Scomunica, una sconfitta della Chiesa
di Raffaele Garofalo, prete
Il 4 agosto scorso usciva su l’Unità un articolo, a firma di don Filippo Di Giacomo, dal titolo “Scomunica, una sconfitta della Chiesa”. Non si può che essere consenzienti con una tale coraggiosa affermazione tuttavia, proseguendo nella lettura del pezzo, si coglie una evidente contraddizione o ambiguità del ragionamento. Al di là di ogni considerazione, il giornalista sembra difendere, in definitiva, la sanzione della scomunica sebbene da lui stesso considerata una doppia “sconfitta”. La ragione fondamentale che l’autore adduce, per la “comprensione” di una norma tanto severa della Tradizione della Chiesa, si rifà ad una “legge della gravità sociologica” per cui le sanzioni si applicano in tante “organizzazioni politiche, finanziarie, militari, sportive e quant’altro”. La Chiesa viene così, di fatto, ritenuta una struttura alla stregua di numerose altre istituzioni non religiose in cui è meno prevalente il fattore “coscienza” e maggiormente quello disciplinare.
Lo specifico della Comunità ecclesiale è l’essere basata su un Amore e una Misericordia di Dio che non conoscono limiti, non emarginano, non disperano mai… Nel Nuovo Testamento solo Paolo, primo “interprete” del vangelo, usa la parola “anàtema” (scomunicato). “Se qualcuno vi annuncia un vangelo diverso da quello che voi riceveste, sia votato alla maledizione divina! (Gal, 1, 8.9) ; “ Se qualcuno non ama il Signore sia anàtema” (1 Co, 16, 22). Sono parole dure che vanno interpretate all’interno di un linguaggio paradossale, frequente nei testi sacri, che fa dire a Cristo: “Se il tuo occhio ti scandalizza, cavalo e gettalo via da te!”. La lettura di passi presi alla lettera, senza tener conto dello spirito prevalente del testo evangelico nel suo complesso e delle figure retoriche del linguaggio semitico, doveva procurare, nella storia della Chiesa, molti gravi incidenti, oltre la triste vicenda di Origene. Come conciliare la “scomunica” con la teoria delle parabole della misericordia divina: di un padre premuroso che non si rassegna alla perdita del figlio e scruta l’orizzonte, tutti i giorni, finché non lo vede tornare a casa; della pecorella smarrita per salvare la quale il pastore lascia le altre al sicuro e mette a repentaglio la propria vita?
Nell’articolo in questione si giustifica la sanzione della scomunica rifacendosi ad una Tradizione, successiva ai testi evangelici, la quale, sull’onda del fervore neofita e di evidenti ragioni apologetiche, spesso offusca la chiarezza del messaggio di Cristo, rivestendolo di categorie “giuridiche” proprie della società civile e della cultura del tempo. Non si contesta all’autore dell’articolo il ribadire la difesa che la Chiesa ha sempre fatto della vita umana, fin dalla nascita, come punto a suo favore rispetto al mondo pagano, si contesta la tolleranza, se non la giustificazione (pur nel far propria l’amarezza della “sconfitta”) di una sanzione che mira ad emarginare il peccatore, invece che a recuperarlo. Non è scritto che “Dio non vuole la sua morte ma che si converta e faccia penitenza”? La scomunica non è morte per l’anima del malcapitato? Anche la Chiesa istituzione non ha potuto rimuovere dalla propria coscienza le persecuzioni, le pene capitali da essa stessa inflitte in nome di Dio, infatti ha chiesto perdono di colpe ugualmente “meritevoli” di…scomunica!
Oggi il magistero ecclesiastico, che lancia la scomunica a chi pratica l’aborto, mostra tutta la sua debolezza nel tollerare la pena di morte vigente negli Stati “amici”, nel riconoscere “missioni di pace” portate avanti con le armi e aggressioni ad altri Stati mascherate dall’intento di “esportare la democrazia”. La Storia, purtroppo, è destinata a ripetersi. La follia dello Stato fascista considerava l’invasione dell’Abissinia come “impresa religiosa e umanitaria”. In un articolo del giugno 1936, la Civiltà Cattolica, per la penna del gesuita Messineo, tentava di dimostrare che l’impresa coloniale andava considerata come un atto di legittima difesa, mentre la resistenza della popolazione assalita veniva ritenuta, essa, un vero atto di aggressione. Si stava portando la luce del Cristianesimo ad una terra oscurata dal paganesimo!
Don Filippo Di Giacomo è quasi commovente nel suo slancio celebrativo dello “splendido articolo di Mons. Fisichella” che denunciava la tenerezza mancata, da parte dei religiosi, alla piccola Carmen sottoposta alla pratica abortiva e scomunicata dal vescovo di Recife. A rigor di termini il prelato brasiliano applicava semplicemente una sanzione canonica che la Chiesa continua a mantenere e i teologi vaticani continuano a difendere e giustificare! Nel suo intervento il Rettore lateranense faceva autocritica lamentando che i religiosi non avevano fatto sentire alla bambina “quanto eravamo tutti con lei”. Uno sfogo sentimentale sufficiente forse, nell’intenzione del prelato, per costituire una riparazione al torto subito dalla bambina; un atteggiamento compassionevole da assumere di fronte al grave problema di una scomunica destinata a permanere per tutte le Carmen abusate, bambine e non. Quanto utili possono risultare a costoro le lacrime del poi? E’ opportuno ricordare (se non è una falsa notizia) che, in alcune incresciose circostanze riguardanti la violenza subita da religiose, il Vaticano concedeva l’autorizzazione a pratiche abortive.
