IoRestoaCasa e leggo un classico: ‘Se questo è un uomo’ di Primo Levi presentato da Liliana Segre
Liliana Segre
Se questo è un uomo è uno dei grandi classici della letteratura italiana e internazionale del Novecento. E deve parlarsi proprio di letteratura in senso nobile, non solo di memorialistica né di mero diario di prigionia.
Scritto da Levi subito dopo il rientro dal Lager, fra la fine del 1945 e il gennaio del 1947, fu pubblicato sul finire di quell’anno da un editore di qualità ma minore, dopo che i maggiori lo avevano inizialmente rifiutato.
È il destino cui spesso incorrono i grandi autori e le grandi opere.
Del resto Levi inizia col dire che il suo lavoro vuole fungere da premessa a «uno studio pacato di alcuni aspetti dell’animo umano». La riflessione morale e psicologica, dunque, va di pari passo col racconto di fatti e personaggi visti e vissuti durante il trasferimento prima e la sopravvivenza poi entro il campo di sterminio di Auschwitz.
E in effetti le riflessioni che aprono il racconto sono di quelle che hanno un immediato valore morale e un significato che va oltre la stessa vicenda della Shoah, per assumere una portata che investe direttamente il nostro presente di uomini e donne del XXI secolo. Mai dimenticare infatti «come il Lager sia stato, anche e notevolmente, una gigantesca esperienza biologica e sociale» (p. 75 1), non dunque qualcosa di terribile ma in sé concluso, che si possa cioè considerare risolto una volta per tutte con la liberazione di Auschwitz a fine gennaio 1945.
Non a caso Levi ricorda che «a molti, individui o popoli, può accadere di ritenere, più o meno consapevolmente, che “ogni straniero è un nemico”» (p. 3). Quando si comincia così però, con certe credenze che penetrano «in fondo agli animi come una infezione latente», bisogna sapere, ammonisce Levi, che «al termine della catena, sta il Lager». In altre parole il nazismo porta «alle sue conseguenze con rigorosa coerenza» un senso comune alienato le cui condizioni si erano create già prima del regime hitleriano, ma che anche in seguito, cioè anche dopo la fine della seconda guerra mondiale, sarebbero rimaste latenti e sempre minacciose.
Una lezione anche per oggi e anzi per sempre.
Indubbiamente il nazismo aveva una sua lucida follia, una sua dottrina del male complessa e a suo modo coerente. Un sistema, filosofico e ideologico, del negativo e della distruzione. Proprio questo fa domandare a Levi: «Di fronte a questo complicato mondo infero, le mie idee sono confuse; sarà proprio necessario elaborare un sistema e praticarlo?» (p. 32). È il problema della memoria, della testimonianza, della storia, della democrazia, di un sistema di valori e di istituzioni da opporre alla sfida sempre incombente del male e della violenza.
Ma c’è anche un altro avvertimento di Levi che parla ancora oggi alle nostre coscienze: le parole sono importanti. Lo sapevano i nazisti che, cancellando il nome delle persone, riducendole a un numero su un braccio, togliendo loro vestiti, scarpe, capelli, cibo, dignità, identità realizzavano «la demolizione di un uomo» (p. 19), ridotto appunto a numero destinato a «morte anonima». Uno Stück come si diceva nei campi, un «pezzo», un «capo» (di bestiame).
Ma sapevano anche, e forse soprattutto i nazisti, che cancellare i nomi implicava rendere indicibile la realtà. Le parole non sarebbero mai più riuscite infatti a star dietro a quel factum brutum che chiamiamo Shoah. Non ci sono parole. E proprio nel senso che si tratta di «cose che non si dicono tra i vivi» (p. 12), le parole del nostro mondo non valgono per l’altro mondo, per il contro-mondo o «antinferno» rappresentato dalla fabbrica della morte. Secondo uno dei tanti ricorsi danteschi presenti nella scrittura di Levi: «Trasumanar significar per verba non si porìa» (Paradiso, I, vv. 70-73). A quale realtà se non a quella dei campi di sterminio si adattano meglio queste parole di Dante? Lì davvero il «trasumanar» si realizzò, cioè si trascese ogni dimensione umana, morale, civile.
Del resto, quando uno stravolto Levi, uno dei primi giorni al campo, domandò: «Warum? Perché?», gli fu brutalmente risposto «Hier ist kein “Warum?”» (p. 20) «Qui non c’è “Perché?”». Né significante né significato, né parola né senso, né domanda né risposta. Questo non-senso è l’Indicibile.
Levi e i sopravvissuti ne furono, da subito, consapevoli: «Se parleremo non ci ascolteranno, e se ci ascoltassero, non ci capirebbero» (p. 19); vedremo più avanti che la testimonianza di Simon Wiesenthal, il celebre «cacciatore di nazisti», ha proprio questo stesso significato, denuncia lo stesso pericolo.
