Scrivere è pericoloso. Armando Petrucci, la scrittura e la lotta di classe
Antonio Montefusco
Tra 2017 e 2019 tre corpose raccolte di saggi hanno rimesso in circolo, ordinatamente, altrettanti filoni della scrittura di Armando Petrucci: quella dedicata alla letteratura italiana (Letteratura italiana: una storia attraverso la scrittura, pubblicati presso Carocci), quello che raccoglie dei alcuni rappresentativi scritti di metodologia (Scrittura documentazione memoria, edita dall’Associazione Archivistica Italiana) e infine questi preziosissimi, meno noti e più dispersi, Scritti civili, pubblicati per Viella per le cure di Attilio Bartoli Langeli, Antonio Ciaralli, Marco Palma (2019). Tra il primo e gli ultimi due è intervenuta la morte dello studioso a Pisa il 23 aprile 2018.
Armando «va ricordato», afferma Attilio Bartoli Langeli, lo studioso più impegnato in questo prezioso lavoro di riedizione e di rimessa in circolazione. L’operazione è riuscitissima, anche sulla base di una condivisione di percorsi e progetti comuni: il più significativo fu senz’altro l’impresa di Alfabetismo e cultura scritta, un convegno del 1977, poi un volume omonimo di atti e un gruppo significativo di pubblicazioni legati al seminario permanente sullo stesso tema che si dilungò per quindici anni. Vale la pena cominciare da qui. In quel convegno, un gruppo vasto di studiosi, a partire dal nucleo degli storici ruotanti intorno a Quaderni storici (tra cui figuravano Alberto Caracciolo, Carlo Ginzburg, Giovanni Levi),[1] in qualche maniera assunse il metodo di approccio al fatto grafico della scrittura che Petrucci aveva praticato e sperimentato, e che consisteva, in grosso, in un deciso allargamento del campo di indagine della paleografia che, nel saggio-chiave del 1989 (Storia della scrittura e storia della società), veniva definita «tradizionale»; di questa, oggetto principale rimaneva l’avvicendarsi delle forme grafiche di scrittura, e la forma di svolgimento di queste: in maniera sottilmente polemica, Petrucci ne descriveva l’approdo euristico nella ideale dimensione «del manuale … forzatamente schematica … di una realtà storica ben altrimenti frantumata e complessa.»[2] Per contro, la paleografia «nuova» aspira a delineare, invece, il rapporto tra scrittura e società, secondo due linee precise: la ricostruzione delle molteplici modalità di produzione della scrittura e lo studio della diffusione di questa capacità nei vari strati sociali. Sono due linee non del tutto coincidenti e sovrapponibili, che ponevano problemi differenti e che avrebbero in parte ispirato ricerche non sempre componibili: l’una tendeva a uno studio ampiamento inclusivo (sulla linea dettata dal paleografo francese Jean Mallon) che comprende manifestazioni grafiche librarie e non librarie (dal libro manoscritto alle scritture esposte, dai graffiti alle scritte murali a spray), mentre l’altra mirava ad indagare, in maniera del tutto inedita, l’uso della scrittura da parte degli scriventi non professionali e lo studio dell’alfabetismo a livello sociale per la prima volta non sul piano del leggere, ma su quello, appunto, dello scrivere. Sovrapposizioni ci furono, vitalissime: un esempio mirabolante è l’interesse dell’ultimo Petrucci per la comunicazione via lettera; nell’incomprensione, talvolta, degli specialisti di epistolografia, la sua riflessione sul tema gli permette di unire l’analisi formale (come, concretamente, si scrive una lettera) a quella sociale sulla comunicazione, con un ragionamento sulla comunicazione che si allarga ai bisogni prima dei ceti sociali emergenti (i mercanti medioevali) poi di quelli esclusi (di nuovo, con significativo allargamento ai semianalfabeti).[3] Nel vuoto ripetersi delle pubblicazioni concorsuali, nella distribuzione delle specializzazioni all’interno del consolatorio quadro delle discipline, questa identità della paleografia come disciplina storica a tutto tondo talvolta può sembrare scontata. All’epoca fu né più né meno una rivoluzione epistemologica, dovuta sostanzialmente, forse anche su scala internazionale, ad Armando Petrucci. E non senza resistenze.[4]
