Se 245 suicidi vi sembran pochi. I dati dell’Istat e il diritto all’eutanasia

Carlo Troilo

Nel marzo del 2004 mio fratello Michele – 72 anni, scapolo, malato terminale di leucemia – si suicidò gettandosi dal quarto piano della sua casa a Roma, dove era stato rimandato dalla clinica Mandelli perché non più curabile. Michele, benché allo stremo delle forze, aveva chiamato qualche medico amico per chiedere di essere aiutato a morire, ma invano (ancora non c’era – o non era nota – la possibilità di cercare in Svizzera una “morte degna” e d’altronde le sue condizioni non gli avrebbero consentito di affrontare il viaggio).
Decisi allora di rendere nota la sua tragedia e lo feci attraverso una lettera a Corrado Augias, che la pubblicò con molto risalto e con un suo toccante commento. Per giorni “Repubblica” continuò a pubblicare lettere di persone che avevano vissuto la stessa tragedia mia e dei miei familiari (il lutto per il suicidio di una persona cara è un lutto non elaborabile, che ti accompagna per tutta la vita).
Poco dopo, iniziai a collaborare con l’Associazione Luca Coscioni, occupandomi di sanità e disabilità ma soprattutto di scelte di fine vita.

La mia prima idea – da giornalista diligente – fu quella di cercare notizie sui suicidi in Italia. Scoprii facilmente che ogni anno l’ISTAT pubblicava una tabella su questo tema, senza però darle troppa pubblicità. I due dati che più mi colpirono furono questi: in Italia ogni anno (la ricerca ISTAT aveva diversi anni di vita) si suicidavano circa 3.000 persone; per circa 1.000 di loro il movente era la malattia, fisica o psichica.

Colpito da questi dati, che mi apparvero clamorosi, iniziai una vera e propria campagna di stampa per sostenere che l’impossibilità di ricorrere alla eutanasia è una delle cause principali dei mille suicidi di malati: una campagna che fece scalpore, anche perché riuscii a coinvolgere i congiunti di tre “suicidi illustri”: Chiara Rapaccini per Mario Monicelli, Luciana Castellina per Lucio Magri e Francesco e Flaminia Lizzani per il padre Carlo. E grazie a loro riuscimmo fra l’altro ad ottenere che il Presidente Napolitano – rispondendo pubblicamente ad una nostra lettera aperta – sollecitasse con forza il Parlamento a legiferare sul tema del fine vita.
Per questo, quando mi resi conto che l’ISTAT aveva sospeso, a partire dal 2010, la pubblicazione delle tabelle annuali sui suicidi, sospettai che vi fosse stato da parte del governo Berlusconi (o del Vaticano, o di altre entità con forte potere di influenza ed ostili anche al solo dibattito sulla eutanasia) una azione censoria nei confronti dell’ISTAT, ed assieme ai miei amici Castellina, Rapaccini e Lizzani chiamai direttamente in causa con una lettera aperta il Presidente Giorgio Alleva.

Alleva rispose con grande correttezza spiegando che il “movente” dei suicidi, fino ad allora, era stato segnalato da una fonte “giudiziaria”: in concreto gli agenti d polizia che si recavano sul luogo, chiedevano le ragioni dei suicidi a familiari e/o a vicini di casa e le riferivano alla Magistratura. Una fonte, secondo l’ISTAT, che presentava “notevoli criticità dal punto di vista statistico”. Di qui, la decisione di non fornire più il dato del movente, in attesa di poter ricorrere ad una fonte (quella “sanitaria”) più attendibile. Il Presidente Alleva accettò anche, nel dicembre del 2016, di partecipare ad un convegno al Senato in cui annunciò che l’ISTAT era a buon punto nella elaborazione di nuovi criteri di individuazione dei moventi e prese l’impegno di fornire nuovamente i dati relativi in breve tempo.

Alleva – che ha lasciato la presidenza dell’ISTAT nell’agosto del 2018 – ha mantenuto la sua promessa, ma sono cambiati tempi e modi della informazione sui suicidi.
Nel settembre del 2017 l’ISTAT ha infatti presentato uno studio sulle “malattie fisiche e mentali associate al suicido”, relativo al triennio 2011-2013: un periodo in cui i suicidi in Italia sono stati 12.877, quindi 4.292 l’anno. Già nel totale dei suicidi, dunque, una forte differenza rispetto ai circa 3.000 l’anno dei precedenti rilevamenti. I suicidi in cui è stata certificata la presenza di malattie rilevanti sono 737, il 5,7% del totale. Analizzando questi 737 casi, il 61% delle persone suicide avevano una malattia fisica, mentre nel 30% dei casi alla malattia fisica era associata una malattia mentale (principalmente, depressione). Dunque, rispetto alle “vecchie” tabelle, si passa da 1.000 suicidi aventi la malattia come movente a 245.

In conclusione, la scelta di nuovi criteri su questo tema rende più debole la posizione di chi come me (e con me l’Associazione Luca Coscioni) ha sostenuto e sostiene che il divieto di ricorrere alla eutanasia ha fra le sue conseguenze anche quella di indurre dei malati a cercare nel suicidio la loro “uscita di sicurezza”. Personalmente, continuo a ritenere che questi infelici siano più 1.000 che 245. Ma anche se fossero davvero 245, si tratterebbe in ogni caso di un numero spaventoso di tragedie che potrebbero essere in gran parte evitate grazie alla legalizzazione della eutanasia. Un dato ed una riflessione che voglio portare ancora una volta – in una Legislatura in cui sono molti i Parlamentari al loro primo mandato – all’attenzione del mondo politico perché dia seguito alla richiesta (potremmo ben dire: all’ultimatum) della Corte Costituzionale al Parlamento perché legiferi sulla eutanasia entro il 24 settembre del 2019.

E richiamo l’attenzione dei Parlamentari anche sul dato dell’ISTAT (un dato da film dell’orrore) relativo alle “modalità” del suicidio: nel 27,3% dei casi vi è il ricorso alla impiccagione, mentre nel 23% dei casi vi è un “salto da un luogo elevato” (nella terminologia delle vecchie tabelle ISTAT, la “precipitazione”): la “modalità” scelta fra i tanti altri da mio fratello, da Monicelli e da Lizzani.

P.S. A proposito del totale dei suicidi rilevati, sarebbe poco “scientifico” ricordare ciò che ognuno di noi – nel mio caso anche perché nipote di due medici condotti – ha avuto modo di apprendere, anche se non può naturalmente documentarlo: che molti vecchi gravemente malati e sofferenti hanno deciso, in una sera di più acuta angoscia, di ingerire l’intero contenuto del flacone di sonnifero, anziché le 10 o 20 gocce prescritte; e la mattina dopo il medico, da anni amico della famiglia – anche per evitare quel tanto di “riprovazione sociale” che ancora circonda i congiunti di un suicida – ha indicato nel certificato di morte una delle cause naturali che in età avanzata pongono silenziosamente fine all’esistenza, fra cui il genericissimo “arresto cardiaco”. Ma se questa realtà fosse documentabile, il totale dei suicidi avrebbe probabilmente un aumento non irrilevante.

(27 dicembre 2018)





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