E in effetti il segreto del successo del cosiddetto «negazionismo», che è fatto culturale e politico, antropologico forse ancor prima che storiografico, sta tutto qui. Nell’impossibilità cioè per le parole comuni (e per le persone comuni) di «significare» qualcosa che per sua natura trascende la normalità, una «mala novella» in ogni senso inaudita e incredibile.
In effetti l’ideologia del nazismo, così perfettamente realizzata nel sistema dei campi di sterminio, implica il superamento di quella logica della mediazione, di quell’arte del possibile che la cultura democratica considera invece come il suo fondamento. Se la modernità per sua natura ha cercato di promuovere la civiltà del diritto, il primato della legge, quella che regola i rapporti fra gli esseri umani e rende la convivenza propriamente civile, insomma «quelle leggi che impediscono al misero di essere troppo misero, e al potente di essere troppo potente» (p. 76), ebbene questo è proprio quanto i sistemi totalitari hanno negato in radice e hanno reso impossibile.
Se infatti «una terza via esiste nella vita, dove è anzi la norma; non esiste in campo di concentramento» (p. 77), che conosce solo una logica duale, binaria: Amico/Nemico, Noi/Loro, Dominatori/Untermenschen. La stessa celebre «zona grigia» individuata da Levi nella gerarchia dei campi non è altro che una forma estrema di omologazione della vittima al suo carnefice. Perché in verità con l’Altro non è possibile composizione e convivenza: va annullato, criminalizzato, sterminato.
Se questo è un uomo ci ha insegnato che queste non sono solo ideologie aberranti, ma che nel Novecento si sono realizzate. «Meditate che questo è stato» il monito posto da Levi in epigrafe al libro.
Quando in un passo particolarmente intenso ricorda come recitasse a memoria il passaggio della Divina Commedia «Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza» e quanto non solo lui ma i suoi compagni di sventura ne fossero commossi, nonostante non conoscessero neanche l’italiano, Levi sottolinea proprio che ognuno allora capiva: «Ha ricevuto il messaggio, ha sentito che lo riguarda, che riguarda tutti gli uomini in travaglio» (p. 99). L’alternativa alla «logica» di Auschwitz è innanzitutto e proprio «virtute e conoscenza»; per uomini e donne «in travaglio» nei Lager, ma a ben vedere per ogni essere umano di tutti i tempi e in
ogni parte del mondo.
Di certo l’alternativa deve essere per forza di cose integrale, adeguata, «di sistema» come si diceva sopra, perché il totalitarismo ha distrutto con l’idea di umanità e giustizia l’idea stessa della storia, del possibile progresso in quanto pienamente nelle disponibilità degli esseri umani e della loro libertà.
Il fatto che i morituri nei campi non avessero futuro, che per loro era solo qualcosa di «grigio e inarticolato», porta Levi a scrivere: «Per noi, la storia si era fermata» (p. 102). E ancora: «La memoria è uno strumento curioso: finché sono stato in campo, mi hanno danzato per il capo due versi che ha scritto un mio amico molto tempo fa: … infin che un giorno senso non avrà più dire: domani. Qui è così. Sapete come si dice “mai” nel gergo del campo? “Morgen früh”, domani mattina» (p. 116). La storia si è fermata dunque nel senso che non c’è futuro, non c’è speranza.
Il futuro è «mai».
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Per questo allora la «memoria» è importante. Perché il ricordo non sia più semplice «strumento curioso», aneddotica di cose passate destinata a svanire con il venir meno degli ultimi testimoni, ma punto di partenza di una nuova stagione dell’umanità, della storia, della civiltà, in cui il futuro torni ad avere «senso», torni cioè a essere qualcosa che dipende dall’opera e dalla responsabilità del genere umano.
Levi in un altro suo celebre scritto, I sommersi e i salvati, riprendeva il tema della memoria di Se questo è un uomo, riportando la testimonianza di Simon Wiesenthal. Anch’egli sopravvissuto al Lager, Wiesenthal ricordava che durante la detenzione le SS deridevano le loro vittime dicendo che «quando anche qualche prova dovesse rimanere, e qualcuno di voi sopravvivere, la gente dirà che i fatti che voi raccontate sono troppo mostruosi per essere creduti: dirà che sono esagerazioni della propaganda alleata, e crederà a noi, che negheremo tutto, e non a voi. La storia dei Lager, saremo noi a dettarla».
Ecco, questa è l’estrema lezione di Primo Levi: impedire che la storia la scrivano i «superuomini» sconfitti, i falsari, i criminali.
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