Petrucci ha dichiarato a più riprese la sua ispirazione marxiana; allo stesso tempo, però, la sua cultura non è riconducibile a un marxismo scolastico. «Di Marx e Engels ho letto poco e non in maniera sistematica», dichiara nel 2002, e non certo per una postuma posa revisionista. L’attitudine materialista, di materialista integrale direi, non è in discussione fino agli ultimi saggi; la sua scrittura militante continua ben dentro l’intero arco degli anni ’90, e l’autodefinizione di «comunista» è forse quella che più si attaglia alla sua figura quando se ne componga l’attività accademica di paleografo con quella di intellettuale militante.[5] Su questo piano, la raccolta degli Scritti civili è molto di più di un’operazione commemorativa: è uno strumento per addentrarsi in un’esperienza intellettuale che ha dei tratti, allo stesso tempo, di eccezionalità ma anche di avvicinamento a una specifica linea di pensiero italiana (tornerò su questo) ma che soprattutto – è forse la maggiore ragione di questa mia superficiale nota – è interessante se messa a confronto con il desolato panorama intellettuale-universitario dell’oggi. La raccolta di Viella, infatti, riunisce tutti gli articoli pubblicati sul Manifesto dal 1972 al 2000, con l’aggiunta degli altri scritti giornalistici su riviste differenti e internazionali, e una lezione del 1983 che aveva ricevuto una stampa (semi)clandestina legata ai movimenti studenteschi romani, e infine una serie di gustosissime interviste (alcune molto recenti). Ed è forse al comunismo del Manifesto, a quel suo occhiello “quotidiano comunista” che continua a rappresentare un mélange inesausto di ripensamento sia interno sia esterno al movimento operaio nelle varie declinazioni novecentesche, che più si avvicina la posizione intellettuale di Petrucci, che infatti compare per la prima volta sulle sue colonne per annunciare le proprie dimissioni dalla Mediaeval Academy of America. L’anno è il 1972; il giornale è da pochissimo un quotidiano; la motivazione sta nella guerra del Vietnam. Agli occhi di Petrucci gli USA sono «la vivente reincarnazione della Germania nazista.» (Scritti civili, p. 22).
Chi si fermasse agli studî di paleografia (forse è meglio dire: di storia sociale dello scrivere), pure capaci di varcare l’arido specialismo – si pensi solo all’ancora attualissimo Medioevo da leggere[6] -, ne riceverebbe un’immagine decurtata e meno complessa. Per capire come gli scritti “civili” completino, e non solo arricchiscano, quelli scientifici, basta un esempio. Nel saggio evocato poco sopra, redatto nel 1989 e particolarmente significativo sul piano metodologico – mi riferisco a Storia della scrittura e storia della società – Petrucci, nello scorrere la letteratura secondaria incentrata sul rapporto tra strutture socio-economiche e pratiche dello scrivere, si basa, in maniera sorprendente, sulle riflessioni di alcuni linguisti, uno di scuola francese (Marcel Cohen, autore di un ingiustamente dimenticato La grande invention de l’écriture, del 1958) e alcuni di scuola sovietica, in particolare Istrin, ma soprattutto l’ungherese Hajnal, il polacco Gieysztor e il rumeno Jakó: è in
