Se Gramsci va al museo

Mariasole Garacci

Al Maxxi di Roma, il cileno Alfredo Jaar attacca senza mezzi termini la dittatura mediatica di Berlusconi con un’opera dedicata ad Antonio Gramsci. Libertà di espressione o silenzio dell’arte?

Alfredo Jaar, nato a Santiago del Chile nel 1956, ha compiuto nel suo paese studi di architettura e regia; negli anni ’80, sotto il regime di Pinochet, si è trasferito a New York, dove oggi vive e lavora. Guggenheim Fellow nel 1985 e MacArthur Fellow nel 2000, ha partecipato alla Biennale di Venezia nel 1987 e nel 2007, e può vantare un elenco di mostre individuali in tutto il mondo. Il suo lavoro consiste in istallazioni e performances site-specific integrate con media, prevalentemente video e fotografia, in cui tratta tematiche umanitarie e politiche con approccio apertamente documentaristico e didattico.

Tra i suoi lavori, The Rwanda Project (1994-2000) è la ricostruzione con testi e immagini del feroce massacro di un milione di uomini, donne, bambini avvenuto nel giro di cento giorni di fronte alla connivente ignavia del resto del mondo; il 14 ottobre 2000 The Cloud, la performance organizzata nella Valle del Matador al confine tra Stati Uniti e Messico, ha ricordato il dramma dell’immigrazione clandestina con una nuvola di palloncini bianchi liberati in cielo nel luogo dove migliaia di persone perdono la vita nel tentativo di superare una frontiera difesa con mezzi militari e osceno dispendio di risorse; con il progetto Lament of the Images presentato nel 2002 a Kassel (Documenta 11), Jaar ha inscenato metaforicamente “l’impossibilità di vedere la realtà al di fuori dei media”, enucleando uno dei concetti fondamentali del suo lavoro, il controllo della coscienza civile collettiva da parte dei poteri economici e politici attraverso il dominio sull’immaginario e, tout-court, attraverso la gestione del mezzo di comunicazione e connettivo più efficace, le immagini: una realtà inquietante di cui le vicende dell’Archivio Bettmann e della United Press International, o il contratto di esclusività concluso tra il Pentagono e la Space Imaging Inc. sulle immagini del satellite civile Ikonos, puntato sull’area dell’Afghanistan, sono sufficientemente emblematiche.

Alla base delle tematiche affrontate da Alfredo Jaar, è l’idea di una imperativa responsabilità dell’intellettuale di leggere, appunto, interpretare e diffondere la verità che si dipana talvolta nascostamente tra gli episodi della storia, di creare e attivare coscienza. “Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace…” scriveva Pasolini. L’arte deve essere impegnata, costituire un linguaggio alternativo e indipendente dal sistema di dominio dell’informazione, creare relazioni estetiche come segni che incidano la superficie della comprensione assuefatta del pubblico, costellazioni deflagranti per sabotare il possesso della storia (“il più esaltante dei possessi borghesi”, “lo stato più assoluto”, aggiungerei, per tornare a Pasolini). La riflessione del performer e film-maker cileno sul compito dell’intellettuale nella società e nella dialettica con il potere si nutre chiaramente delle suggestioni (forse un po’ superficiali e confuse) derivanti dalle figure dell’indimenticabile scrittore italiano e di Antonio Gramsci, per i quali egli dichiara incondizionata ammirazione.

Ora, il Maxxi di Roma conta nella sua collezione permanente una toccante istallazione di Alfredo Jaar intitolata Infinite Cell (Milano, 2004), parte di un’opera più vasta dedicata ad uno dei più importanti pensatori e politici del nostro paese, che descrisse il ruolo dell’intellettuale organico. The Gramsci Trilogy, presentata in più riprese in Italia negli anni passati e composta insieme a questo dagli altri due episodi, Le ceneri di Gramsci e Che cento fiori sboccino (Roma, 2005), è concepita, con il prologo e l’epilogo (Searching for Gramsci, 2004, e The Aesthetics of Resistance, 2005) come la narrazione diaristica di uno stato di ricerca, di aspirazione alla libertà intellettuale e morale. La cella che dà il titolo all’opera del Maxxi rappresenta ovviamente la detenzione di Gramsci, ma anche il conflitto dell’intellettuale “pasoliniano” con il potere, il suo stato di prigionia, l’assedio continuo e sottile alla libertà di opinione e parola. Quando, continua Jaar, l’esercizio del pensiero e della cultura viene minacciato, asservito, inibito, il ruolo fondamentale dell’intellettuale nella società decade e si riduce al gioco autoreferenziale di una classe condannata all’isolamento, descritto metaforicamente dagli specchi affrontati che chiudono la cella moltiplicandola all’infinito.

