Se la libertà religiosa prevale sulla libertà di espressione

Emanuela Marmo

Film, canzoni, pubblicità e opere d’arte periodicamente finiscono alla ribalta per contenuti, immagini o dichiarazioni considerate profane. Il problema non riguarda solo la creatività, la satira. Pubblicità, dichiarazioni pubbliche e commenti sui social. La contrapposizione tra libertà di espressione e libertà religiosa è molto più ricorrente.

Chiarito che la libertà religiosa sussiste se i comportamenti o le credenze non violano la dignità della persona e che la libertà di espressione è tale finché non istighi all’odio, a noi interessa esaminare proprio le circostanze più comuni, quando commenti, opinioni, dichiarazioni sulla religione, pur non costituendo discorsi di odio, urtano la sensibilità dei fedeli.

Il rapporto è sbilanciato in partenza perché la religione non è considerata un’idea come un’altra. Si pretende – e si ottiene – che sia oggetto di riguardo speciale, a motivo dello specifico sentimento da cui è sorretta, la fede, reputata fondante l’identità di persone e gruppi.

Con una sentenza della Corte europea del 1994, il sentimento religioso è diventato il termine in relazione al quale una manifestazione di pensiero può essere penalmente sanzionabile: l’istituito culturale Otto Preminger, condannato in base all’articolo 188 del codice penale austriaco per aver proiettato un lungometraggio che raffigurava Gesù come uno sciupafemmine e Maria una poco di buono, fece ricorso alla Corte Europea. Nella sentenza si leggono le premesse che fanno oggi da parametro di riferimento per il tema qui trattato: libertà di espressione e sentimento religioso furono dichiarati valori fondamentali, tra essi non esisterebbe differenza gerarchica nella carta europea; fu richiamato l’articolo 10 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo che tutela anche espressioni provocatorie e scioccanti: una società democratica deve essere pluralista, tollerante e aperta. Tuttavia – ed ecco il punto focale – la Corte concluse che, qualora idee ed opinioni a riguardo di religioni siano espresse in modo da mettere in pericolo lo spirito di tolleranza, allora potrebbe essere legittimo considerarle alla stregua di una violazione dell’altrui libertà.

Il trattamento del sentimento religioso è diventato ancora più problematico da quando culti diversi convivono stabilmente sullo stesso suolo. Lo scopo di scongiurare fenomeni di emarginazione si traduce nel paradossale potenziamento del dato religioso quale discrimine tra cittadini, cosicché proprio l’elemento di cui si vuole disinnescare il potere divisivo diventa cagione di disparità.

Al fine di contestualizzare il nostro ragionamento, citiamo alcuni casi che riguardano l’islamismo.

La prima vicenda giudiziaria in cui limiti alla libertà di espressione sono stati legittimati a tutela del sentimento religioso dei fedeli islamici è del 2005: l’editore turco che aveva pubblicato un libro di Abdullah Rıza Ergüven intitolato Yasak Tümceler (The forbidden phrases), fu condannato per blasfemia «contro Dio, la Religione, il Profeta e il Libro Sacro»: l’asserzione incriminata del libro fu «Maometto non vietava rapporti sessuali con cadaveri e animali». I giudici di Strasburgo dichiararono che «nel contesto delle credenze religiose, potesse essere legittimo adoperarsi per evitare espressioni gratuitamente offensive o profane e pertanto potrebbe risultare necessario punire attacchi gratuiti a oggetti di venerazione religiosa.

Vale la pena analizzare un altro processo, conclusosi circa due anni fa con una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo.

Nel giugno 2012, il tribunale austriaco aveva dichiarato colpevole la signora Elisabeth Sabaditsch-Wolff per aver «denigrato gli insegnamenti religiosi di una religione legalmente riconosciuta». Cosa era successo esattamente?

Allo scopo di fornire informazioni basilari sull’islam, la donna aveva tenuto una serie di conferenze presso il Bildungsinstitut der Freiheitlichen Partei Österreichs, un’accademia politica legata al Partito della libertà (FPÖ), partito di destra. Un giornalista, infiltrato tra i partecipanti dei seminari, ne registrò i contenuti. In uno di questi incontri, relatrice aveva definito Maometto un pedofilo. La registrazione finì sul tavolo della procura di Vienna.

La Corte regionale austriaca aveva rilevato che le affermazioni della ricorrente su Maometto, da ritenersi giudizi di valore non confortati da prove certe, avrebbero potuto convincere l’uditorio che Maometto non fosse meritevole di venerazione, in quanto accusato di una condotta oggi biasimevole, oltre che penalmente perseguibile. Le parole pronunciate dalla signora Sabaditsch-Wolff furono: «Un 56enne e una bambina di 6 anni? […] Come chiamarlo, se non pedofilia?».
 
