Scuola in debito di laicità
I crocifissi occupano inamovibili le pareti delle nostre scuole, la religione cattolica è l’unica insegnata in Italia (da docenti scelti dalle curie), le scuole private (ossia cattoliche) vengono lautamente finanziate con soldi pubblici in barba alla Costituzione. È venuto il momento di pensare a una scuola pubblica seriamente capace di formare cittadini liberi e uguali. Cioè una scuola rigorosamente laica.
di Carla Castellacci
Una scuola laica dovrebbe tenere le religioni (tutte) fuori dai cancelli, fare anche lei «come se Dio non esistesse». È un’indicazione che si direbbe improponibile, nell’Italia di questo inizio di secolo, ma che ha dalla sua parte valide ragioni, e qualche motivo di urgenza.
La dimensione simbolica
Non si tratta di difendere la scuola laica, visto che la scuola italiana, a memoria di essere vivente, laica non lo è propriamente mai stata. Basta entrare in un’aula, e notare la presenza di un inamovibile crocifisso. Finita l’epoca della religione di Stato, questo elemento dell’arredo scolastico (di questo si tratta, secondo la regolamentazione vigente che risale a un regio decreto del 1928) non sembra avere una giustificazione. Non ha nessuna utilità didattica, e non sta neanche a indicare il punto della parete verso il quale rivolgere le proprie preghiere. Come molte manifestazioni del divino, il suo significato è imperscrutabile.
Qualcuno ha provato a domandare in base a quali leggi o regolamenti il crocifisso debba essere presente in aule che possono essere frequentate da alunni di diverse religioni, o non religiosi, considerando che la scuola repubblicana non ha un carattere confessionale e non opera discriminazioni di alcun tipo. Ammesso e non concesso, naturalmente, che si possa applicare un’etichetta confessionale a dei bambini. La questione meritava di essere affrontata con una certa serietà, ai massimi livelli decisionali, una volta per tutte. O, al limite, si poteva decidere che la decisione spettasse ai singoli consigli d’istituto, che probabilmente hanno voce in capitolo su altri elementi dell’arredo.
Nonostante il tentativo di ottenere un pronunciamento dalla Corte costituzionale, la questione è stata decisa dalla giustizia amministrativa. La sentenza del Consiglio di Stato ha concluso che sì, l’esposizione del crocifisso non è un obbligo per l’istituzione scolastica, ma no, nessuno ha il diritto di rimuoverlo dalle aule. Che il crocifisso è un simbolo religioso, ma lo è solo se si trova in un luogo di culto, mentre in un’aula scolastica rimanda a un significato trascendente. Che la laicità è essa stessa fondata su una dimensione trascendente, e, dal momento che non c’è un simbolo per la laicità, che poi altro non è che un «simbolo linguistico», i laici potrebbero benissimo adottare come simbolo il crocifisso e smetterla di creare problemi.
Persino la nostra giustizia, insomma, non sembra voler riconoscere l’evidenza e si arrampica sugli specchi per dimostrare che è tutta una questione di punti di vista. Paradossalmente, mentre il significato minimo che si può dare alla laicità dello Stato si riassume nella massima del «come se Dio non esistesse», a simboleggiare questo significato viene proposta l’immagine del Dio di una particolare religione.
È vero che per lungo tempo la presenza del crocifisso non ha dato particolare fastidio, e continua ad essere vero anche oggi in un gran numero di scuole. Ma è proprio quando una prassi consolidata viene messa in discussione, anche e soprattutto da una minoranza, che una istituzione laica avrebbe il dovere di rivedere i propri presupposti per evitare discriminazioni. Ma così non è. E se non è permesso rimuovere il crocifisso dalla parete, siamo autorizzati a interpretarne liberamente il significato simbolico. Possiamo vederci, allora, il segno di una modesta ma arrogante rivendicazione territoriale, con cui la Chiesa cattolica ci ricorda la sua presenza e ci assicura che continuerà a esserci quando noi ce ne saremo andati. Il simbolo di un privilegio.