questo contesto, negli anni ’50, che la paleografia si trasforma in uno strumento di fondamentale importanza, nonché in una disciplina storica a parte intera, capace di chiarire il rapporto tra società, scrittura e cultura. Bisogna dire, invero, che nel proseguire dell’argomentazione, i riferimenti sono altri (Carlo Maria Cipolla, Lawrence Stone etc.); ma questa valorizzazione, in corrispondenza con la caduta del muro, della storiografia ‘d’oltrecortina’ è particolarmente significativa e senz’altro spiazzante. Un’avvertenza importante è da fare, tuttavia: Petrucci fa opera di recupero di una storiografia che era tutt’altro che maggioritaria nel contesto sovietico (dove anzi continuava a prosperare una storia della scrittura rigorosamente grafico-formale). Non è una compiaciuta operazione di nicchia, ma apre uno squarcio interessante su lungo momento in cui lo scambio tra le tradizioni storiografiche europee era più ampio e qualitativamente diversificato di quello attuale, che, ammantato dalla vocazione internazionale, sembra sempre di più delineare una omogeneizzazione: basta ricordare la pubblicazione del volume dello storico sovietico Victor Rutenberg sui movimenti popolari del Tre-Quattrocento nel 1971, con l’introduzione di Raoul Manselli – storico lontanissimo dal marxismo.[7]
Ma è anche vero che, se lo guardiamo dalla specola degli Scritti civili, e in particolare della ricchissima batteria di interventi di recensore militante sul Manifesto (concentrata tra anni ’80 e ’90), che il canone di letture e di riferimenti – quasi mai di paleografia stricto sensu, fatta eccezione per un toccante ritratto di Casamassima, che ha qualche squisito elemento di rispecchiamento autobiografico (nella «politica di classe» come nell’immagine del «maestro extraistituzionale», p. 84) – si presenta assai diverso, più moderno, a tratti anticonformista e non privo di contatti fecondi con la Nuova Sinistra più tarda, meno riconducibile al marxismo degli anni ‘50. Un sunto veloce per dare qualche riferimento basandomi sui nomi che ritornano più volte: tra gli italiani, emerge lo storico e antropologo Roberto Zapperi (in particolare con quella sua dimenticata incursione “femminista” in L’uomo incinto del 1979) e soprattutto Giorgio Raimondo Cardona. Il linguista, morto prematuramente, aveva lasciato un’imponente produzione, nella quale uno dei centri di interesse principale è costituito non a caso dalla scrittura, nei suoi rapporti con l’oralità e nella sua esplicitazione nei sistemi alfabetici e non. Cardona ha toccato e aperto campi che ne avvicinano il pensiero alla più rilevante riflessione antropologica, in particolare a Jack Goody: un’apertura antropologica che forse non era pienamente sposata da Petrucci, che però, parallelamente, ne condivideva il progetto (o in parte imprestava e sviluppava da lui) di una storia sociale dei sistemi grafici e il loro rapporto con la lingua come strumento di legittimazione di potere e in parte di repressione e verticalizzazione sociale. Proprio l’assenza di Cardona, tra le note del saggio del 1989, sorprende e infine conforta di una identità e originalità di metodo di Petrucci, che riserva al contrario allo studioso significative incursioni di confronto e curiosità negli articoli ‘militanti’. Più atteso è quello ingaggiato con Roger Chartier, che ha affinato la storia della lettura come oggetto di storia sociale, arrivando poi a riflettere sulle biblioteche, sugli ordinamenti e sul canone, e intaccando, di conseguenza, il ruolo e la figura storica dell’autore. Questo corpo a corpo con Chartier e la scuola delle Annales è sensibile nella produzione accademica, dove però viene “calata” in una prassi di azione culturale diretta: quello che si vuole dire è che la consapevolezza epistemologica, così sensibile e talvolta esorbitante nella storiografia francese, in Petrucci, studioso che era stato anche archivista, bibliotecario e organizzatore di mostre, si rendeva immediatamente pratica. Queste esperienze, tra l’altro, gli permettevano di mettere a valore un sacrosanto carattere della tradizione specialistica italiana, in particolare nella grande linea delle cosiddette scienze ausiliarie e speciali, capaci di fare della condanna idealistica alla subalternità – Croce definì gli archivisti «animaletti innocui e benefici, come i rospi per l’agricoltura» – una grande virtù pragmatica.