La donna fece ricorso alla Corte di Appello di Vienna e alla Corte suprema austriaca, sostenendo che le sue affermazioni trovassero riscontro nella maggior parte degli hadith, ovvero le raccolte dei detti e dei fatti della vita di Maometto che costituiscono la Sunna, la seconda fonte della Sharīʿa dopo lo stesso Corano.
Le istanze furono respinte, così la ricorrente fece appello alla Corte europea dei diritti dell’uomo.

Sebbene la Corte non avesse rilevato incitamento all’odio e pur ravvisando nella condanna una restrizione della libertà di espressione, ritenne che lo scopo di tutelare dla pace religiosa e dei sentimenti religiosi degli altri, la rendesse legittima, pertanto convalidò la sanzione per blasfemia. È opportuno sottolineare che di quest’ultima si raccomanda la depenalizzazione nei principali strumenti normativi della Corte. Possiamo verificarlo nella Raccomandazione 1805 promulgata dal Parlamento europeo il 29 giugno 2007 oppure nel documento relativo agli insulti religiosi e all’incitamento all’odio, redatto dalla Commissione di Venezia il 23 ottobre 2008: «non è necessario né desiderabile creare un reato di insulto religioso» e «il reato di blasfemia dovrebbe essere abolito». Ricordiamo anche che l’8 settembre 2015 il Parlamento europeo, nella risoluzione sullo stato dei diritti fondamentali nell’Unione europea, si disse preoccupato che le leggi contro la blasfemia fossero un serio ostacolo alla libertà di espressione.

La mancanza di uniformità di vedute in seno ai membri del Consiglio d’Europa, tuttavia, fa sì che gli strumenti normativi sopracitati forniscano linee guida piuttosto blande e che in materia di libertà d’espressione e libertà religiosa ci siano passaggi ambigui. Ciò detto, ci pare di riscontrare che il vero ago della bilancia della questione sia la pace sociale.

Se ritorniamo all’Austria, allo scenario in cui si svolge la storia presa in esame, possiamo osservare che le autorità competenti avevano evidenziato che lo scopo principale della norma interna fosse la protezione della “pace religiosa”.
È possibile che la Corte europea abbia sostenuto la posizione dell’autorità giurisdizionale nazionale austriaca al fine di arginare le azioni xenofobe, ma le intenzioni non bastano a giustificare una sentenza che di fatto costituisce un precedente per i casi futuri in cui sarà necessario trattare il sentimento religioso nell’urto con un’opinione di segno opposto.

Al seminario della signora Sabaditsch-Wolff avevano partecipato solo una trentina di persone, non erano presenti fedeli di culto musulmano, pertanto non è dato accertare che sarebbe stata negata loro la possibilità di un serio e dignitoso contraddittorio. Stando così le cose, è difficile intravedere una minaccia tale da prendere le precauzioni adottate. Tutto ciò espone la Corte al sospetto di strumentalizzazione politica delle sue decisioni, tanto più che asservire l’equilibrio tra libertà di espressione e rispetto dell’altrui fede, in qualsiasi caso, all’ordine pubblico può indurre ad assegnare le responsabilità di rischio ad una specifica comunità religiosa, determinando intorno ad essa un pericoloso stigma sociale.

La libertà d’espressione riconosce il diritto di manifestare il proprio pensiero senza che modalità espressive colorite o provocatorie costituiscano un illecito. Se giudicassimo ridicole o insensate e, perché no?, sessiste determinate consuetudini o credenze religiose, dobbiamo aspettarci di finire in tribunale perché il nostro pensiero contrasta altrui usi "religiosi"? Questo tutelerà la pace sociale? Ci chiediamo allora come si potrà gestire il confronto tra religioni: ciascuna avrà un proprio senso del sacro che giudicherà contraddetto dall’altro. Sarà tutelato chi si offende di più?

Tra libertà di espressione e libertà religiosa non esiste alcun conflitto: laddove manchi incitamento all’odio, la libertà di espressione non impedisce ai fedeli di praticare il proprio culto né di divulgare le proprie idee, non impedisce ai credenti di controbattere o di esprimere pareri differenti.
La legge deve proteggere la persona a prescindere dalle sue convinzioni. Chiedere alla norma penale di conseguire la pace sociale è un’aspettativa inappropriata.

La Corte europea deve affrontare questioni urgenti.
Posta l’estrema indeterminatezza del concetto di “offesa di una confessione religiosa”, è necessario chiedersi se il sentimento religioso vada tutelato tramite il diritto penale. Qualora ciò fosse ritenuto opportuno, allora occorre interrogarsi sul concetto di tutela del principio di eguaglianza che, come sappiamo, oltre a non fare «distinzione di religione», dovrebbe riconoscere anche il non credente, al quale non è sensato chiedere di comportarsi come se il sacro fosse sacro anche per lui.

(12 febbraio 2020)






MicroMega rimane a disposizione dei titolari di copyright che non fosse riuscita a raggiungere.