La selezione degli insegnanti
Una scuola laica dovrebbe garantire criteri di trasparenza e di non discriminazione nella selezione del personale docente. Bene, nel luglio 2007 è stata completata l’assunzione con contratto a tempo indeterminato di più di tremila insegnanti di religione cattolica. È stata l’ultima tranche – ultima almeno in ordine di tempo – dei quindicimila insegnanti di religione cattolica indicati come obiettivo da Silvio Berlusconi e Letizia Moratti negli anni in cui il precedente esecutivo metteva mano alla riforma della scuola, tra il 2003 e il 2004.
Cambiata maggioranza, è rimasta in vigore la legge del 2003 che definisce lo status giuridico degli insegnanti di religione cattolica. È noioso ripetere questa dizione per esteso, ma non si tratta di generici insegnanti di religione. In Italia l’insegnamento della religione cattolica è facoltativo, almeno sulla carta, mentre quello delle altre religioni proprio non esiste. Le tante discussioni a proposito dell’impiego dell’«ora alternativa», in cui sviluppare per esempio una storia comparativa delle religioni da un punto di vista rigorosamente neutrale, cioè laico, sono finite nel nulla e la facoltatività dell’ora di religione ha prodotto come una alternativa il «buco» nel bel mezzo della giornata scolastica. Sono ancora in vigore inoltre i vantaggi sul piano dell’adeguamento salariale e degli scatti di anzianità di cui godono gli insegnanti di religione cattolica. Agli inizi del 2006 il Senato ha infatti deliberato che il passaggio in ruolo non avrebbe comportato l’adeguamento del trattamento economico dei neoassunti a quello degli altri insegnanti, che si sarebbe tradotto per loro in un peggioramento.
Le assunzioni sono avvenute nel rispetto delle forme, attraverso concorsi per titoli ed esami. Senonché, in base alle norme concordatarie, gli insegnanti di religione cattolica richiedono una selezione particolare: la loro nomina è di competenza della curia vescovile, mentre i concorsi sono una procedura di pertinenza dello Stato per accertare l’idoneità dei candidati. Ma anche questa difficoltà è stata risolta senza imbarazzo. Per presentarsi ai concorsi era infatti necessario possedere il certificato di idoneità rilasciato dalla curia, mentre i colloqui di esame potevano vertere su svariate questioni di cultura generale, ma escludevano tassativamente la materia che sarebbe diventata oggetto dell’insegnamento.
Chissà cosa ne penseranno gli altri insegnanti, e in generale i giovani ai quali non ci si stanca di ripetere che l’era del posto fisso è finita, e che non combineranno nulla di buono se non se lo mettono in testa. I neoassunti in ruolo, da parte loro, potranno stare tranquilli. Se anche il vescovo decidesse di privarli dell’idoneità all’insegnamento (una prerogativa, anche questa, cui lo Stato ha rinunciato), entrerebbero nelle procedure di mobilità interne alla pubblica amministrazione. E magari finirebbero per insegnare una materia più interessante.
Quindicimila assunzioni in tre anni, in base a una legge che alla bisogna consentirà di indire nuovi «concorsi», sono anche un costo per i contribuenti, e come sempre una cifra esatta è difficile da stabilire. Curzio Maltese, su Repubblica del 25 ottobre, rileva che l’ultimo dato ufficiale del ministero è di 650 milioni di euro, ma risale al 2001. Tra aumenti dell’organico e aumenti salariali la stima del gior
nalista si aggira attorno al miliardo di euro. Un miliardo di euro per una materia facoltativa, e considerata inutile persino da autorevoli figure del mondo cattolico.
Inutile anche perché, nei programmi elaborati dalla Cei, l’insegnamento della religione cattolica non è rivolto a far conoscere e ad approfondire i fondamenti della religione cattolica. No. Esso cerca piuttosto di sviluppare un confronto tra la religione cattolica e tutto il resto, talvolta in modo intrigante come quando si parla di «Gesù e la Chiesa nell’arte contemporanea», altre volte in termini vagamente minacciosi («il cristianesimo a confronto con l’ebraismo e le altre religioni»). Un confronto comunque a senso unico.
La centralità della religione cattolica nei programmi di studio
Per la terza classe della scuola media, una delle «abilità» previste dagli obiettivi di apprendimento elaborati dalla Cei è quella di «confrontare spiegazioni religiose e scientifiche del mondo e della vita» – un argomento piuttosto impegnativo ma soprattutto improprio. Che cosa ne sa un insegnante di religione cattolica delle spiegazioni scientifiche del mondo? L’amministrazione scolastica non è in grado di appurarlo perché non è materia di esame ai fini del «concorso». Ma anche di spiegazioni religiose, se vogliamo essere precisi, l’insegnante di religione cattolica potrebbe avere una visione alquanto parziale.
