Sanders vs Warren: chi sarà lo sfidante di Trump?
Nicola Melloni
Warren e Sanders, d’altro canto, sono la risposta di sinistra alla vittoria di Trump. Entrambi hanno una visione chiara e piuttosto articolata dei problemi della società americana e sono entrambi critici del mainstream liberal-democratico. Come sappiamo, già 4 anni fa Bernie fu un fiero avversario della Clinton mentre la Warren si distinse già in epoca Obama per gli attacchi a testa bassa contro Wall Street e contro gli stessi democratici rei di non essere abbastanza duri col mondo finanziario. I loro programmi sono vagamente simili: entrambi propongono una copertura sanitaria nazionale – anche se la Warren in maniera più titubante – ed entrambi sono a favore di una tassa patrimoniale per i più ricchi – un tema lanciato prima dalla Warren e poi seguito da Sanders con aliquote più punitive e gettito futuro più alto. Entrambi, senza dubbio, rappresenterebbero una svolta politica a sinistra.
Se le proposte di “policy” sono relativamente simili, le differenze politiche sono invece assai più ampie. La sintesi, se vogliamo, l’han data proprio i due candidati quando la Warren ha sostenuto di essere “capitalista fin nelle ossa”, cosa a cui Bernie ha prontamente risposto “Io, no”. Non sono solo slogan. I limiti e le incongruenze del capitalismo di inizio secolo sono chiari ad entrambi i candidati, ma mentre Sanders vuole cambiare il sistema, Elizabeth Warren vuole “aggiustarlo”. In questo è erede di una tradizione americana che affonda le radici nel populismo democratico e nei due Roosvelt: lotta ai monopoli, riaffermazione della centralità e dell’autonomia della politica, una dose di giustizia sociale. Cose meritorie, ma che rientrano nell’ottica di un capitalismo democratico, con istituzioni forti ma in cui, in fin dei conti, il mercato è il regolatore principale dell’attività economica, ed inevitabilmente anche di quella sociale.
Sanders invece è un socialista, per quanto moderato secondo gli standard storici – anche se nel 2019 appare un pericoloso radicale. Il centro del suo programma è una riorganizzazione generale del sistema: democrazia non solo elettorale ma anche nei luoghi di lavoro; e soprattutto una ridefinizione del rapporto tra Stato e mercato, in cui i diritti sono garantiti attivamente dal settore pubblico e non più mercificati: da un sistema di sanità pubblico in cui spariscono le assicurazioni private, alla costruzione di case popolari, al controllo degli affitti; ed infine un Green New Deal di grande ambizione, che aggredisca immediatamente le grandi compagnie estrattive e, sotto il controllo pubblico, reindirizzi drasticamente l’attività economica.
Le differenze sono per altro indicative della diversa base elettorale: Sanders raccoglie voti tra gli strati più poveri e più giovani della popolazione, la Warren tra le donne e tra coloro con titoli di studio più alti. In poche parole, Sanders è il candidato della working class, Warren di quella che viene definita la “professional-managerial class”, ovvero professionisti, manager e classe media di estrazione progressista. La distinzione sociale è in realtà non così netta se si pensa che le tendenze polarizzatrici del capitalismo finanziario hanno “proletarizzato” la classe media, insoddisfatta di un sistema economico punitivo e ingiusto. Ed è inevitabile che solo una alleanza tra questi due soggetti possa portare ad un cambiamento sociale e politico significativo. Le differenze però restano: Bernie rappresenta quell’attivismo sociale che è rinato con Occupy e mostra ora inaspettati muscoli con una ondata di scioperi, soprattutto tra gli insegnanti, come in queste ore a Chicago. E’ la gamba movimentista e non istituzionale che combatte per le strade e nei luoghi di lavoro e che è indispensabile per non dipendere dalla benevolenza di Capitol Hill per cambiare le regole del gioco. E’, se vogliamo, quella parte politica che meglio ha capito i limiti e gli errori di un approccio “alla Obama” – entusiasmo popolare durante la campagna presidenziale, seguito dalla “politica per professionisti” dopo la vittoria.
Warren è sicuramente meglio di Obama – le sue idee sono più radicali, la sua storia personale ne dimostra l’integrità ed una genuina ostilità per Wall Street (cosa che certo non si può dire per Barack) – ma rappresenta il modello politico di “tecnocrate di sinistra” il cui capitale politico sono le idee giuste piuttosto che la costruzione di una grande alleanza sociale. Ed il progetto politico ne risulta per forza di cose ridimensionato, se si pensa che a Washington i poteri presidenziali sono in realtà fortemente limitati da maggioranze variabili nel Senato e nel Congresso, l’ostilità di buona parte dei Democrats, e la presenza di istituzioni politicamente non certo “terze” come la Corte Suprema. Non a caso è considerato il minore dei due mali tra le file dell’establishment democratico – più moderata, più ortodossa, con maggiore forza elettorale ma minore forza politica.
Sanders, con la sua campagna “presidenziale” di quattro anni fa ha innervato un movimento politico e culturale che ha inciso in profondità. La riforma sanitaria era un argomento tabù ed ora tutti i candidati, chi più, chi meno, vogliono andare oltre la modesta Obamacare, che sembrava allora un punto avanzato. Le diseguaglianze sociali ed economiche sono state ignorate per decenni, ma grazie alla pressione dei movimenti e alla forza politica di Sanders sono diventate il centro del dibattito. Occupando lo spazio politico e forzando anche l’establishment democratico a seguirlo, pur in maniera opportunista a riluttante, Bernie ha dimostrato di portare avanti un discorso culturalmente egemonico, supportato dal sempre maggiore attivismo sociale. La stessa candidatura della Warren non sarebbe stata possibile senza quelle lotte. È lui, dunque la migliore chance non solo per sconfiggere Trump, ma per portare finalmente un cambiamento vero al di là dell’Atlantico.
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