Nel quadro di questa riflessione avviene l’avvicinamento sensibile, a più riprese, con il pensiero di Foucault: segno forse di una vicinanza con gli ambienti dei movimenti post ’77, testimoniati tra le altre cose da un dialogo ininterrotto e qualitativamente alto (e segno anche che gli stessi movimenti studenteschi riconoscevano a Petrucci un posizionamento peculiare nel mondo accademico: si veda – io l’ho letto con un rimpianto lancinante – la lezione del 1983 sulle scritte murali, composte per più di metà dalla registrazione del dibattito: pp. 205 e ss.). E appunto, a Foucault Petrucci riconosce l’acutezza del pensiero sull’indebolimento della funzione dell’autore nell’età moderna e contemporanea,[8] tema poi sviluppato dal paleografo nei propri studi sul libro-manoscritto d’autore (forse la linea più battuta dai suoi allievi, assieme a quella delle scritture esposte).[9] Ma è davvero stupefacente, perché quasi un’inattesa istantanea, l’intervento sul mitico viaggio di Foucault negli Usa che intravede con l’acutezza dello spettatore curioso il battesimo della French Theory (pp. 106-108).
A voler per forza completare il quadro dei riferimenti, prendiamo a prestito un tardo elenco di «amici, colleghi e compagni né paleografi né diplomatisti: da Tullio De Mauro e Alfredo Stussi, linguisti, ad Alberto Asor Rosa, italianista; da Aurelio Roncaglia e Roberto Antonelli, filologi romanzi, a Carlo Ginzburg … storico; da Luciano Canfora, storico, filologo greco e anche contemporaneista intrepido, a Sebastiano Timpanaro, filologo classico più formale…» (p. 265); sembra piuttosto evidente, nei compagni, un fissarsi di un gruppo di studiosi romani non lontani da linee di riflessioni marxiane non ortodosse, impegnati in percorsi materialisti di forte impianto novatore se non revisionista, in parte riconducibili a quella che è stata chiamata la “differenza italiana”.[10] Vale la pena chiedersi in che forma si realizzi lo scambio con questo ambiente, di tendenza operaista.
Di nuovo indicherei una forte individualità di impostazione dello studioso: mi pare un tic segnaletico l’uso della categoria del “popolo”, che in Petrucci non ha – nel suo mefitico abbraccio con il populismo – l’accezione negativa che si trova in uno dei libri fondatori di questo pensiero, il sulfureo Scrittori e Popolo di Asor Rosa del 1965. Basta qui ricordare la mostra che fece epoca del 1982: Scrittura e popolo nella Roma barocca (1585-1721), dove invece “popolare” mantiene un significato classista, a indicare i subalterni esclusi dal privilegio della scrittura. Così, nel recensire un volume che a queste stagioni e a questi rinnovamenti deve tanto, e cioè La scrittura dell’italiano di Attilio Bartoli Langeli, Petrucci ne riprende e ne sposa le conclusioni; ne riporto solo ciò che può essere ricondotto alla categoria di cui parliamo: «Quegli
uomini e donne che hanno preso la penna in mano non essendo pienamente capaci di padroneggiarla (in tutti i sensi) hanno, consapevolmente o no, forzato una barriera molto dura, hanno affermato il diritto a scrivere in una società nella quale scrivere era un privilegio.»[11] Vicinanza discors: questa definizione sembra meno quella di Tronti e Asor Rosa, e più quella inglese di people, e anzi più specificamente quella “processuale” di Edward Thompson, storico tra i più raffinati nel cogliere, nella definizione di una classe sociale, anche il contraddittorio crearsi della propria consapevolezza.[12] Bartoli Langeli, e soprattutto Petrucci, lavorano direttamente sul making, sul “farsi” di tale consapevolezza tutto giocato sul fatto grafico, sull’appropriazione di uno strumento – lo scrivere – che anche e più del leggere è stato precluso o centellinato ai subalterni e gli esclusi, che infatti, laddove hanno potuto, lo hanno sfruttato, piegato e talvolta violentemente utilizzato in maniera aggressiva. In questo senso, mi pare, si possa ulteriormente arricchire la invero scarna tavola di riferimenti che lo studioso ha fornito, riferendosi essenzialmente ad Antonio Gramsci come maestro, e alla propria attività sindacale (effettivamente mai abbandonata) come orizzonte: p. 266.