Intanto, negli stessi mesi in cui la Cei elaborava i suoi obiettivi, la commissione ministeriale era al lavoro sui programmi di studio per tutte le altre materie della scuola media, comprese quelle scientifiche. Anche questo lavoro, nello spirito della riforma Moratti, era basato su obiettivi di apprendimento più snelli rispetto ai precedenti programmi ministeriali. Tanto snelli, in effetti, da non contenere più alcun riferimento alla teoria dell’evoluzione di Darwin (1). Eliminare la teoria dell’evoluzione dalle scienze della vita è un po’ come eliminare la teoria atomica dalle scienze fisiche. È un quadro di riferimento fondamentale, che può diventare estremamente complicato quando diviene materia specifica di studio ma che nelle sue linee generali è comprensibile, e facilita a sua volta la comprensione di molti altri fenomeni. Si è trattato di una semplice dimenticanza? Non proprio, tanto che c’è voluta una commissione di nomina ministeriale composta da scienziati ai massimi livelli, premi Nobel, perché Darwin rientrasse nei programmi di studio. E c’è rientrato di malavoglia, solo di nome, attraverso un giro di parole contorto.
Se si confrontano le indicazioni della Cei con i programmi ministeriali, risultano poco comprensibili le giustificazioni offerte all’epoca dal professor Bertagna, che aveva difeso la cancellazione dell’evoluzione perché, come pedagogo, riteneva che i giovani alunni non erano in grado di distinguere tra teorie scientifiche e ideologismi. E per lui l’evoluzionismo era appunto un «ismo». Ma rimane il sospetto che dietro a questo maldestro tentativo di togliere di mezzo una teoria che molti ancora considerano «scomoda» ci sia stata l’intenzione di assecondare una visione di parte. Come quella che vede nella religione cattolica un interlocutore obbligato, di qualsiasi cosa si parli.
Parliamo di soldi
Parlare di scuola privata, in Italia, significa soprattutto parlare di scuola cattolica. A partire dalla legge 62 del 2000, lo Stato italiano ha stabilito le norme per l’accesso delle scuole private al sistema nazionale dell’istruzione. A diventare sistematici, in particolare, sono stati i finanziamenti statali alla scuola privata. Come tutti sanno, però, la Costituzione italiana sancisce all’articolo 33 che «enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato». E per un buon mezzo secolo questo articolo è stato considerato come un esplicito divieto al finanziamento della scuola privata da parte dello Stato. Le cose però sono cambiate. Anche senza modificare la Costituzione, una maggioranza parlamentare bipartisan ha stabilito che quel «senza oneri per lo Stato» si riferiva al solo atto di istituzione di una scuola, senza comprendere gli oneri di gestione o di «adeguamento».
Anche la scuola cattolica però non è più quella di una volta. Storicamente, la posizione dominante nella scuola cattolica italiana era occupata dagli ordini religiosi, e, a prescindere da qualunque giudizio, queste congregazioni non rispondevano direttamente ai centri della gerarchica ecclesiastica presenti sul territorio, le curie vescovili. Ne derivava un certo pluralismo che consentiva a ciascuno di perseguire indipendentemente la propria missione, o i propri affari. D’altra parte, la sopravvivenza di queste scuole dipendeva criticamente da una riserva di lavoro volontario, che si andava esaurendo per effetto della crisi delle vocazioni. Lasciata a se stessa, la scuola cattolica avrebbe potuto morire di consunzione, senza troppo clamore perché in fondo non serviva a nessuno.
