Sinistra, anno zero (una lunga storia di tradimenti e divisioni)

Matteo Pucciarelli

Dall’abbraccio del blairismo all’abbandono delle politiche sociali, dal renzismo alle esperienze arcobaleno arrivando all’odierno, ovvero all’irriformabilità del Pd e all’irrilevanza di ciò che è più radicale. Un’analisi (spietata) per ricostruire tappe ed errori che ci hanno portato all’oggi, dove non si intravede ancora nel Paese un vero progetto progressista, ambizioso e credibile.

e Giacomo Russo Spena

Vent’anni che hanno cambiato tutto, portando alla dissoluzione una lunga, e a suo modo gloriosa, storia di lotte, conquiste e presenza nei luoghi di lavoro, di socialità, culturali. Vent’anni nei quali la sinistra italiana si è autoesclusa dai giochi della politica, per miopia, scarso coraggio, mancata lettura del presente, politicismo spicciolo e a tratti patetico. Una storia triste, avvilente.

Eppure nei primi anni 2000 l’Italia era considerata un laboratorio politico per il progressismo radicale internazionale, veniva studiata ed ammirata: non è un mistero che leader europei di oggi come Alexis Tsipras, Pablo Iglesias o Ada Colau siano stati a più riprese in Italia per apprendere le sperimentazioni politiche dei No global e del movimento pacifista. Fu l’apice di una sinistra contaminata con le realtà territoriali, una sinistra forte socialmente. E oggi? La sinistra propriamente intesa non sembra più esistere, scomparsa dal dibattito pubblico. Rimangono gli elettori e militanti ipotetici, erranti tra un populismo a rimorchio della Lega e di proprietà di un oscuro manager che ha ereditato il partito azienda dal padre (i 5 Stelle e Davide Casaleggio) e una “sinistra” troppo vicina – se non parte – dell’establishment (Pd). Ci sono nuove liste in vista delle Europee: ma cerchiamo di capire, prima, com’è stata possibile la polverizzazione della sinistra italiana in un così relativamente breve lasso di tempo.

Alla fine del 2011 Silvio Berlusconi è agonizzante tra guai giudiziari, la cacciata del suo vice Gianfranco Fini, le pressioni internazionali e l’esplosione dello spread. Siamo al tramonto del berlusconismo. Il centrosinistra, dopo la repentina caduta del governo Prodi, ha ottenuto nuova linfa dai “sindaci arancioni” Giuliano Pisapia, Massimo Zedda, Marco Doria e Luigi de Magistris: tutti outsider lontani dal Pd ma eletti in coalizione di centrosinistra grazie alle primarie (tranne de Magistris, che invece aveva corso direttamente in solitaria), accomunati da un profilo marcatamente di sinistra e contro ogni pronostico capaci di sconfiggere le destre. C’era stato anche un altro sussulto: la vittoria referendaria su acqua e nucleare, promosso dai comitati ambientalisti e di sinistra, con il Pd che, solo negli ultimi giorni di campagna, si era schierato per i beni comuni e contro il nucleare. I due eventi fanno compattare, a livello nazionale, una coalizione a tre gambe: quella moderata del Pd, una più giustizialista e populista con l’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro e la terza di sinistra radicale, la Sel di Nichi Vendola. L’appena nato M5S, nei sondaggi, è a cifre ancora piuttosto basse, dato fra il 4 e il 6 per cento, considerato un curioso esperimento politico guidato dal comico Beppe Grillo.

Lì, in quel contesto, avviene la scelta suicida del Pd di non recarsi immediatamente al voto per un nuovo esecutivo di cambiamento capace di contrastare l’attacco speculativo con misure espansive e rispolverando teorie keynesiane. Si sceglie l’innamoramento per il famoso loden del tecnico Mario Monti e la sua squadra di professori. Con la regia determinante dell’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, l’uomo che imporrà al Pd le larghe intese in nome della “responsabilità”. Ma il Pd – abbracciando il “montismo” – sarà costretto a votare misure anti-popolari: dalla riforma Fornero sulle pensioni alle politiche di austerità, cioè una generale riduzione della spesa sociale.

Così la coalizione si rompe a metà. Rimangono assieme Pd e Sel con l’aggiunta del piccolo Partito socialista. “Anche col 51 per cento in Parlamento, sono per un dialogo con Scelta Civica” (cioè la nuova lista elettorale capeggiata da Monti, ndr) sono le parole dell’allora segretario Pd Pierluigi Bersani, il quale guiderà una campagna elettorale tanto sobria nei contenuti – convinto che si vinca soltanto inseguendo il centro moderato e non costruendo un’alternativa – quanto perdente. Oggi, ovviamente, Bersani fa mea culpa. Troppo tardi.

