Se la sinistra minimizza la vittoria del razzista Trump
Annamaria Rivera
Potrebbe definirsi revisionismo (inteso in senso lato) l’insieme di reazioni e giudizi indulgenti che l’elezione di Donald Trump ha suscitato tra politici non di destra e perfino tra intellettuali di sinistra: in questo secondo caso, col ricorso a paragoni storico-politici alquanto avventati e con l’aspettativa paradossale che a sconfiggere neoliberismo e interventismo guerrafondaio sarà l’aggressivo affarista senza scrupoli, grande evasore fiscale, amico di Putin e di altri simili despoti.
E’ davvero arduo negare che il profilo politico di Trump sia quello di un reazionario nel senso più pieno del termine: un mélange d’ignoranza e disonestà, razzismo e sessismo, ottusità e volgarità, condito con l’inclinazione al complottismo, allo sciovinismo wasp, al suprematismo bianco. Non per caso, il Ku Klux Klan ha annunciato una propria parata per la vittoria, che si svolgerà il prossimo 3 dicembre in North Carolina. Non per caso, tra i primi nominati alla Casa Bianca v’è, nel ruolo-chiave di consigliere strategico, l’uomo d’affari Steve Bannon: razzista, sessista, omofobo, antisemita, anti-musulmano, dichiaratamente suprematista, affiliato ad Alt-Right (Destra Alternativa). Insomma, è come se in Italia un incarico simile fosse stato affidato a qualche esponente di Forza Nuova o di Casa Pound.
Ricordo che, dopo gli attentati di Parigi e San Bernardino, il miliardario newyorkese prestato alla politica invocò la «chiusura totale e completa» delle frontiere statunitensi per le persone di fede musulmana. Più tardi definì i messicani come pusher, criminali e stupratori. Da settembre a oggi, ormai presidente, non fa che insistere sul progetto di blindare ancor più la frontiera con il Messico e di espellere tre milioni di “clandestini”. Quanto al disprezzo per le donne, i gay, i disabili, talmente ampio è il catalogo delle sue dichiarazioni pubbliche oltraggiose che per contenerlo ci vorrebbe qualche tomo. Basta aggiungere, infine, che qualche anno fa arrivò a sostenere che la teoria scientifica del riscaldamento globale è stata inventata «dai cinesi per i cinesi, al fine di contrastare la competitività dell’industria manifatturiera statunitense».
Ciò detto sommariamente, non sorprende affatto che a inebriarsi per la vittoria di “Pannocchia” sia stato Grillo: «Trump ha fatto un VDay pazzesco […]. Ci sono delle quasi similitudini fra questa storia americana e il MoVimento».
E, per quanto ridicola, non stupisce troppo la dichiarazione di Renzi: «Aspettiamo a giudicare. Non diamo un giudizio da Italietta: quel muro c’è da qualcosa come vent’anni, può non piacere ma è così».
Sconcerta, invece, che alcuni intellettuali di sinistra sottovalutino il cupo scenario che va profilandosi dopo la vittoria di un tal ultra-reazionario. Sulla stessa scia di Slavoj Žižek – ormai cantore dello “stile di vita dell’Europa occidentale” e fustigatore delle “anime belle” di sinistra, che praticano tolleranza e solidarietà e osano rivendicare l’apertura delle frontiere – anche alcuni intellettuali italiani si producono in analisi bislacche, pretese come astute e materialiste, in realtà riducibili al seguente sofisma: Trump è stato capace di rappresentare il disagio sociale crescente (cosa indimostrabile, anche perché negli Usa milioni di cittadini sono esclusi dal diritto di voto); le nostre sinistre non ne sono più in grado; ergo, occorre imparare da lui, senza demonizzarlo.
In alcuni casi, il sofisma contiene qualche inciso che minimizza il razzismo e parteggia per un’immigrazione “controllata”. Sostenere che nulla abbia a che vedere col razzismo, ma solo col disagio sociale, il fatto che gente “comune” accenda roghi o innalzi barricate contro gruppi di rifugiati/e, apostrofandoli/e coi più classici insulti razzisti, significa dimenticare che i pogrom nazisti furono, anch’essi, favoriti da condizioni di disagio sociale.
Insomma, provoca sgomento constatare la sottovalutazione dello scenario che si profila dopo la vittoria di Trump: pulizia etnica di massa, normalizzazione del discorso politico incitante all’odio dei “diversi”, semplificazione delle pratiche stragiste delle forze dell’ordine ai danni degli afroamericani, per non dire delle annunciate misure contro la libertà delle donne, a iniziare dalla cancellazione o revisione delle norme sull’interruzione volontaria della gravidanza.
Quanto al piano internazionale, basta citare l’imminente trasferimento dell’ambasciata Usa a Gerusalemme, «capitale d’Israele, una e indivisibile», secondo Trump, e la sua rassicurazione a Netanyahu, nel corso della campagna elettorale, che gli Stati Uniti non metteranno in discussione la legittimità degli insediamenti dei coloni.
Per inciso: dopo la vittoria di Trump, in ogni parte del Paese, su muri e vetrine vanno moltiplicandosi le svastiche e i Sieg Heil. Nel contempo, s’intensificano la caccia ai non-bianchi e, in particolare, le aggressioni ai danni di giovani musulmane, con relativo strappo dell’hijâb (un semplice foulard, ricordo). Sicché del tutto inopportuno è oggi dedicarsi alla vecchia e sommaria condanna dei “veli” indossati da donne musulmane, dei quali si negano i significati molteplici e variabili, talora di tipo reattivo e/o identitario.
Per riprendere il filo del discorso, non è solo negli Stati Uniti che i danni della presidenza Trump si rendono visibili fin da ora. In Europa le destre estreme, già notevolmente in crescita, si sono ancor più ringalluzzite. Dal Front National di Marine Le Pen all’Ukip di Nigel Farage, dalla Lega Nord di Salvini ad Alba Dorata, il partito neonazista greco, è tutto un tripudio: tutt’altro che infondato giacché la vittoria di Trump non può che favorire la già galoppante avanzata dell’internazionale revanscista e razzista.
Di fronte a prospettive così fosche, invece che avventurarsi in spericolate analogie storico-politiche, si farebbe bene a riflettere sulla storia dell’avvento dei fascismi in Europa e a compiere almeno un’iniziativa politica meritoria: manifestare la nostra solidarietà attiva verso il movimento di protesta statunitense contro l’elezione di Trump, che va allargandosi, più o meno duramente represso.
(16 novembre 2016)
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