Savona e il Melting Pot della politica economica

Ugo Marani

Le riflessioni del Ministro per gli Affari Europei Paolo Savona contenute nel documento “Una Politeia per un’Europa diversa, più forte e più equa” – un testo sofferto e diplomatico, controcorrente ma illuministico – ci aiutano a fare il punto sulla crisi di identità che l’Unione Monetaria Europea attraversa dopo circa un ventennio dalla sua istituzione.

Il Sacro Romano Impero non era né sacro, né Romano,
e nemmeno era un impero…
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Se la confusione regna sovrana nella politica e nell’economia, niente di strano che il calderone del Melting Pot riguardi anche la politica economica. Talune certezze sulle continuità analitiche tra latitudine politica dell’analisi e implicazioni di policy vengono angosciosamente meno. Le sicurezze della contiguità tra sinistra, quella di oggi s’intende, e stato e tra destra e mercato sono sconfessate da improvvisi riposizionamenti. Si pensi, ad esempio, al nostro paese: il centro-sinistra tradizionale quasi invoca l’intervento dei mercati finanziari affinché essi sanzionino, con l’incremento dello spread, l’irresponsabilità di governi che si appresterebbero a varare manovre espansive. Il disavanzo pubblico cozza contro la barriera della trinità: assistenzialismo-europa-mercati finanziari, una trinità invocata a mò di anatema e di scomunica. Per converso chi dal libero mercato vanta la propria ispirazione, sembra auspicare un ritorno a un certo ruolo dello stato nell’economia e l’apertura di contenziosi con il vincolismo europeo. E simile confusione non è figlia del sovranismo oggi imperante, ma pare scaturire da ben più lontano. Certamente da quando il centro-sinistra europeo, con diverse velocità nazionali di deresponsabilizzazione, ha rimosso, letteralmente, le tematiche di welfare e di solidarietà sociale, impegnato a comprovare la propria indulgenza ed empatia con le spinte di globalizzazione e di vetustà del keynesismo.
Ma la confusione, probabilmente, presenta anche qualche effetto collaterale positivo, come ad esempio la conversione progressiva di taluni economisti verso paradigmi teorici diversi da quelli che ne avevano determinato la visibilità. Non parliamo di quelle improvvise folgorazioni sulla via di Damasco, sovente tanto improvvise quanto sospettose e utilitaristiche, ma dei mediati processi di revisione della propria visione del mondo che, quando metabolizzati, conducono verso sponde difficilmente immaginabili. Ci riferiamo al Ministro per gli Affari Europei Paolo Savona e al suo documento “Una Politeia per un’Europa diversa, più forte e più equa”, pubblicato poco tempo dopo il suo insediamento al dicastero. Le riflessioni meritano di essere approfondite, probabilmente da angolazioni diverse da quelle sottolineate nei media, poiché ci aiutano a fare il punto sulla crisi di identità che l’Unione Monetaria Europea attraversa dopo, circa, un ventennio dalla sua istituzione.

In estrema sintesi, e facendo violenza alle articolazioni esplicative dell’autore, queste, in poche sintetiche asserzioni, le posizioni di Savona:

