Sánchez, missione fallita. E in Spagna cresce l’ultradestra
Steven Forti
e Giacomo Russo Spena
Obiettivo mancato. Pedro Sánchez aveva forzato la mano facendo saltare l’estenuante trattativa di governo con Unidas Podemos e rimandando la Spagna al voto, per la seconda volta in pochi mesi, convinto di ottenere una maggioranza più solida che gli permettesse di governare in solitario. Così non è stato. Anzi, il suo Psoe è arretrato rispetto al consenso ottenuto l’aprile scorso: un punto percentuale e tre deputati in meno. Il quadro, per i socialisti, è peggiorato pur restando il primo partito con il 28% e 120 eletti. La sindaca di Barcellona, Ada Colau, poche ore dopo l’esito delle urne twittava: “Pedro, tus elecciones han fracasado”. Hai fallito. Per poi aggiungere: “Las izquierdas hacen un frente amplio, o nos vamos todas a la mierda”. O fronte ampio delle sinistre – come in Portogallo e come non si è riusciti a realizzare finora in Spagna – o siamo nella merda.
Dalle urne esce nuovamente una situazione di instabilità politica dove a giovarne, come era ovvio, è la peggior destra postfranchista di Vox che si attesta come voto di protesta e reazione alla crisi catalana: l’ultradestra alleata di Meloni e Kaczinski nel Parlamento europeo ottiene il 15 cento, quasi 5 punti in più, e ben 52 parlamentari (ne aveva solo 24). Si attestano nel Paese come terza forza e il loro successo è legato tanto al nazionalismo e al passato franchista della Spagna quanto all’internazionale populista di destra. I leader di Vox utilizzano ormai gli stessi slogan di Salvini, Le Pen, Orbán e Trump: contro gli immigrati, l’Islam, la globalizzazione, il femminismo, gli omosessuali e l’Europa. Se è vero il boom di Vox, la destra nel suo complesso ha una leggera crescita – nessun exploit: guadagnano 3 seggi in totale – tanto da non avere i numeri necessari per formare un governo; piuttosto si può parlare di riassestamento interno al campo delle destre. Che si radicalizzano. A crollare è Ciudadanos (passa dal 15,9 al 6,8 per cento; da 57 a 10 deputati), la formazione liberal guidata da Albert Rivera che nel 2015, quando aveva dato il salto alla politica nazionale, si era presentata come un’opzione centrista in grado di rigenerare la politica spagnola. Una specie di Macron in salsa iberica. In realtà, però, Rivera ha virato sempre più a destra, competendo con Vox soprattutto sulla risposta all’indipendentismo, e bloccando la possibilità di un governo con il Psoe nei mesi scorsi: Sánchez aveva infatti chiesto a luglio l’astensione a Ciudadanos, con cui il Psoe aveva una comoda maggioranza assoluta, ma Rivera si era negato, accusando Sánchez di essere un ostaggio dei “separatisti che vogliono rompere la Spagna”. Gli elettori non glielo hanno perdonato. Rivera, dimessosi dopo il tonfo colossale, non ha fatto altro che spianare la strada a Vox, oltre a restituire i voti rubati in questi anni ai conservatori del Partito Popular. La formazione di Pablo Casado – capace di ringiovanire e dare nuova linfa ad un partito che qualche mese fa sembrava al collasso anche per i continui scandali di corruzione – recupera 4 punti percentuali e si attesta come seconda forza: 21% e 88 deputati.
Malgrado i media italiani parlino di “crollo” di Unidas Podemos, il partito di Pablo Iglesias – dati alla mano – tiene o, al massimo, ha un lieve calo. Rispetto alle elezioni di aprile, infatti, prende l’1,5% in meno e si attesta quasi al 13%. Un risultato che poteva essere peggiore considerando la campagna sul voto utile fatta da Sánchez – il quale invocava a sinistra i voti necessari per ottenere una comoda maggioranza – e la scissione interna del “populista” Íñigo Errejón a cui la prima esperienza elettorale con Más País va maluccio, fermandosi al 2,3% e soli 3 seggi. Unidas Podemos ha un calo dei parlamentari (passa da 42 a 35), questo sì, ma più a causa della concorrenza della piattaforma di Errejón in alcune province (soprattutto Madrid e Barcellona, ma anche Malaga e Cadice) che per un effettivo calo dei consensi. Per di più, la campagna elettorale, giocata quasi unicamente sulla crisi catalana, non ha favorito il partito di Iglesias che tentava di portare il dibattito sulle questioni sociali, avvisando dei rischi di una prossima recessione economica.