Ma la Chiesa ha colto questa crisi come un’opportunità, sia per risvegliare le coscienze dei fedeli che per ridefinire i rapporti di potere al proprio interno. Con la costituzione del Consiglio nazionale della scuola cattolica, che raggruppa associazioni di scuole e genitori, la Cei di Ruini si è attribuita il ruolo di rappresentante unico di questa realtà composita, unico interlocutore nei confronti tanto delle istituzioni che delle comunità locali dei fedeli. Ancor più rilevante è stata la valorizzazione, a partire dal pontificato di Wojtyla, dell’importanza dei movimenti ecclesiali, il «laicato» cattolico. Guardati con sospetto dagli eredi del Concilio Vaticano II e dagli esponenti del cattolicesimo democratico, movimenti come Comunione e liberazione sono diventati una presenza determinante per il successo delle manifestazioni pubbliche della Chiesa. È a loro che la Cei si è affidata in occasioni come il Family Day. Ed è a loro che affida la gestione delle scuole cattoliche, alleggerite dalla crisi e trasformate in fondazioni in grado di attrarre capitali privati.
Ma anche la legge sulla parità scolastica, come già l’articolo 33 della Costituzione, si presta a letture discordanti. In base al dettato della legge il contributo statale alle spese ordinarie di gestione si limita alle scuole dell’infanzia ed elementari. Ma se la si vuole «interpretare», allora non esiste più alcun limite né all’entità né alla destinazione dei trasferimenti ai privati. Ed è a questa interpretazione che si è ispirato il ministro Fioroni quando, con un semplice decreto, ha incluso tra i destinatari dei finanziamenti anche le scuole private medie e superiori.
Questa incertezza normativa rende ancora più difficile calcolare l’ammontare complessivo dei finanziamenti pubblici alla scuola privata (2), soprattutto se nel «pubblico» si includono, come si dovrebbe, i contributi erogati dalle amministrazioni locali. Limitandoci a quanto erogato direttamente dallo Stato, le voci di spesa comprendono gli adeguamenti delle strutture scolastiche private, interventi «a progetto» per il miglioramento dell’offerta formativa, e contributi che concorrono a coprire le ordinarie spese di gestione. Sia lo Stato che le amministrazioni locali possono poi erogare buoni scuola alle famiglie che iscrivono i propri figli alle scuole private. La fioritura dei «diplomifici» del periodo Moratti sta a dimostrare quanto queste erogazioni abbiano a cuore la qualità dell&rsq
uo;istruzione.
Vediamo allora alcune cifre. Nel dossier preparato dall’Agesc (l’Associazione genitori scuole cattoliche), diffuso lo scorso ottobre, è riportato il contributo fornito dallo Stato nel 2001 e nel 2006, anni di alternanza tra governi di centro-sinistra e di centro-destra. Si tratta rispettivamente di 477 e 567 milioni di euro, cifre che non comprendono né i costi a carico della collettività per le esenzioni fiscali a vantaggio delle scuole cattoliche, né i vari contributi indiretti. Per il 2007 la cifra potrebbe essere molto superiore, perché il ministro Fioroni è riuscito a «recuperare» circa 150 milioni che Tremonti aveva tagliato dall’ultima finanziaria del governo di centro-destra. L’annuncio è stato dato al meeting di Comunione e liberazione ed è stato accolto con grande entusiasmo.
I governi dell’ultimo decennio hanno cercato in vari modi di rilassare i criteri per giustificare le elargizioni. Come dire che la scuola privata va finanziata perché c’è, anche se non serve alla collettività. O forse si dovrebbe dire che va finanziata perché è cattolica. Dall’altra parte la scuola pubblica, quella statale, ha conosciuto una riduzione progressiva e programmata delle risorse a sua disposizione. Sono tagli che si misurano anch’essi in centinaia di milioni di euro, con risultati che in alcuni casi si possono confrontare: da una parte un aumento degli alunni per classe, dall’altra la riscossione di contributi statali anche se di allievi per classe ce ne sono solo otto. Insomma, i tagli alla scuola statale determinano o aggravano una situazione di bisogno, questa consente ai privati di ritagliarsi un ruolo pubblico, e i denari che lo Stato ha risparmiato attraverso i tagli passano di mano.
Facendo due conti anche molto approssimativi, si giunge alla conclusione che la massa di risorse che in poco tempo sono passate sotto il controllo della Cei, sottratte alla scuola di Stato, supera addirittura l’entità di ciò che la Cei riceve con l’otto per mille. È un altro ingrediente del successo delle iniziative di massa in difesa della famiglia e della scuola cattolica.
