Sinistra: lavori in corso

MicroMega

di Pierfranco Pellizzetti
«Un sociologo come Immanuel Wallerstein
ogni tanto riesce ad avere un’intuizione
sagace. Ma i termini in cui inquadrano le
loro gigantesche proposizioni generali di
fatto garantiscono che per gran parte del
tempo ricicleranno banalità»
Tony Judt[1]

«Con Žižek – o magari Antonio Negri –
siamo tra intellettuali famosi soprattutto
per…essere intellettuali. Nel senso in cui
Paris Hilton è famosa per…essere famosa»
Tony Judt bis[2]

Giorgio Cesarale, A Sinistra, Laterza, Roma/Bari 2019
Roberto Mangabeira Unger, Democrazia ad alta energia, Fazi, Roma 2007


Alla ricerca della Verità perduta

«C’è qualcosa di vero quando si afferma che stiamo affrontando le sfide del XXI secolo con le idee del Novecento e gli strumenti dell’Ottocento»[3]. Affermazione del politologo catalano Joan Subirats datata 2019 che ha trovato quasi immediato riscontro nel saggio di Giorgio Cesarale, su cui questo sito ha già ospitato l’8 aprile dello stesso anno: l’inventario del “Sinistrese”, quale pensiero che intende oltrepassare l’irreversibile declino della Sinistra storica; maturato e giunto a compimento nella lunga “bonaccia del mar delle Antille” (copy Italo Calvino), tra il 1971 (fine della convertibilità oro-dollaro: campana a martello per i Trenta Gloriosi del Welfare) e il 1989 (sepoltura del mito comunista sotto le macerie del muro di Berlino).

Tema affrontato analizzando l’elaborazione di 22 testimoni 22, tutti di estrazione accademica e con specializzazione filosofica.

A quanto risulta dalla lettura, una corporazione intenta a cercare risposte nelle gergalità linguistiche aggrovigliate di illusionisti grandi (Hegel) e piccoli (Lacan). Magari retrodatando l’incetta fino all’evo antico del “maestro di color che sanno” Aristotele e alla sua Politica, senza considerare che per quei tempi “politica” era sinonimo di “amministrazione”[4]; accertato che la scoperta della plasticità politicamente manipolabile del sociale è conquista ben più tarda, nel corso delle rivoluzioni borghesi settecentesche.

Sostanzialmente l’esercizio di una coazione a ripetere.

Come si diceva, il pellegrinaggio nei luoghi topici del pensiero otto-novecentesco; in particolare marxiani e marxisti. Con tutto l’armamentario lessicale relativo: coscienza rivoluzionaria in sé, proletariato, comunismo. Postmarxismo. In prima linea il lavoro, inteso «come attività trans-storica che trasforma la natura secondo fini ogni volta determinati e chiave del processo di totalizzazione che permea il capitalismo» (pag. 38-39 GC). Quel lavoro “astratto” che viene presunto ente da investigare ontologicamente, magari come categoria interpretativa, quando nella sua dimensione “materiale” di esistente si traduce nella relazione di scambio tra bisogno-ofelimità-interesse e l’attività operosa mediata monetariamente; oltre che soggetto “politico”, quale agente antagonistico del conflitto distributivo.

Presi in quel loro gioco retroverso, i nostri inseguitori delle ombre intraviste nella caverna che funge da ripostiglio di arredi filosofici dismessi, finiscono per elaborare riflessioni prive di qualsivoglia attinenza con le poste in gioco e i rapporti di forza nel mondo reale. Dunque, inattuali a propria insaputa. E anche quando provano a discendere dall’empireo del pensiero che si avvita su se stesso, non riescono a evitare la ricaduta nella vaghezza. Sempre in evidente imbarazzo abbandonando le rassicuranti astrattezze per provare davvero a comprendere il mondo che li comprende. Che recalcitra a indossare le brache filosofiche che vorrebbero imporgli, da bravi emuli del Don Ferrante manzoniano, che negava l’esistenza della peste in quanto non compatibilizzabile con le categorie aristoteliche (e ogni riferimento al Giorgio Agamben, attuale negazionista del Coronavirus, NON è del tutto casuale).

Quanto evidenziano i due bourdivins (adepti della setta parigina seguace di Pierre Bourdieu) presenti nel panel allestito da Cesarale – Eve Chiapello e Luc Boltanski – nel loro girovagare alla ricerca del “nuovo spirito del capitalismo”.


Abbagli teorici

Eppure il loro mentore Bourdieu li aveva messi in guardia: «il modello teorico non si riveste di tutti i segni da cui abitualmente si riconosce la ‘grande teoria’, primo fra tutti l’assenza di ogni riferimento a qualunque realtà empirica. […] Tutto il mio progetto scientifico infatti si fonda sulla convinzione che non è dato cogliere la logica più profonda del mondo sociale se non immergendosi nella particolarità di una realtà empirica, storicamente situata e datata, ma solo per costruirla come caso particolare del possibile»[5]. Insomma, il reale è relazionale, NON razionale (in quanto pensato).

