Seicentonovantotto anni senza Dante, duemilaquattrocentodiciotto senza Socrate
Nunzio La Fauci
Gli anniversari delle morti di personalità di spicco sono da sempre occasioni per la produzione di testi zeppi di luoghi comuni, come si sa. Da qualche tempo, il correlato rituale encomiastico italiano si è arricchito di una formula introduttiva, utilissima non soltanto a produrre in serie titoli giornalistici, ma anche a designare manifestazioni culturali. Chi legge queste righe ci ha certamente già fatto caso, se gli è accaduto di avere sotto gli occhi commemorazioni di freschi trapassati. La formula dice ovviamente di quale ricorrenza funebre si tratta: l’annuale, la biennale, la triennale e così via. Mette però un patetico accento sull’assenza del commemorato e lascia intendere che di essa, tra i sopravvissuti, sono stati, per il periodo indicato, e sono ancora vigenti un vivo rammarico e una dolorosa percezione, quasi si trattasse di lutto famigliare. “Due anni senza Umberto Eco” e “Due anni senza Tullio De Mauro” ne sono esempi reali e recenti.
La formula è nata ovviamente come variazione accattivante di “x anni fa moriva il Tal dei Tali…”, modo tradizionale (e referenziale) di dire la medesima cosa. Il suo ignoto coniatore, senza dubbio in perfetta sintonia con lo spirito del tempo, l’ha voluta piaciona e originale, qualità che, come si sa, entrano rapidamente in reciproco conflitto. Il suo successo è stato tale, infatti, che oggi, di essa, tutto si può dire fuor che sia insolita. Non passa settimana che non ci si inciampi. È insomma diventata uno stereotipo, se non un vero e proprio tormentone. A casaccio, mescolando, nei loro diversi gradi, sacro e profano e tutti autentici, tra le decine di esempi: “Sette anni senza Lucio Dalla”, “Venti anni senza Fabrizio De André”, “Venti anni senza Mia Martini”, “Venti anni senza Marcello Mastroianni”, “Venticinque anni senza Federico Fellini”, “Trenta anni senza Primo Levi”.
I cliché parlano della cultura della loro temperie, talvolta più di quanto non lo facciano le singolarità. Morti così ricordate suonano allora come perdite e decadimenti irreparabili, lamentati in modo sentimentale da chi in tal modo vuole fare credere, per allusione, di avere anche solo moralmente condiviso con la persona commemorata l’esperienza di un’epoca: “Oh, quanto ci manca Pinco Pallino!”, “Magari Caio Sempronio fosse ancora qui con noi”.
Se l’ha mai veramente posseduta, lo stereotipo sta tuttavia perdendo via via la sua persino modesta parvenza di contatto con una qualsivoglia congruenza temporale. Al pari d’ogni altro cliché, ha cominciato infatti a comportarsi come un automa sfuggito al controllo: agli esseri umani, il conformismo linguistico fa scherzi del genere, quando, senza riflettere, se ne fanno portatori tutt’altro che sani. Da qualche tempo, l’automa “x anni senza Vattelappesca” si realizza così in modo sempre più meccanico e sbardellato, estendendosi (e non era il caso sul principio) a perdite sempre più stagionate e lontane nel tempo.
Come alcuni tra i già menzionati, ancora modicamente plausibili sono i "Quaranta anni senza Pier Paolo Pasolini" che circolarono nel 2015 o i "Trenta anni senza Leonardo Sciascia" già affacciatisi nell’anno in corso. In effetti, si è ancora in tanti a potere vantare in proposito (ma senza alcun merito) una prospettiva soggettiva, anche se la stagione della cultura italiana che vide protagonisti i due intellettuali è ormai ben più che tramontata: lo testimonia del resto la qualificazione sociale con cui li si è appena caratterizzati e che è la più adeguata a dire chi furono. In ogni caso, solo un artifizio retorico già troppo scoperto può dotare tale prospettiva del simulato rammarico di non avere ancora qui i commemorati. Ambedue sarebbero infatti quasi centenari, se il destino li avesse risparmiati fino a oggi; difficilmente li si avrebbe ancora in uno stato di piena lucidità.
Se chi legge queste righe ha però un po’ di gusto per le espressioni (involontariamente) comiche (la foresta della comunicazione pubblica, soprattutto la culturale, ne pullula), avrà piacere di sapere che frattanto sono fioriti i già rimarchevoli (e certo non unici) “Ottanta anni senza Pirandello”. E, considerando l’aria che tira e dandosi di qui a poco l’occasione, si può a buona ragione sperare che tra breve da un humus tanto fertile vengano fuori, sesquipedali, i “Settecento anni senza Dante”.
(4 marzo 2019)
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