Andrebbe forse aggiunta ulteriormente una caratteristica sfuggente e di difficile definizione, e cioè la sua città, Roma. Nella bellissima intervista a Portelli e Mordenti, Petrucci sottolinea come «a Roma … ci sia un contrasto più forte, più visibile che altrove, tra ceti non acculturati che gravano sulla città dal suo esterno, e un nucleo non popolare, borghese… Ecco, Roma si distingue da altre città italiane perché il contrasto sociale è più forte, perché la società è più ‘spellata’.» (p. 255) La toccante immagine della spellatura sociale fa pensare alla pietas dello studioso che si dedica ai libri di conti di Maddalena pizzicarola di Trastevere a inizio Cinquecento («Scrittura e Civiltà», 1978), un capolavoro di metodo ma anche di humanitas. Ciò che ci permette almeno di accennare a un ulteriore punto caratterizzante, e cioè il fatto che assumere il punto di vista grafico come grimaldello per indagare e spiegare quelle contraddizioni.
Si tratta di una scelta che rappresenta una soglia, una frattura anche rispetto alla linguistica democratica dell’epoca, laddove tentava di liberarsi (invero molto contraddittoriamente) della tradizione normativa monogrammaticale (per esempio, nel Dieci tesi per l’educazione linguistica democratica del 1975). Tullio De Mauro, araldo di una battaglia a tutto campo su questo terreno, ricordava significativamente, per gli 80 anni del collega: «Io ero molto sbilanciato nell’asserire il diritto-dovere della lettura e dello studio. Tu mi criticavi e dicevi: “Tu vuoi che si legga per cambiare la società. Sbagli: bisogna cambiare la società perché si legga.” Negli anni ho poi imparato a darti ragione.»[13] A voler semplificare e al netto delle differenti attitudini anche politiche, è proprio lo spostamento del ragionamento dalla lingua alla scrittura, con il problema dell’(an)alfabetismo, a sua svolta screziato tra lettura e scrittura, che permette a Petrucci di approcciare fenomeni come le scritture esposte e i graffiti in maniera disinvolta, senza moralismi. La scrittura è stata “concessa” a chi ne era escluso, da un punto di vista storico, meno volentieri della lettura, ed è per questo che diventa fondamentale comprenderne i meccanismi di trasmissione e repressione. «La capacità di scrivere… una volta che la si è donata a qualcuno, diviene incontrollabile, almeno entro certi limiti.» (p. 211). Su questa base Petrucci si libera in maniera radicale del peso normativo del giudizio grafico-formale, ed è quindi capace di decifrare la scrittura sui muri all’esterno da parte delle classi subalterne come «una rivendicazione di uso della scrittura da parte di esclusi dalla cultura scritta… una forma di trasgressione verso chi vorrebbe impedirglielo» (ivi). Sono pagine, oltre che approcci di studio, che dovrebbero e potrebbero essere mobilitati con profitto oggi, nel contesto del dibattito sul ‘decoro urbano’. In un recente volumetto, Wolf Bukowski ha mostrato proprio come questa categoria, lanciata in particolare con la diffusione di scritte, sia uno strumento di controllo sociale, appunto lanciato contro i poveri e gli esclusi.[14] Sarebbe stato utile riprendere l’aspra discussione ingaggiata da Petrucci con Italo Calvino, che rimproverava, nel 1980 (!), allo studioso un ideale di città «tutta scritta», dove si depositano segni alfabetici e grafici in una maniera che allo scrittore sembrava aggressiva:[15] una triste anticipazione dell’amore della cultura progressista per il decoro che induceva Calvino a preferire la scrittura pubblicitaria a quella spontanea e dal basso dei graffiti.