E allora che fa il duo Boltansky-Chiapello in libera uscita empirica? Ha la bella pensata di usare come test i paradigmi organizzativi dagli anni Sessanta ai Novanta: «ci proponiamo di mettere in evidenza la profonda trasformazione subita dallo spirito del capitalismo nel corso degli ultimi trent’anni […]. Per compiere questo studio abbiamo utilizzato la letteratura di management destinata ai quadri»[6].

Operazione a dir poco opinabile e certamente inquinata, dunque scarsamente neutrale, da quanto un conoscitore non propriamente naif di tale letteratura ha ben presente: il rapporto di committenza che attiva tali operazioni consulenziali d’impresa, in cui l’advisor è ingaggiato per rispondere alle aspettative di chi finanzia la ricerca. Il cui scopo permanente è quello di giustificare/legittimare il comando manageriale, riportandone – attraverso pratiche comunicative mirate – la controparte dalla condizione di variabile indipendente a quella dipendente.

Un’opera pompieristica che – semmai – si rivela interessante nell’evidenziazione delle criticità – modificatesi durante il trentennio – nella gestione coercitiva del fattore-lavoro: dallo sfruttamento all’esclusione[7]. Ossia la scoperta del significato politico e sociale dell’entrata nel post-industriale. La sconfitta storica e la conseguente cancellazione non certo del lavoro in quanto forza produttiva, bensì del movimento operaio come soggetto antagonistico, contrapposto al capitale.

Operazione lungamente predisposta e lucidamente perseguita dalla Destra, magari appropriandosi di materiali argomentativi elaborati da una Sinistra sedicente “nuova” (dalla svalorizzazione del lavoro a vantaggio del consumo all’apologia dell’ozio). E il bello è che, mentre i think tanks reazionari/controriformisti marciavano con gli stivali delle sette leghe per colmare i propri arsenali concettuali e strategici di armi da guerra, i Sinistresi della cattedra pontificavano sul “bisogno di comunismo” (Operaisti vari) o di “deprivatizzare il processo produttivo” (Badiou). Mentre era alle porte nientemeno che il quarantennio NeoLib.

Icastico il caso di Toni Negri, che nello stesso arco temporale in cui maturava la catastrofe da tempo sotto gli occhi di tutti – l’apoteosi plutocratica finanziarizzata – costui continuava a riproporre pervicacemente lo stesso refrain da Candide rossoantico: «il movimento operaio e sindacale si muove, con prudenza ma anche con determinazione, per poter finalmente sedere al comando della riproduzione sociale di capitale» del 1977[8], aggiornato al «solo una profonda riformulazione del programma politico comunista potrebbe assicurare la definitiva affermazione della coestensività del comune alla vita produttiva» (pag. 82, GC).

Parole in libertà o – magari – pensiero desiderante, disarmati nello scenario venuto configurandosi grazie a profonde rotture; e – anche – a tradimenti. Il salto dal modo di produrre industriale all’accumulazione per esproprio (Harvey) tipica di una fase storica in cui il controllo dei flussi materiali e/o virtuali, attraverso il presidio dei gates, soppianta definitivamente la centralità produttiva. Tanto da far dubitare chi scrive dell’opportunità di perseverare nell’utilizzo del termine “capitalismo”; intendendo riferirsi a una ricchezza che acquisisce capacità riproduttive attraverso l’investimento. Ma lo stesso vale per il lemma “comunismo”, non meno della sua versione soft “socialismo”. Intendendo per «comunista ogni convinzione o pratica politica che mira a deprivatizzare il processo produttivo, a estinguere lo Stato e a riunificare il carattere polimorfo del lavoro» (pag. 92, GC). Entrambe istanze riferibili a un’epoca industrialista definitivamente trapassata. Soppiantata dal trionfo della Rendita di posizione.

Non va sottaciuto come in tale sommovimento abbia giocato un ruolo decisivo anche “il salto della quaglia”, non teorico quanto piuttosto opportunistico, di larga parte del funzionariato rampante negli organigrammi del campo progressista. Con le recenti parole di Nancy Fraser: «le forze socialdemocratiche esistenti sono oggi di fatto neoliberiste, e continuano a commettere l’errore di allearsi con le forze neoliberiste contro i ceti popolari e le persone appartenenti alla classe operaia»[9].

L’hanno chiamata “Terza Via”: la migrazione in massa negli accampamenti dei presunti vincitori, cui offrire i propri servizi quale caporalato del consenso.

Un errore, dice la Fraser. O – piuttosto – non sarà il riflesso condizionato di uno storicismo da Seconda Internazionale, incistato nei DNA di un’opaca nomenklatura? Per cui posizionamento obbligato della Sinistra sarebbe quello di fungere da referente politico del soggetto rivoluzionario; militando dalla parte vincente dell’epoca: l’altro ieri veniva giudicata tale la classe operaia, poi soppiantata (in apparenza) dalla finanza globalizzata, nella nuova fase storica. Un gioco di specchi deformanti in cui smarriva l’orientamento (mentre inseguiva il proprio istinto di sopravvivenza) la parte del ceto tradizionalmente collocato a sinistra, diventando indistinguibile dal resto della corporazione dei politici di professione. Con due effetti:

A. Screditare l’idea, insieme al discredito delle biografie di riferimento. Per cui – ad esempio – ora la sindaco anti-sfratti di Barcellona Ada Colau teorizza l’impegno a «fare la sinistra senza nominarla»[10];

B. Silenziare gli interessi/valori di quella parte della società sconfitta nella ristrutturazione del potere, che ora cerca sostegno altrove. Non di rado nelle insorgenze organizzate di antichi nemici; ora percepiti come le uniche voci contestative del dominio globalizzato: il Sovranismo e/o la Xenofobia.