Per completare il quadro del voto, gli indipendentisti catalani. Nel congiunto aumentano lievemente i propri consensi (passano dal 39,6 al 42,6% dei voti in Catalogna e guadagnano un deputato), capitalizzando le proteste e l’indignazione di buona parte della società catalana alle condanne per i fatti dell’autunno del 2017. Ma non sfondano. Ancora una volta si dimostra come la società catalana sia spaccata (più o meno) a metà e l’indipendentismo non abbia l’appoggio della maggioranza della popolazione. Il dato rilevante è però soprattutto un altro: per quanto sia il primo partito in Catalogna, Esquerra Republicana de Catalunya (Erc), formazione di centro-sinistra guidata da Oriol Junqueras, perde due deputati (da 15 a 13) a favore di Junts per Catalunya (JxCat), la lista dell’ex presidente Puigdemont, che ne guadagna uno (da 7 a 8) e, soprattutto degli anticapitalisti della Cup che, presentatisi per la prima volta alle elezioni spagnole, con l’1% dei voti mandano a Madrid 2 deputati. Il che, in sintesi, significa che la via pragmatica difesa da Erc negli ultimi tempi – a luglio aveva garantito i propri voti ad un governo Psoe-Unidas Podemos – è stata castigata dagli elettori indipendentisti che hanno voluto premiare l’intransigenza di Puigdemont e della Cup il cui obiettivo è nient’altro che bloccare la politica spagnola. Ossia, il tanto peggio, tanto meglio.
Adesso cosa succederà? Quattro sono gli scenari possibili. Analizziamoli.
Primo scenario: un governo delle sinistre sullo stile portoghese o, ancora meglio, con un vero e proprio governo di coalizione. Ci sono ancora i numeri, per quanto la situazione sia ancora più complessa dei mesi scorsi. Finora non è stato possibile per l’incapacità di trovare un accordo tra Psoe e Unidas Podemos. Ora, fallito il plebiscito di Sánchez e con l’ultradestra in crescita, Iglesias spinge nuovamente per trovare una sintesi. Appena conosciuti i risultati, pur criticando duramente Sánchez per il suo tatticismo e la sua irresponsabilità, Iglesias si è detto disponibile a lavorare per un governo progressista “nel quale ogni forza abbia esclusivamente la rappresentanza proporzionale ai voti ottenuti”. Il nuovo esecutivo, oltre a Unidas Podemos e socialisti, dovrebbe avere anche l’appoggio esterno di altre formazioni regonaliste e nazionaliste, come il Partito Nazionalista Basco che ha aumentato i propri consensi (da 6 a 7 deputati), i nazionalisti galiziani, i regionalisti della Cantabria o la lista civica ¡Teruel Existe! (ognuno con un seggio). E, soprattutto, degli indipendentisti catalani. I voti, o almeno l’astensione di Erc, è indispensabile. Il che ovviamente non è facile. Sia per la svolta degli ultimi mesi di Sánchez che ha indurito il suo discorso con Barcellona rispetto alla prima tappa al governo – arrivando quasi a competere con le destre durante la campagna elettorale – e ha virato chiaramente verso il centro in quanto a politiche economiche e sociali. Sia perché, dopo la condanna ai leader catalani e le proteste dell’ultimo mese, le formazioni indipendentiste, che lottano per l’egemonia politica nella regione, hanno nuovamente difeso una linea intransigente. E la stessa Erc, prima su posizioni più pragmatiche,
ha attaccato duramente Sánchez, considerandolo un sosia di Rajoy. Si aggiunga a questo il lieve retrocesso di Erc che, difficilmente, sarà disponibile come nei mesi scorsi sentendosi il fiato sul collo di Puigdemont e compagni. Un governo Psoe-Unidas Podemos, però, sarebbe l’unica strada progressista, coraggiosa e in discontinuità col passato, permettendo di iniziare un dialogo con gli indipendentisti, ma alquanto improbabile perché Sánchez guarderebbe altrove.
Arriviamo così al secondo scenario possibile: larghe intese Psoe/Pp. Sono i due partiti maggiori. Dopo anni di terremoto politico, in Spagna riemerge, per quanto indebolito, una sorta di bipolarismo dove socialisti e popolari sono le forze principali. Non ottengono come in passato il 70 per cento dei voti: sfiorano però il 50 per cento e hanno 208 dei 350 seggi in parlamento. Potrebbero formare insieme un governo di responsabilità con la benedizione dell’Europa. Ma se Sánchez sembra disponibile, tocca capire le intenzioni di Casado. Con l’ultradestra in crescita, il Pp potrebbe dettare le sue condizioni: chiedere la testa di Sánchez – e quindi trovare accordo su un nuovo premier – o, in caso di rifiuto socialista, invocare nuove elezioni. Ovvero, la terza opzione. Quella che probabilmente porterebbe la (peggior) destra a governare la Spagna. C’è però anche un quarto scenario: quello di un governo istituzionale o di “unità nazionale” guidato da una figura esterna ai partiti. Una specie di opzione Monti alla spagnola. Sarebbe chiave in questo il ruolo del re Felipe VI. Difficile, tenendo conto del contesto e dei trascorsi politici del paese iberico, ma da non escludere. Nelle prossime settimane si definirà il quadro: il 3 dicembre, infatti, si costituisce il nuovo parlamento e la prima sessione di investitura potrebbe tenersi prima di Natale.
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