Il giudizio non solo era pericoloso – lo possiamo ben dire ex post – ma anche ingeneroso. Nel dialogo con gli studenti nel 1983, lo studioso ricorderà non solo come la pubblicità negli anni ’80 era spesso realizzata da creativi che provenivano dalle file dei movimenti studenteschi, ma mostra anche una posizione netta di distinzione tra la capacità di innovazione grafica dei movimenti del ’68 e invece una certa ‘involuzione’ che comincia nel ’77 e si prolunga nella scrittura rabbiosa degli stadi e dei bagni pubblici in una società sempre più impregnata dal consumismo. Quest’idea gli viene giustamente rimproverata dagli studenti (p. 220), e rappresenta plasticamente sia una discrepanza generazionale tra l’intellettuale formatosi negli anni ’50 (una ennesima comunanza con i fondatori del Manifesto) ma anche un pessimismo di fondo dello studioso, che non ha sempre schivato degli aspetti latamente anti-moderni. La riflessione sul destino del libro e della scrittura, così amaro nel finale della Prima lezione di paleografia, è ribadito negli scritti civili sulla base di un giudizio severissimo sull’informatica. Con una avvertenza, però: accanto all’idea che la tecnologia siano uno degli strumenti di ulteriore affermazione o, addirittura, di inasprimento dello sfruttamento capitalistico, si fa strada la constatazione che il digitale, che possiede e gestisce “privatamente” i font di scrittura, impedisce per la prima volta un diretto intervento sulla creazione e il cambiamento del segno grafico, le cui conseguenze sono ancora, all’oggi, difficili da prevedere. Questo nocciolo ideologico, mettendolo al riparo da una imbelle cultura progressista, gli ha permesso anche di forgiare pagine affilatissime e appassionate sul linguaggio violento delle scritture popolari in epoca moderna (su cui aveva già meditato, non a caso, il Thompson). Anche su questo aspetto varrebbe la pena di soffermarsi, soprattutto se si pensa all’uso di massa dei social network e al problema della diffusione (di classe, possiamo ben dire) dell’hate speech. Mi viene da pensare, in particolare, a quella infelice battuta di Eco, per il quale Facebook avrebbe dato parola agli imbecilli, ma anche ai toni polizieschi rispetto al fenomeno, che rappresenta il sintomo (sarebbe bene non dicmenticarlo) di un accesso sempre più allargato alla parola pubblica da parte di persone fino ad oggi private di questa possibilità
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Il pendolarismo virtuoso tra pessimismo e mancanza di moralismo animano, infine, i saggi forse meno noti di Petrucci, che rendono questi Scritti civili un prezioso reperto che attende solo di essere riattivato. Sono le pagine dedicate all’università, un tema su cui lo studioso riflette con la libertà di chi ha avuto un percorso del tutto anomalo nel mondo accademico (sviluppato tra archivi e biblioteche, prima di approdare nelle università di Salerno, Roma e infine a Pisa) e che, in questo mondo, ha svolto un’attività sindacale significativa: attività, sia detto per inciso, di nuovo anomala rispetto allo scarso investimento che i sindacati hanno fatto nel comparto universitario (più spesso una palla al piede che un fiore all’occhiello). In un lunghissimo e ricchissimo intervento su Fabbrica aperta del 1977, redatto a quattro mani con Marco Palma, Petrucci passa al setaccio critico la proposta di riforma Malfatti, e non manca di denunciare anche le proposte alternative che venivano elaborate nel mondo comunista (con l’apporto, già allora, di Luigi Berlinguer, che sarà poi il ministro che applicherà all’università, su spinta europea, la riforma più radicale, quella del 3 + 2). Petrucci e Palma rilevano come queste ultime proposte mancavano di rispondere alle domande dei movimenti, strozzando l’incompiuta apertura dell’università di massa con domande di efficienza, spesso giocata solo sulla disonesta programmazione degli ingressi. L’università di Petrucci voleva essere un’università davvero democratica, con un’apertura che non si traduceva nella “fregatura” di un sapere impoverito: era l’università delle 150 ore, che chiamava i docenti a un impegno maggiore nell’attività didattica e nella disposizione nei confronti degli studenti. Ha vinto – lo possiamo dire? – l’ipotesi ‘progressista’, semmai accelerata dal linguaggio neoliberale dell’eccellenza e dell’ostilità ai principi di solidarietà della ricerca pubblica.