i.    La crisi recessiva del 2007-2008 ha evidenziato i limiti delle politiche economiche con le quali l’Unione Monetaria ha pensato di fronteggiarla;
ii.    Tali limiti si basano su di una distorta interpretazione e una perversa applicazione dei Trattati costitutivi dell’Unione;
iii.    La distorta interpretazione attiene alla rimozione delle possibilità di attuazione di politiche della domanda aggregata, mai definite “nei modi e nei tempi necessari”;
iv.    Ciò ha determinato l’assenza di discrezionalità, propria della politica economica e il primato della burocrazia europea: il ricorso a regole di condotta automatiche e misurabili è l’esplicitazione di una simile mancanza;
v.    Il rifiuto del principio di gestione della domanda aggregata ha conferito il primato alle politiche dal lato dell’offerta, ovvero al richiamo, continuo e sterile, a riforme dei mercati dei beni, del lavoro e della moneta l’unico possibile strumento di intervento nazionale e comunitario
vi.    Le iniziative compensative di carattere sovranazionale sono esitate tutte in fallimenti operativi, più o meno consapevoli: l’attività della Banca Europea degli Investimenti, le cui attività nei singoli stati avrebbe potuto attenuare l’onere dei vincoli del Patto di Stabilità; l’emissione di Eurobond sovranazionali; il Piano Junker sugli investimenti regionali.
vii.    L’onere della politica economica è ricaduto, pertanto, sulla sola Banca Centrale Europea (BCE), la cui estensione di poteri non è formulata esplicitamente né soggetta a un vero controllo politico: ambiguità e mancanza di accountability sono i dati su cui la discrezionalità finanziaria poggia. Due gli esempi più macroscopici: la totale indipendenza della BCE nella determinazione dei tassi di cambio; l’esercizio tardivo della funzione di Prestatore di Ultima Istanza secondo un principio, il cosiddetto Capital Key, che immette liquidità anche verso paesi, la Germania e l’Olanda, che di simili iniezioni hanno ben poca necessità;
viii.    Simili distorsioni conducono verso il paradosso che nell’Unione Europea i sistemi finanziari nazionali sono salvaguardati; gli stati no.
ix.    Sarebbe dunque necessario dar vita a un “Gruppo di Lavoro”, che “esamini la rispondenza dell’architettura istituzionale europea vigente e della politica economica con gli obiettivi di crescita nella stabilità e di piena occupazione esplicitamente previsti nei Trattati”.
Questa, in sintesi, la summa del documento di Savona: un documento sofferto e diplomatico, controcorrente ma illuministico. Cerchiamo di spiegarci. La stesura della nota è diplomatica, soffertamente diplomatica: l’intento di Savona è quello di “convincere” i propri interlocutori, in primo luogo in Italia, che la discussione sugli obiettivi di medio periodo e di policy adeguate in Europa possa avvenire nel quadro istituzionale attuale, senza lacerazioni e conflitti abissali tra gli stati aderenti all’Unione Monetaria. È come se Savona dicesse: è tutto là… nei Trattati costitutivi dell’Unione… basta convincersene. Magari fosse così, ci viene da obiettare: il varo della moneta unica introduce, rispetto al processo di unificazione dei mercati delle merci e del lavoro avviato nel secondo dopoguerra, tratti di cogenza, di sorveglianza e di sanzione del tutto assenti nella diplomazia comunitaria degli Anni Sessanta e Settanta. Un quadro di cogenza paragonabile, forse, a quello del Sistema Monetario Europeo, che non a caso era saltato per l’assenza di simmetria di intervento tra le valute forti, segnatamente il marco, e le valute deboli, la lira e la sterlina inglese. Periodo quello che segnalava, sui mercati monetari e finanziari, l’esistenza di un regime di German Dominance.

Ma Savona va capito nell’attuale contesto italiano di caccia alle streghe. Così come era accaduto nella fase di avvicinamento della sinistra alla stanza dei bottoni qualche decennio addietro quando l’ammissione al potere poteva avvenire solo professando un filo-atlantismo “più realista del re”, oggi la condizione di inclusione nei salotti che contano è determinata dalla totale accettazione della triade “mercati finanziari- euro-assistenzialismo del settore pubblico”.

Eppure Savona non aveva commesso, se si pensa al crucifige della sua mancata nomina come ministro del Tesoro, particolari peccati di eresia: si è limitato ad esprimere sull’euro perplessità che, in linea di principio, appartengono anche al pensiero più autenticamente liberal-monetarista.

