#IoRestoaCasa e guardo un classico: ‘Sentieri selvaggi’ di John Ford presentato da Alberto Crespi
Alberto Crespi
Quando mi chiedono di indicare i miei registi preferiti non ho mai esitazioni: fuori classifica, davanti a tutti gli altri, c’è John Ford. Poi arrivano quei pochissimi registi che secondo me non hanno mai sbagliato un film: Luis Buñuel, Buster Keaton, Dziga Vertov (probabilmente anche Yasujirō Ozu, ma ammetto di non averli visti tutti). Poi i miei amati italiani: Fellini, Rossellini e De Sica, ma loro – tutti e tre – qualche film non perfetto l’hanno fatto… John Ford però è là, in un’altra dimensione. Potrei rivedere i suoi film ogni giorno, a rotazione. Conosco a memoria Ombre rosse, I cavalieri del Nord-Ovest, Un uomo tranquillo, Sfida infernale, Alba di gloria. Di recente ho rivisto il suo ultimo film, Missione in Manciuria, considerato da molti un’opera «teatrale», perché girata tutta in interni, e «senile», e mi è sembrato un capolavoro gigantesco, una cosa per cui molti registi di oggi farebbero follie. Ma il film che vedo, rivedo e continuerò per sempre a rivedere è Sentieri selvaggi. E ogni volta che lo rivedo scopro qualcosa che non avevo visto prima.
Sentieri selvaggi è un western archetipico. Narra una delle storie fondanti del genere, e quindi dell’identità americana. Racconta di una donna rapita dal nemico, quindi – alla fin fine – ri-racconta l’Iliade di Omero. Le trame, diceva Howard Hawks (uno che sta molto vicino a John Ford nell’empireo della Hollywood classica), sono sempre quelle quattro o cinque, la bravura sta nel raccontarle in modo diverso.
Ethan Edwards (interpretato da John Wayne) torna a casa dalla guerra civile (e qui si comincia dove finisce l’Odissea, il ritorno del reduce). Torna dalla famiglia del fratello, Aron (se vi sembrano tutti nomi biblici, avete ragione). Non appena tornato, si viene a sapere che una banda di comanche, una popolazione di nativi americani, imperversa nel territorio. Una squadra di ranger parte a dar loro la caccia. Ma è un’imboscata. I comanche attaccano proprio la fattoria degli Edwards, sterminano tutti e rapiscono due ragazze, Lucy e Debbie. Lucy, che è un’adolescente, viene stuprata e uccisa. Debbie, che è una bambina, viene portata via. Ethan e il figliastro degli Edwards, un trovatello di nome Marty, inseguono i comanche per anni. Hanno vaghe notizie di Debbie e sperano sia viva, ma non la trovano mai. Finché un giorno, grazie all’aiuto di un mercante di cavalli messicano, entrano nel campo della tribù e vedono Debbie, ormai ragazza. È diventata la moglie del capo dei comanche Scar. Ed è lei stessa a dire a Ethan e a Marty di andarsene, perché quella ormai è la sua famiglia, la sua vita. Ethan vorrebbe ucciderla. Marty glielo impedisce. Ethan viene ferito. I due uomini devono tornare a casa, dove a stento li riconoscono. Ma la tribù comanche capita nuovamente nelle loro terre e c’è un’ultima chance di vendicare i morti e di salvare Debbie…
Da sempre – da quando l’ho visto la prima volta – mi è chiaro che c’è una cosa che rende Sentieri selvaggi diverso da molti altri film di Ford, ed è la natura tragica del personaggio di Ethan/Wayne. Ethan è un uomo violento e feroce, incapace di esprimere i propri sentimenti se non attraverso la rabbia e il desiderio di vendetta. È un eroe, incarna tutto ciò che per Ford e per Wayne è l’eroe americano, ma è anche un assassino, un uomo bloccato nel dolore e nell’odio.
Verso la ventesima-trentesima visione ho cominciato a capire che il fascino di Sentieri selvaggi è nascosto in ciò che il film non dice. Il primo quarto d’ora, con il ritorno di Ethan, è un capolavoro di allusioni a cominciare dalla scritta «Texas 1868», che fa capire come l’uomo ritorni a casa tre anni dopo la fine della guerra. Cosa ha combinato in quei tre anni? Mistero. Da qui i riferimenti agli «yankee dollars» (i dollari stampati al Nord, dopo che quelli del Sud erano diventati senza valore) probabilmente frutto di rapine, alla strana divisa di Ethan (da nordista sopra, da sudista sotto), alla sciabola e alle medaglie; e tutti gli struggenti gesti che fanno intuire quanto Ethan sia innamorato di Martha, la cognata, che sicuramente (ma il film non lo dice) era la sua donna ma che, durante la sua assenza, ha sposato suo fratello.
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Verso la cinquantesima visione, infine, ho letto un libro straordinario: L’impero della luna d’estate di S.C. Gwynne. E ho scoperto, grazie a questa accuratissima ricostruzione storica dei rapporti fra comanche e coloni nel Texas dell’Ottocento, che Sentieri selvaggi, oltre che una storia mitica e biblica, è un documentario. Non solo la trama si ispira alle vicende biografiche (assai famose) di Cynthia Ann Parker, donna rapita dai comanche nel 1836, e di suo figlio (meticcio) Quanah Parker, capo indiano e poi, dopo la resa, brillante uomo politico fra i bianchi. Ma tutto il contesto, quello della comancheria, è storicamente accuratissimo e mette in scena uno dei periodi più feroci e sanguinari della storia d’America, in cui nativi e coloni si sono combattuti rivaleggiando in crudeltà che non hanno nulla da invidiare a certe guerre avvenute anche di recente nella nostra civilissima Europa.
Sentieri selvaggi è un film sulla violenza, e sulla tenerezza che a volte si nasconde dietro la violenza. È un film sull’animale-uomo, analizzato in tutta la sua meschinità e in tutta la sua grandezza. È il film che mette John Ford accanto a Omero. Solo che Omero forse non è esistito, John Ford – fortunatamente – sì.
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