Non risulta ben chiaro, nella parte finale dell’articolo del giornalista, il senso del “gesto di infinita carità pastorale” di Benedetto che “ha preso su di sé tutti gli atti, le parole, i gesti senza carità e senza misericordia che hanno portato alla scomunica dei tradizionalisti”. La citazione si riferisce ai lefebvriani? La scomunica ai “tradizionalisti” fu comminata dal papa dietro indicazione della Congregazione della Dottrina per la Fede, ex Sant’Ufficio. E’ pensabile che l’allora cardinale Ratzinger, la voce più autorevole negli Uffici vaticani, fosse all’oscuro del provvedimento?
L’articolo di don Filippo suscita infine alcune riflessioni di fondo provocate anche dal classico manifesto della scomunica di Pio XII ai comunisti e riportato nella stessa pagina del giornale. A suo tempo Benedetto dichiarò che il ritiro della grave sanzione ai lefebvriani andava inteso come un primo passo che la Chiesa faceva, di sua iniziativa, perché la Fraternità S. Pio X tornasse al rispetto delle disposizioni del Concilio. Un autentico gesto cristiano di un papa che intende muoversi nella direzione di una Chiesa che non lancia più anatemi e vuole invece stimolare le coscienze attraverso il dialogo, la persuasione e, soprattutto, la testimonianza, consapevole che la “salvezza o la perdizione” di ognuno è nelle scelte individuali e nelle mani di Dio. La coscienza tranquilla della Chiesa e del clero non può consistere solo nel fatto di una “tenerezza” da mostrare, ex post, verso una bambina caduta nella duplice trappola di adulti senza scrupoli, prima, e di religiosi senza carità, dopo.
La Chiesa deve fare i conti con sanzioni che sono in netto contrasto con l’amore evangelico e l’”inclusione” a cui mira sempre il messaggio cristiano. Matteo 18, quando parla del fratello che con pervicacia resiste alla correzione fraterna, invita a considerarlo come “il pagano e il pubblicano”, cioè “terra di missione”, terreno di semina, non luogo di perdizione. I valori del Cristianesimo s
ono semi da spargere, non ordinanze militari. La decisone di Benedetto di revocare la scomunica alla comunità di Econe suscitò, a suo tempo, un vivace dibattito nella comunità religiosa e nella società. Per dissipare innanzitutto il dubbio che il papa volesse favorire la parte più tradizionalista della Chiesa, Benedetto dovrebbe procedere, nel suo intento di riconciliazione, col togliere la scomunica anche su altri fronti, iniziando da quei fedeli (i pochi rimasti) che, nell’immediato dopoguerra, frequentavano le chiese con in tasca la tessera di un partito non gradito al Vaticano. Il papa dovrebbe ritirare la diffida ai teologi rimossi dalle facoltà teologiche, a cominciare da Hans Kung (compagno di cattedra di Ratzinger a Tubingen), agli esponenti della Teologia della Liberazione e a numerosi altri religiosi e comunità di base a cui è stato imposto il silenzio nella Chiesa. Quei teologi e quelle comunità sono ben meritevoli del gesto papale della riconciliazione e di sentirsi legittimati ( anche dalla Chiesa gerarchica) nell’azione di testimonianza in mezzo al popolo di Dio. Nella Chiesa del post Concilio si avverte più che mai l’esigenza del dialogo tra le diverse anime della comunità ecclesiale e con le altre Chiese e Confessioni, dagli ultimi pontificati tenute a distanza. Il mondo ha bisogno di rinnovata speranza, di un nuovo Giovanni XXIII che abbia il coraggio ( allora giudicato quasi follia) di indire un altro Concilio che dia piena attuazione al Vaticano II, almeno, e ricomponga lo “scisma sommerso”e taciuto. Va colmata la distanza enorme tra una Fede professata a parole ma spesso sconfessata nella pratica, non solo per le colpe dei penitenti ma spesso per la scarsa sensibilità dei maestri, per l’assurdità di leggi ecclesiastiche poco evangeliche che “impongono pesi insopportabili sulle spalle degli altri”. Nel caso dell’aborto, la proibizione di un precauzionale, preventivo controllo delle nascite è un “peccato” di cui si macchia la Chiesa stessa. A questo si spera guarderà “l’infinita carità pastorale” del papa teologo.
P.S. “Corre voce” che una quarantina di preti potrebbero essere “graziati” con una scomunica, o con un grave provvedimento disciplinare, da parte di papa Ratzinger. Lassù Dio Padre misericordioso, per un certo tempo, ha avuto in mano due “scomuniche” piuttosto imbarazzanti, per merito di due papi. Una contro Martin Lutero, la cui colpa era (anche) quella di auspicare la celebrazione liturgica nelle lingue nazionali, l’altra contro Lefebvre, che riteneva valida solo una celebrazione in latino. Non sarebbe stato piacevole trovarsi, nella circostanza, nei panni del buon Dio. Conoscere però i suoi “imperscrutabili” pensieri, a riguardo, sarebbe davvero intrigante!
(10 settembre 2009)
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