La logica conseguenza di questo processo è stata anticipata dal cardinale Angelo Scola, patriarca di Venezia considerato molto vicino all’attuale pontefice, che ha dichiarato che la scuola statale è superata (parlava ovviamente della scuola statale italiana) (3). Passata l’epoca dell’unificazione linguistica e dell’alfabetizzazione di massa, secondo il Cardinale, la scuola di Stato non serve più. Va data in gestione alla «società civile», naturalmente sostenuta dai soldi dello Stato.
Ma la scuola non è, non può essere, un semplice riflesso della società civile. Una scuola siffatta non farebbe che replicare le disuguaglianze sociali e violerebbe i princìpi di equità, di uguali opportunità di inserimento sociale, che la scuola di Stato italiana ha cercato bene o male di promuovere. Se questo compito di socializzazione è ancora alla nostra portata, nonostante tutte le difficoltà che incontra, è perché la scuola pubblica è scuola di Stato, perché appartiene a tutti i cittadini che hanno il diritto di chiedere conto dei suoi indirizzi e della sua gestione. Tanto peggio per la «società civile», se tutto quel che chiede sono diplomifici e ore di religione.
Quando il rimedio è peggiore del male
Che la scuola italiana sia in crisi è un luogo comune che probabilmente ha molto di vero. Ma di quale crisi si parla? La scarsa mobilità sociale che caratterizza la società italiana si riflette inevitabilmente nelle aspettative di chi va a scuola, e la socializzazione dei giovani al mondo degli adulti rischia di diventare un’educazione alla disillusione. Ma non è di questa crisi che generalmente si discute. Si discute di bullismo, di giovani che hanno modelli sbagliati da cui derivano comportamenti antisociali, di insegnanti che non hanno autorità, di crisi morale. Anche questi sono fenomeni reali, ma in che modo si possono affrontare?
La ministra Moratti, celebrando nel 2004 l’intesa raggiunta con il cardinale Ruini sugli obiettivi di apprendimento per l’insegnamento della religione cattolica, aveva ringraziato la Cei per lo sforzo compiuto nell’elaborazione di una «risposta pedagogica, ispirata all’antropologia cristiana» ai problemi della scuola, «un vero nutrimento per la nostra riforma». Diamo allora un ultimo sguardo a questi obiettivi.
Troviamo tra essi «l’insegnamento cristiano sui rapporti interpersonali, l’affettività e la sessualità». E viene da chiedersi se nella preparazione al «concorso» l’insegnante di religione cattolica avrà avuto modo di conoscere le posizioni della Chiesa cristiana anglicana, o della cristiana valdese, che sulla sessualità hanno posizioni alquanto distanti da quelle del Vaticano. Ma c’è poco da scherzare. Ai giovani si richiede, oggi più di ieri, la capacità di rispettare e di interagire con persone di diversa cultura e orientamento religioso, con la diversità di genere e di orientamento sessuale. E dunque, cosa avrebbero da insegnarci gli insegnanti di nomina vescovile su questi aspetti dell’esperienza umana? Cosa avrebbero da imparare i nostri studenti da una «antropologia cristiana» che definisce l’omosessualità un disordine morale, considera la famiglia coniugale l’unico luogo in cui si può fare sesso senza peccato, e condanna la contraccezione? La risposta, in breve, è «niente».
Una risposta più lunga ci farebbe uscire dall’ambito della scuola, verso le piazze del Family Day, i meeting di Rimini e i luoghi pubblici dove il ministro Fioroni può accompagnarsi a personaggi come Cosimo Mele. Sarebbe illusorio pensare che una lezione di laicità, o di semplice educazione civica, basterebbe a risolvere i problemi della scuola, ma è urgente ricostruire un progetto educativo che abbia per fine la formazione di cittadini liberi e uguali, rispettosi delle differenze, dotati di spirito critico. E per questo ci vuole una scuola laica.
(1) MicroMega si è occupata dell’argomento nel n. 6/2006, che contiene interventi di Telmo Pievani e Giuseppe Bertagna. Mi permetto anche di rimandare al mio articolo «Il male e il rimedio», sul sito jcom.sissa.it/archive/05/02/Jcom0502(2006)C05/Jcom0502(2006)C05_it.pdf
(2) Di questo argomento MicroMega si è già occupata. Si veda E. Carnevali, C. Sciuto, «La Chiesa all’incasso», n. 7/2005.
(3) L’intervista di Aldo Cazzullo è stata pubblicata sul Corriere della Sera, 16-7-2006.
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