Serra, la scuola e il populismo
Nicola Melloni
L’amaca di Michele Serra su bullismo e scuola di classe ha scatenato una ridda di commenti e critiche, e per ottimi motivi. Al suo fianco sono scesi in campo molti giornalisti e qualche intellettuale e lo stesso Serra si è sentito in dovere di scrivere un articolo più lungo per spiegare che il suo attacco non era contro i ragazzini ignoranti degli istituti tecnici ma contro la scuola di classe che non fornisce pari opportunità.
Serra, nella sua replica, e i molti che, in buona fede, lo hanno interpretato e difeso, sostengono che descrivere la situazione di disagio delle classi più povere è cosa di sinistra, sono stati tirati in ballo Don Milani, l’Engels de “La condizione della classe operaia in Inghilterra” e il “Manifesto del Partito Comunista”.
L’articolo in questione, però, non è semplicemente una denuncia dell’immobilità sociale in Italia, di cui la scuola è, senza dubbio, parte in causa. Vi si sostiene che esiste una relazione tra il fenomeno del bullismo e la violenza in generale e il ceto sociale di appartenenza, una tesi basata su zero dati. In effetti un rapporto ISTAT sul bullismo a scuola non trova alcun rapporto di causalità tra tipologia di scuola, classe sociale di appartenenza, e violenza. Scorrendo il rapporto si può leggere: “tra gli studenti delle superiori, i liceali sono in testa (19,4%) [tra coloro che subiscono violenze]; seguono gli studenti degli istituti professionali (18,1%) e quelli degli istituti tecnici (16%)”. Non solo: il fenomeno è più presente nel relativamente sviluppato Nord che non nel Sud Italia, ed in generale è riscontrabile in maniera molto omogenea a prescindere dalla classe sociale di appartenenza. Insomma, le stesse basi della tiritera di Serra sono palesemente false, non l’avesse pubblicata un giornale come Repubblica si tratterebbe di una classica “fake news” travestita da opinione.
Queste premesse, false e tendenziose, sono però fondamentali per il proseguimento del discorso di Serra che, lungi dal fermarsi alla denuncia del disagio delle classi popolari, contrappone il modello virtuoso dei licei della borghesia agli istituti tecnici delle borgate per trarne considerazioni stravaganti sul grado di civismo degli italiani: “il livello di educazione… di rispetto delle regole, è direttamente proporzionale al certo sociale di provenienza”. Davvero? In un’Italia famosa per una borghesia stracciona, aliena alle regole, col primato nel mondo occidentale di evasione fiscale – o le tasse non fanno parte del rispetto delle regole? – si ha il coraggio di sostenere che sono i borghesi, i figli dei ricchi, la pietra di paragone dell’educazione e del civismo? O ci si permette di fare riflessioni amatoriali sulle carceri piene di poveri in un Paese dove i reati dei colletti bianchi non vengono perseguiti?
La morale che ne trae l’autore nella seconda parte del suo articolo è quasi ovvia. I ceti popolari, ignoranti e frustrati, sono la facile preda di un populismo mistificatore. E d’un tratto tutto diventa chiaro: la borghesia ben educata, colta e rispettosa delle regole, da Milano a Roma, vota in maggioranza PD. La teppa aggressiva e maleducata, “impreparata alla vita”, invece, vota male. La plebe ignorante che, con orrore dei benpensanti alla Serra, tiene in ostaggio il paese: avessero studiato, fossero cittadini migliori, voterebbero anche meglio. Magari per quelli che, negli ultimi vent’anni, hanno trasformato la scuola da centro educativo a ufficio di collocamento e “service provider”, dove l’obiettivo non è la costruzione di un buon cittadino, ma di un lavoratore funzionale al sistema economico di sfruttamento – che se protesta (funzione fondamentale del cittadino consapevole) viene punito. Nel silenzio assordante dei tanti Serra nostrani.
(24 aprile 2018)
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