Petrucci poteva dire, di nuovo in una intervista rilasciata a Francesco Erbani nel 2008, che accettare il posto presso la Scuola Normale di Pisa era stato un errore, forse anche perché gli era sembrato una rinuncia all’impegno che ti impone l’università di massa. Con un’idea precisa, però: «l’università deve essere gestita con un senso di responsabilità paragonabile alla sua enorme funzione sociale. Per intenderci: i miei colleghi non si devono spaventare se entrano in un’aula con un centinaio di studenti seduti e una cinquantina aggrappati alle finestre… Si apprende mentre si insegna, i miei studenti mi hanno insegnato tantissimo.» (p. 281). Oggi che facciamo le corse a costruire percorsi di eccellenza con slogan tutti giocati sull’importanza di diventare leader, che apriamo corsi seminariali in fondazioni semi-private (anche sotto l’ombrello dell’università), quanti sottoscriverebbero queste parole che andrebbero scolpite sulle scale di un ateneo che si voglia pubblico?
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[1] E vale la pena ricordare che proprio quella rivista pubblicò gli atti.
[2] Ristampa nel citato A. Petrucci, Scrittura e documentazione, p. 121.
[3] Da leggere e rileggere Scrivere lettere, Bari-Roma, Laterza, 2008.
[4] Vedi su questo l’aspra contrapposizione tra A. Bartoli Langeli, Ancora su paleografia e storia della scrittura: a proposito di un convegno perugino, in «Scrittura e civiltà», II (1978), e A. Pratesi, Paleografia in crisi, ivi nel numero seguente; Bartoli Langeli parla oggi di quel contributo come di un «articolaccio», facendo riferimento a qualche sua furia innovatrice che mise in imbarazzo lo stesso Petrucci, piuttosto lontano da dichiarazioni di rottura sul piano metodologico: su tutto ciò, vedi la bellissima intervista a Bartoli Langeli a questo link: http://www.rmojs.unina.it/index.php/rm/article/view/5329.
[5] «Mi considero ancora idealmente e politicamente ‘comunista’», negli Scritti civili, p. 268.
[6] Torino, Einaudi, 1992.
[7] Popolo e movimenti popolari nell’Italia del ’300 e ’400, Bologna, Il Mulino, 1971: l’attenzione alla storiografia del dissenso era molto forte in questo periodo.
[8] M. Foucault, Che cos’è un autore? in Id., Scritti letterari, a cura di C. Milanese, Feltrinelli, Milano 1996, pp. 1-21.
[9] E su questo, si vedano soprattutto i saggi della raccolta di Carocci.
[10] E mi riferisco in particolare al volume curato da D. Gentili ed E. Stimilli per Derive Approdi, 2015. v [11] A. Bartoli Langeli, La scrittura dell’italiano, Bologna, Il Mulino, 2000, p. 168.
[12] E.P. Thompson, The Making of the English Working Class, Toronto, Penguin Books, 1991.
[13] Lettere per Armando Petrucci, a c. di L. Miglio, Spoleto, Cisam, 2012, p. 35.
[14] W. Bukowski, La buona educazione degli oppressi, Roma, Alegre, 2019; per uno (scarnissimo) approccio storico, in verità orientato sul problema della scomparsa delle classi sociali, vedi pp. 15-22.
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