“Sette giorni” nel limbo di Eluana Englaro

Livio Rotondo

, da agenziaradicale.com

"Sette giorni". Questo il nome del documentario, proiettato in anteprima al XI municipio di Roma, che racconta l’ultima settimana di vita di Eluana Englaro e alla cui presentazione, organizzata da MicroMega, hanno partecipato il padre di Eluana, Beppino Englaro, Stefano Rodotà, politico e giornalista, Assuntina Morresi, editorialista del quotidiano Avvenire e Rosaria Elefante, presidente dell’associazione nazionale biogiuristi italiani.

Una ragazza 22enne, tornando da una festa, va a sbattere con la macchina contro un palo della luce. Dall’incidente non si risveglierà più, ma sarà costretta a sostare nel limbo che è lo stato vegetativo permanente per diciassette anni; condannata a rimanere in quella non-zona che lei stessa aveva temuto e rifiutato da quando aveva visitato un amico, pochi mesi prima dell’incidente, che versava nella stessa situazione. La famiglia Englaro, subito dopo la disgrazia, aveva cercato di dare voce al pensiero della figlia, ma si era scontrata con il deserto delle istituzioni, l’arretratezza culturale di un Paese burocrate dove i dettami di una religione servono spesso come prontuario per interpretare le leggi.

Il documentario racconta, attraverso le parole di chi la conosceva, una ragazza vitale e coraggiosa, libera e amante della vita; e un primario di rianimazione dell’ospedale di Lecco, Riccardo Massei, il primo ad assistere la ragazza, come colui che inconsapevolmente incarnò il medico-carnefice incastrato nei vincoli burocratici dal suo stesso dovere d’ufficio; la solitudine di Amato De Monte, l’anestesista che si è assunto la responsabilità di “liberare” Eluana; ma anche la commozione di chi, coinvolto in questa vicenda professionalmente, ha dovuto ripensare le sue personali convinzioni.

E ancora. Le accuse al padre Beppino – boia, assassino – le fiaccolate e le bottigliette d’acqua deposte fuori la clinica ‘La Quiete’ per chiedere di non far soffrire la sete ad Eluana; i tentativi di bloccare una sentenza già scritta da parte di un Capo di Governo che giustificò la scelta, dicendo che la donna poteva ancora mettere al mondo dei figli. A fine proiezione, il dibattito si è focalizzato su come, e se, le istituzione possano rispettare la visione profonda di una singolarità umana.

Morresi ha sentito l’obbligo di sottolineare che, come individui, abbiamo il diritto di lasciarci morire ma non di chiedere allo Stato la morte; in più, ogni certificazione basata sull’obbligo informale è viziata alla base, poiché non esiste nessuna dichiarazione sottoscritta dall’interessato ma è sempre e solo mediata da altri; la giornalista ha sottolineato altresì il clamore mediatico su una vicenda che avrebbe potuto mantenere toni, a suo dire, più sobri.

Beppino Englaro ha raccontato come, nel momento in cui sia stato certificato lo stato vegetativo permanente della figlia, abbia cercato in tutti i modi di sospendere le cure ma non avendo trovato interlocutori tra i medici e nelle istituzioni (spesso Englaro ritorna sul tema dell’infantilizzazione delle persone e delle istituzioni davanti alla morte), si è trovato costretto a seguire un iter legale che avrebbe portato il 9 febbraio del 2009 alla morte di Eluana per sospensione dell’alimentazione dopo 17 anni di calvario, esponendosi conseguentemente al giudizio dell’opinione pubblica.

Beppino è sato molto chiaro nel sottolineare come la medicina attuale non può e non debba sostituirsi alle scelte dei familiari attraverso trattamenti che possono creare condizioni incompatibili con l’esistenza naturale di qualunque essere vivente. Per di più, secondo Rodotà, nella Costituzione italiana non vi è alcuna lacuna; semmai lacunose sono le interpretazioni.

La Costituzione, infatti, attraverso gli articoli 2-13 e 27 riescirebbe a salvaguardare contemporaneamente salute e dignità di una persona: la legge non può in nessun caso ledere il diritto all’autodeterminazione (sottoscrizione Moro-Rossi). Questa inviolabile necessità dovrebbe essere l’anticorpo naturale alle forme di dittatura (esperienza storica del nazismo e fascismo); certo è però che le istituzioni dovrebbero essere molto attente poichè si potrebbero verificare casi di utilizzo scorretto di queste libertà (ad esempio per raccogliere un’eredità).

In conclusione, ribadisco Rodotà, la scelta non dovrebbe essere né dei medici né dei giudici: i primi sono legati al consenso informale per difendersi da eventuali attacchi esterni sul loro operato mentre i magistrati rischiano di cadere nel formalismo sterile e talvolta stolido della legge, non lasciando spazio all’elasticità necessaria in questi casi.

(24 maggio 2012)



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