Bene. Ma quale significato ha la presenza di quest’opera nella collezione? Credo che la risposta a questa domanda più che essere semplicemente una questione di museologia metta in rilievo una volta di più il tema del valore sociale e civile dell’arte contemporanea e del suo potere comunicativo, e ciò con uno scopo molto più pragmatico che non discutere filosoficamente questo argomento, ossia applicare un diligente principio metodologico che saggi se il lavoro in questione sia o no efficace, cioè il mezzo estetico corrisponda all’intento, cioè, in una parola, se sia o no un’opera d’arte. La fedeltà del nostro ministro Bondi allo spirito della rivoluzione berlusconiana, la sua fiducia nella forza culturale e civile (entrambi i termini intesi in senso lato) che ne costituisce il fondamento e, ancora, la dedizione con cui la difende, sono note.

Molti ricorderanno le barzellette (perché erano solo battute, vero?) sull’idea di intitolare a Silvio Berlusconi il nuovo museo di arte contemporanea di Roma. Addirittura, si racconta che durante l’ideazione delle collezioni del Maxxi, un esemplare della serie Hammer & Sickle di Andy Warhol proveniente dalla Gnam sia stato escluso per il niet dello stesso Bondi (è ben triste sentire il peso di un’antica colpa quando si ama qualcuno, e per questo dobbiamo rispetto allo zelo dell’ex sindaco di Fivizzano). E però viene accolta nel museo statale un’istallazione parte di un lavoro che identifica Toni Negri con Antonio Gramsci facendone figura dell’intellettuale messo a tacere dal potere e simbolo dell’indipendenza del libero pensiero represso, che argomenta polemicamente sull’attuale situazione politica italiana denunciando un’emergenza democratica legata all’informazione e alla cultura di massa, e che esplicitamente paragona Silvio Berlusconi a Benito Mussolini.

Dunque, nonostante tutto, libertà di espressione? Ma sì, certo, però non si tratta di questo. Il fatto è che Alfredo Jaar ha realizzato un’opera da un punto di vista squisitamente artistico inefficace, ha elaborato una forma insufficiente ad esprimere il proprio contenuto, muta. Anche un linguaggio che potremmo dire legato alla matrice dell’arte concettuale, infatti, non può prescindere dal conservare e trasmettere attraverso l’oggetto la forza dell’intuizione artistica, dell’idea. Il contenuto che Jaar vuole esprimere, indipendentemente dal merito, è narrativo, circostanziato: egli riesce sempre a fare
un interessante reportage e fornire un pregevole contributo documentario e simbolico, ma il suo prodotto è privo del carattere di artisticità.

Così, fuori della sua sequenza originaria, Infinite Cell non porta con sé l’intenzione che avrebbe dovuto sostanziare né la sua vis polemica, ed è questo il motivo per cui può tranquillamente piazzarsi all’interno di una galleria del Maxxi senza disturbare la sensibilità di alcuno. Musealizzata, non è che la suggestiva rievocazione di un personaggio cristallizzato nella storia. Un monumento alla memoria buono per le scuole intitolate al nostro.

MAXXI – Museo nazionale delle arti del XXI secolo
Roma – Via Guido Reni, 4A
Orario: da martedì a domenica 11.00-19.00; giovedì 11.00-22.00
www.fondazionemaxxi.it

Alfredo Jaar (Santiago, Cile, 1956)
Infinite Cell, 2004
installazione, sbarre di acciaio, legno dipinto, specchi.
collezione MAXXI
www.alfredojaar.net

(16 settembre 2010)

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