Alle elezioni di giugno 2013 riesce a mancare una vittoria già scritta e nessuno forza raccoglierà la maggioranza per governare. Intanto, alle urne, la sinistra radicale scompare – divisa tra la strategia perdente di Sel di spostare a sinistra l’asse del centrosinistra e il tentativo di Rifondazione, Pdci, Verdi e Idv di affidarsi al magistrato Antonio Ingroia col cartello Rivoluzione Civile, il quale non raggiunge neanche il 3 per cento – e Grillo fa il boom ottenendo il 25 per cento. Riempie un vuoto politico. Sono anni in cui i partiti della “sinistra” avevano talmente tradito il proprio mandato di rappresentanza fino a svuotare di ogni significato – per moltissime persone, specie le più giovani – la parola stessa “sinistra”.

In effetti, i politici del Pd (e cespugli) sono percepiti come parte integrante di un sistema che non ha fatto nulla per difendere le ragioni del lavoro e dei ceti medi e popolari. In Italia la sinistra nelle sue varie declinazioni non è stata poi capace di canalizzare la protesta contro l’austerità, che le sarebbe stato naturale interpretare avendo negli anni sbagliato una serie di posizioni e strategie. È considerata responsabile del problema, non alternativa al problema. Così il M5s raccoglie i frutti del malcontento politico e beneficia degli effetti della crisi rappresentandosi come una forza antisistema e antibipolarismo. I proprietari del marchio, i diarchi Casaleggio & Grillo, non hanno peccato di coerenza: dalle prime comparizioni elettorali equiparano – in era di fervore anti berlusconiano – Pd e Pdl, denunciando gli elementi comuni tra i due soggetti. Attaccano la Casta con tutti i suoi costi e i privilegi, la partitocrazia in toto e un sistema di potere clientelare, delle lobby, corrotto e corruttibile. Un catalizzatore per gli scontenti, piegati dalla crisi economica e istituzionale: i voti sono piovuti da destra come da sinistra, come testimoniano alcuni sondaggi. Siccome nessuna forza è autosufficiente per governare, il Napolitano bis incarica Enrico Letta di formare un nuovo esecutivo governo proseguendo sulla strada delle larghe intese e delle politiche del rigore. La crisi economica e sociale nel Paese peggiora. La ripresa resta un’utopia.

Il Pd bersaniano si sgretola a vantaggio dell’uomo della Leopolda: quel Matteo Renzi, il rottamatore, che trionferà vento in poppa alle elezioni Europee di primavera 2014 col Pd che otterrà uno storico 40,8 per cento. Ma Matteo Renzi, fin da subito, sposa la terza via blairiana perorando privatizzazioni, deregulation e smantellamento di diritti del lavoro e welfare, sostituito dalla politica dei “bonus”. È il colpo di grazia per chi invocava politiche progressiste e di redistribuzione delle ricchezze.

A sinistra del Pd alle Europee 2014 si organizza una lista elettorale della sinistra (L’Altra Europa con Tsipras) che prenderà il 4 per cento, un milione di voti, eleggendo tre europarlamentari. Dopo tante sconfitte, essere riusciti a spedire tre rappresentanti a Bruxelles è considerato un successo. L’inizio di un qualcosa? Ovvia
mente no. Subito dopo riemergono i limiti – già visti – della sinistra classica e litigiosa. A qualche settimana dal voto, l’Altra Europa è già un lontano ricordo e gli elettori della sinistra sono vittima di una colossale diaspora e senza più una casa comune né una degna rappresentanza. Colpa della parola data e poi rimangiata di Barbara Spinelli (alzi la mano chi ha avuto mai notizia di una qualche sua battaglia a Bruxelles), che non volle lasciare il posto a Marco Furfaro (oggi cooptato nella direzione del Pd).

Trionfa il renzismo e all’opposizione cresce il M5S. La sinistra inizia ad essere assente dal dibattito pubblico. Col tempo, però, l’illusione rottamatrice di Matteo Renzi, di fronte al perdurare di una generalizzata assenza di prospettive per classi medie e popolari, viene a mancare e le ultime elezioni politiche ne sono una evidente dimostrazione.

Il 4 marzo 2018 conferma il trend europeo: un voto polarizzato secondo il binario establishment/anti-establishment, con la “gente” che ha sostenuto le forze cosiddette populiste, percepite come di rottura o contro l’attuale assetto di potere. Forze di non reale alternativa, ma considerate tali: ha prevalso quella che Antonio Gramsci definiva “rivoluzione passiva”.