Nel 1997, allorquando il disegno della moneta unica era oramai portato a compimento, Milton Friedman, che non può di certo essere tacciato di keynesismo o di propensione al disavanzo di bilancio pubblico, criticava la nascitura creatura comunitaria poiché i requisiti propri di un’area valutaria ottimale erano assolutamente assenti in Europa: flessibilità dei salari e dei prezzi, meccanismi di aggiustamento endogeni in presenza di shock asimmetrici, omogeneità delle strutture economiche dei paesi aderenti, con l’eccezione di Germania, Benelux e Austria. La nascita dell’euro, aggiungeva, era da rintracciarsi nella politica piuttosto che nell’economia. Ma ciò non era sufficiente. “Monetary unity imposed under unfavorable conditions will prove a barrier to the achievement of political unity”.
Una posizione, quella dell’economista di Chicago, ripresa di fatto e con particolare enfasi da un altro liberista doc, Martin Feldstein, che da oramai venti anni riprende, spesso senza citarle, le argomentazioni di Friedman, presagendo sciagure e calamità per l’Unione Monetaria.

Nei fatti, dunque, accusare Savona di scarso europeismo equivale a negare i limiti dei presupposti dell’area valutaria europea, come se averne riscontrato l’esistenza fosse, di per sé, un problema. La precarietà analitica del progetto della moneta unica non può permettersi che adesioni e benedizioni indiscriminate. Se poi simili dubbi fossero avanzati da chi ha responsabilità di governo ci penseranno i mercati finanziari e la comparizione dello Spread a decretare la pericolosità delle critiche.

La si smetta, dunque, di tacciare un economista, Paolo Savona, di scarso europeismo. Se perplessità devono essere trovate al suo documento esse non vanno tanto verso la sua riscoperta, forse tardiva, del principio keynesiano della domanda aggregata, quanto piuttosto nell’incapacità di comprendere alcuni meccanismi intrinseci del funzionamento di QUESTA Europa.

Il primo riguarda la “(un)balance of power” tra autorità politiche comunitarie e Banca Centrale Europea. Savona ricorda correttamente il Trattato di Maastricht laddove si stabilisce che il Consiglio dei Ministri Economici può, con maggioranza qualificata, esprimere raccomandazioni alla BCE e formulare orientamenti generali sulla politica del tasso di cambio. Ma, francamente, la posizione di Savona pare analiticamente debole: a meno di stipule preventive di accordi sulla fissità dei cambi o di una “financial diplomacy” per perseguire “currency board” specifici, è del tutto improbabile che una banca centrale, in regime di cambi flessibili, accetti e persegua indicazioni “esterne” sulla parità della valuta o su limiti all’apprezzamento-deprezzamento.
 
Molta più attenzione meritano le critiche di Savona alle modalità, non codificate, con le quali la Banca Centrale Europea esercita la sua tardiva scoperta di prestatore di ultima istanza, funzione peraltro non contemplata tra i suoi poteri originari. La politica monetaria selettivamente espansiva di Francoforte si coniuga strettamente con la severità austera della politica fiscale. Ma non già per un primato della burocrazia comunitaria sulla politica e per la prevalenza dell’automatismo sulla discrezionalità in quanto tale.

La dimensione di questi problemi è tale che è del tutto illuministico pensare che possano essere solo affrontati da un gruppo di lavoro europeo, come Savona auspica. Il consesso europeo non rifugge tanto l’utilizzo della fiscalità, quanto dalla politica fiscale nazionale, intesa come espressione domestica di una propria gerarchia di obiettivi finali. Paradossalmente si potrebbe dire che l’austerità è la modalità per imbrigliare non già i valori dei disavanzi pubblici ma le funzioni di utilità, di certo quelle antitetiche, espresse dai disavanzi pubblici. Si può anche creare l’“Helicopter Money”, ovvero moneta fatta cadere, in caso di estrema recessione, sulla collettività affinché spenda. E non è un caso che, mutatis mutandis, se ne sia parlato. Ma l’elicottero deve essere di rigorosa pertinenza della banca centrale e dell’Unione Europea; giammai della politica nazionale.

(15 ottobre 2018)



 



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