto e imposto quale alternativa alle destre, non meno che alla sinistra. Oppure un semplice “contratto” d’emergenza è stato sufficiente ad azzerare una tenace e vincente identità?
In effetti, Matteo Salvini non può essere sottratto al processo sul presupposto del proprio esercizio del mandato popolare, ma solo ed esclusivamente se il Parlamento reputi che il ministro abbia agito, anche in eventuale violazione della legge penale, in conformità a un interesse di rilevanza pubblica, nazionale e costituzionale. Invero, sgomenta che un ministro della Repubblica, segnatamente un generale con tante stelle, come Grillo, la quale, previa conoscenza, si presume, ha giurato fedeltà alla Costituzione, ignori tale basilare assunto giuridico, noto finanche alla scuola materna dello Stato di diritto.
E non è certo un caso che, ora, e solo ora, la ‘discovery’ degli atti della giurisdizione penale obblighi taluno a fantasticare intorno a una minaccia terrorista a bordo della nave, che, se reale, avrebbe indubbiamente rappresentato una causa di emergenza pubblica. Di fatto, l’ipotesi appare completamente ignota alla cronaca di quei giorni, alle pubbliche e frequenti dichiarazioni dei protagonisti e, com’è ovvio, estranea all’atto di accusa pervenuto al Parlamento, che, altrimenti, sarebbe risultato manifestamente illogico per difetto di motivazione e travisamento del fatto.
Di converso, se il Parlamento concedesse l’autorizzazione, il processo verterebbe unicamente sulla sussistenza o meno del fatto-reato, senza alcuna possibilità per Salvini di annettere alla sua condotta un valore e un ombrello di Stato. E con rischi molto (molto) concreti, come gli è stato sussurrato da amici competenti, alla luce dell’atto di accusa. Da qui la fuga.
Per questo inesorabile motivo, l’autorizzazione de qua sarà negata. Inevitabile, l’ulteriore sprofondamento del movimento delle cinque stelle. Hic Rhodus, hic salta. È il potere, bellezza. Al pari del denaro, “non olet”.
Permane sempre salva, pertanto, la possibilità – sovrana? – di legittimare spregiudicate condotte antigiuridiche da parte di uomini dello Stato, non solo e non tanto nell’episodio che occupa, quanto e soprattutto nella prospettiva di un oscuro avvenire. Rispetto al quale bisognerà rassegnarsi a inventare nomi nuovi, capaci di mordere sul reale, anziché incaponirsi con ragion pigra a utilizzare categorie storiche, anche onomastiche, pregresse e datate, scivolando in astrazioni indeterminate e confuse e alimentando diatribe sofistiche da dopolavoro.
Eppure, sarebbe forse il caso di ricordare che quando la confusione sotto il cielo è grande, la situazione è o potrebbe essere favorevole. Alla sola condizione che siano disponibili opzioni e rimedi seri ed efficaci, vagamente costruttivi, nello squallore della dissoluzione generale.
Al contrario, l’incessante e uniforme sequenza degli eventi e dei comportamenti degli uomini attualmente al potere vale, di per sé, a confutare la preoccupazione espressa da chi, come Gianpaolo Pansa, ritiene che si tratti di “un governo di terroristi”. Più che altro, in virtù della superficialità, irresponsabilità e improvvisazione delle scelte, dei comportamenti e delle reazioni, questi uomini danno la percezione, aspra e forte, di essere loro quelli… terrorizzati. E non dai migranti della “Diciotti”, ma, molto più verosimilmente, dall’angoscia di perdere il potere, inopinatamente raggiunto a suon di promesse straordinariamente straordinarie. Le quali, pur (o proprio perché) realizzate in forma maldestra, contorta e contraddittoria, presentano un conto difficilmente sopportabile, se non proibitivo, anche a causa della voragine debitoria alacremente scavata negli ultimi quarant’anni. Fuori discussione i ‘principi’ ispiratori del new deal, astrattamente plausibili, evidentemente, in questione le concrete modalità esecutive, proprie di un intelletto generale fallace e di una volontà politica opportunistica e destrutturata. E, peraltro, senza neppure prevedibili vantaggi per l’opposizione della sedicente sinistra, già penosa e fallimentare forza di governo, ora pressoché in frantumi e in lunga e lenta agonia. Dunque, nel caos più torbido, in assenza di una realistica possibilità di alternanza ‘politica’ e, inoltre, con la certezza di potere recuperare solo in parte il terreno dissennatamente perduto, dopo eventuali elezioni generali anticipate.
“Un uomo che ha un’idea nuova – scrive Mark Twain – è uno svitato finché quell’idea non ha successo”.
Costoro, di certo, non hanno successo. Né potranno, almeno fino a quando non avranno compreso che la “politica”, anche venticinque secoli dopo Aristotele, mutatis mutandis, rimane “la forma più alta dell’attività umana”, non supina e cieca rappresentanza di interessi e bisogni, ancorché reali e meritevoli di ogni attenzione, né semplice esercizio del potere. Fino a quando, insomma, non gli consterà, in modo sufficientemente perspicuo, che “politica”, oggi come non mai, dati certi chiari di luna da post-tutto, significa anche “auto-formazione” dei governanti e “formazione” dei governati. Quasi terapia. Paideia.
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