Come prevedibile al nord la Lega ha vinto battendo forte sui temi di sicurezza e immigrazione, foraggiando spesso la guerra tra poveri; ma anche riportando in auge temi laburisti, contro ad esempio la delocalizzazione delle aziende. Al sud il M5S ha trionfato come risposta disperata di un meridione vessato da crisi economica, disoccupazione, clientele e voti di scambio; un mezzogiorno vittima e colpevole allo stesso tempo e che non crede più a niente e a nessuno, ma attirato dalle sirene del reddito di cittadinanza proposto dal Movimento.

Seppur in tono minore, l’Italia continua ad essere socialmente viva con vari movimenti territoriali che sviluppano vertenze e battaglie locali: dai No Tav alla difesa dei beni comuni, dai comitati per la Costituzione al variegato mondo dell’associazionismo per i diritti e contro le mafie. Ma a capitalizzare questo fermento sociale sarà il M5S e non la sinistra – oltre ovviamente al vero primo incontrastato partito italiano, cioè quello dell’astensione.

Il Pd rappresenta quella “socialdemocrazia” che, negli ultimi anni, si è fatta fedele esecutrice delle politiche d’austerity e di generale compressione dei diritti richiesti dall’Europa. In nome di un generico “riformismo” si sono sostenuti i grandi piani di privatizzazione, deregolamentazione dei mercati, precarizzazione della vita dei cittadini, riduzione degli spazi alternativi alle logiche di consumo. Ci si è limitati ad amministrare le logiche del presente, senza porre le basi di un sistema economico non alternativo ma perlomeno critico.

E i voti persi dal Pd dove sono andati? Il vecchio leader post-comunista Massimo D’Alema insieme proprio a Bersani era convinto di poter intercettare quegli elettori in fuga dal progetto renziano ma mettendo a capo di Liberi e Uguali la seconda carica dello Stato, il magistrato Pietro Grasso (assieme alla terza, Laura Boldrini). LeU, nonostante una piattaforma programmatica di sinistra laburista, è stata vista come parte di quel cosiddetto “establishment”, un’operazione di ceto politico, finendo per racimolare poco più di un milione di voti. Ovvero la stessa percentuale presa da Sel nel 2013. I voti in fuga dal Pd sono andati al tanto odiato M5S. Si parla di due milioni di consensi al Movimento provenienti dalla sinistra, mentre Swg rivela che il 35 per cento di chi nel 1987 votò Pci oggi sceglie Cinque Stelle. A sinistra di tutto, lo scorso 4 marzo, c’era anche Potere al Popolo: una forza di sinistra radicale, nata in un centro sociale napoletano, che ha ottenuto un misero 1 per cento.

In tutto l’Occidente soffia un vento di destra: nasce l’intesa M5S/Lega e il via all’autoproclamato governo del cambiamento. Di fronte ad un esecutivo populista e xenofobo, che chiude i porti ai migranti, e che governa a colpi di propaganda (e pochi fatti), il Pd sembra totalmente impreparato nel ruolo di opposizione.

Dopo aver spianato la strada alle destre, per mesi ha continuato a far opposizione da destra difendendo provvedimenti invisi come il Job Act o la riforma Fornero. Il 3 marzo è stato incoronato il nuovo segretario Nicola Zingaretti che dovrebbe sancire la fine della parentesi renziana aprendo ad un nuovo centrosinistra, più civico, progressista ed includente rispetto al passato. Intanto il M5S si sta facendo divorare dall’alleato di governo, la Lega, che gli sta drenando consensi. Come scrive il giornalista Alessandro Gilioli: “Il percorso di governo ha visto la Lega dilagare con la sua ideologia xenofoba e razzista e il M5S abbozzare, accettare, poi emulare ed inseguire, insomma farsi complice alla fine dell’egemonia culturale xenofoba, chiusa, incivile, a tratti perfino inumana che ci ha portato oggi al linguaggio derisorio e beffardo verso chi è in balia del mare da settimane dopo aver attraversato il deserto e subito indicibili torture. In termini astratti – ciò senza entrare nel contenuto politico – la conclusione è che quando un partito con un’ideologia incontra un partito senza un’ideologia, quello senza un’ideologia è morto”.

Ad oggi molti elettori di sinistra sarebbero disposti a rimangiarsi il proprio voto ai Cinque Stelle – che nei sondaggi ha già perso diversi punti rispetto alle Politiche dello scorso 4 marzo – nel caso nascesse una proposta coerente, credibile ed ambiziosa. Chi ha provato a costruirla è stato il sindaco di Napoli, Luigi de Magistris. Il Masaniello anti-Sistema – un po’ populista, un po’ municipalista – che senza il sostegno di nessun partito ha vinto due volte le elezioni locali contro centrodestra, centrosinistra e M5S. Intorno alla sua figura ha tentato di far nascere una lista per dare voce ai tanti progressisti senza rappresentanza. Il primo dicembre scorso ha lanciato il progetto autoproclamandosi come l’Anti-Salvini con l’obiettivo di sancire un’opa sul M5S in crisi, soprattutto al Sud. L’idea per le Europee era quella di lanciare un Terzo Spazio, alternativo sia ai nazionalisti xenofobi che ai tecnocrati difensori di Maastricht. Voleva andare oltre la sinistra radicale. Eppure, a parte le parole, si è trovato subito a trattare con la sinistra cosiddetta radicale. Con de Magistris, infatti, in questa lista per le Europee, c’erano anche Sinistra Italiana – la vecchia Sel (ora Sinistra Italiana), rinata dopo l’implosione di LeU, la quale era morta un minuto dopo il voto del 4 marzo scorso – Possibile, Diem25 di Yanis Varoufakis, Rifondazione e vari movimenti ed esperienze civiche. Sembra fatta, già circolavano ipotesi di nome, simbolo e candidature.

All’ultimo momento, si aggrega alla coalizione anche Potere al Popolo, che a Napoli ha un rapporto intenso col sindaco de Magistris. Solo che partono le solite dinamiche della sinistra: con Si e Diem25 che mettono veti su PaP per le sue posizioni euroscettiche e settarie e PaP che, dal canto suo, lancia proclami contro il nuovo ciclo della Cgil di Maurizio Landini. Mesi di trattative segrete e di lucubrazioni mentali: alla fine De Magistris – incapace di esercitare una leadership forte – molla tutto, saluta tutti e rimane a fare sindaco di Napoli. Niente lista, abbiamo scherzato.

A quel punto che fare? Tutto finito? Macché, il teatro dell’assurdo continua fedele alla propria vocazione autodistruttrice. Dopo altre settimane di incontri in segrete stanze di dirigenti senza popolo, si prefissa l’impresa di presentare una sola lista rossoverde a sinistra del Pd zingarettiano: una sinistra Arcobaleno bis, 11 anni dopo. Ma i Verdi, alla fine, si defilavano preferendo una
propria lista ecologista insieme a Possibile. Mentre i sindaci di Federico Pizzarotti – dopo aver rotto con un sms coi Verdi – si rifugiano in una coalizione con + Europa di Emma Bonino e, forse, il movimento paneuropeo Volt.

Nel frattempo, arrivando all’oggi, nasce La Sinistra: la fusione tra Rifondazione, SI e Altra Europa. I sondaggi la quotano intorno al 2/3 per cento. Di certo, non è un’operazione che scalda i cuori degli elettori, ormai esausti di vedere strane alchimie nascere a poche settimane dal voto. Potere al popolo non partecipa, Diem25 nemmeno, De Magistris resta a Napoli a fare il sindaco con una credibilità da leader nazionale forse andata a frantumi per sempre. Con la sinistra radicale ai minimi termini e un M5S in palese crisi, sembra che tutti giochino per Zingaretti, il quale appare ostaggio dei renziani. Le sue prime uscite pubbliche sono state per la Tav in Val Susa e in difesa delle privatizzazioni, oltre a schierarsi contro la patrimoniale proposta da Landini.

Malgrado nel Paese inizino a rivedersi piazze piene (dal movimento femminista a quello ambientalista di Fridays for Future ai tanti comitati territoriali), non si intravede all’orizzonte una rappresentanza degna.

Il prossimo 26 maggio l’elettore progressista – ormai smarrito, affranto e scoraggiato – sarà costretto a votare secondo una logica del “meno peggio”. Chi rimarrà fedele al M5S, malgrado all’alleanza con la Lega, chi si piegherà alle sirene del Pd zingarettiano, chi sceglierà il voto per la sinistra marginale, chi – forse la maggioranza – deciderà di astenersi. Una diaspora. Un disastro da cui si uscirà soltanto dopo anni di lavoro sociale e, soprattutto, culturale nel Paese. Sinistra anno zero, un anno zero lungo venti anni. Nel frattempo l’Italia è sempre più prossima a finire in mano alla peggior destra: il vento xenofobo chiama, Salvini risponde presente.

(6 aprile 2019)






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