Nel frattempo, il comando plutocratico, grazie alla precarizzazione e al decentramento transnazionale, si è andato liberando del primo contrappeso che – dopo il secondo conflitto mondiale – gli aveva imposto il compromesso welfariano; il secondo fattore di riequilibrio al privilegio evaporerà nel decennio successivo insieme all’orrido (eppure funzionale per i rapporti di forza a vantaggio di una Sinistra lotta e governo) “impero del male” sovietico nel 1989.

Di conseguenza Comunismo/Socialismo e Lavoro organizzato non sono più i fattori su cui ricostruire un soggetto oppositivo alle logiche di governo del mondo. La loro propensione al caos sistemico paventato da Giovanni Arrighi (pag. 16, GC).


L’altrove della Sinistra

Dal punto di vista teorico, la sostituzione della “critica dei rapporti di produzione”, a misura della condizione moderna, con la “critica dei rapporti di dominio”, emersi nel Postmoderno (o Secondo/Terzo Moderno che dir si voglia).

Intanto, la ritrovata consapevolezza del reale stato dell’arte, in cui dovrebbe radicarsi una rinascita di pensiero/azione a Sinistra, la si trova con minore difficoltà ai margini fisici e mentali del sistema-Mondo occidentale, invece che nelle ottiche retroverse di pervicaci chiosatori accademici di testi divenuti classici; lasciti di passate riflessioni sui conflitti del proprio tempo. Riprendendo il postfatore del nostro secondo saggio Gianni Vattimo, «alternative chiuse dentro l’orizzonte del testo, del linguaggio, delle ben protette biblioteche universitarie» (pag. 142, RMU).

L’impegno, svincolato da impicci dottrinari, di guardare in faccia la realtà.

Sicché – ad esempio – il giurista brasiliano Roberto Mangabeira Unger entra senza troppi preamboli direttamente nel merito: «attualmente la sinistra è disorientata per quattro distinte ragioni: manca un’alternativa, un’idea di mondo, un agente e una crisi» (pag. 12, RMU). E già aveva precisato: «il mondo subisce la dittatura della mancanza di alternative. Benché le idee da sole non abbiano il potere di rovesciarla, non siamo in grado di farlo senza il loro contributo» (pag. 3, RMU). La flagrante carenza di pensiero egemonico di un ex notabilato, ormai ridotto a cercare inutilmente di salvarsi l’anima con quella Terza Via che Unger aveva stroncato già trent’anni fa, definendola “una Prima Via con un po’ di zucchero”.

Ne consegue che, alla domanda cosa significa oggi stare “a sinistra”, la risposta è coniugare – mediante sperimentazioni – l’incremento delle capacità umane e la riduzione delle disuguaglianze (pag. 123, RMU). Un tempo visionari dotati di senso pratico dissero: giustizia e libertà. Per cui ora le parole chiave diventano “democrazia” e “politica”. Ossia la strada maestra e il terreno di lotta per una riappropriazione collettiva di quanto in questi anni ci è stato sottratto: il diritto al futuro.

La ripresa del controllo su un Economico che, lasciato a se stesso, rivela pulsioni cannibalesche e suicide; il ripristino di un governo delle questioni collettive attraverso il discorso pubblico, grazie al quale il numero dei molti senza potere può riequilibrare il potere dei pochi possessori delle risorse materiali.

Mangabeira Unger la chiama “democrazia ad alta energia”. Mentre finiscono fuori registro i massimalismi del Comunismo e i suoi esiti totalitari; il minimalismo di una Socialdemocrazia illusa di poter mitigare le derive autoritarie del nuovo ordine classista e demofobo. In questa congiuntura di interregno, quando sta giungendo a compimento una fase storica; senza che si intravveda l’emergere di un possibile riassetto sistemico e si esaurisce il correlato ciclo di accumulazione.

Già due decenni fa Immanuel Wallerstein sentenziava il declino strisciante di un sistema-Mondo a centralità nordamericana[11]. Tesi destinata a essere smentita ben presto (e ancora una volta) dal paradigma tecno-economico in incubazione proprio nei giorni in cui veniva emessa tale sentenza: l’ennesima mutazione nelle strategie di accumulazione della ricchezza sotto forma di “società dell’informazione”; resa possibile dalle tecnologie comunicative e l’ascesa dell’Intelligenza Artificiale. Uno scenario definito “seconda rivoluzione delle macchine”, per il quale mai come ora vale l’antica formula de “le mort saisit le vif”. Le macchine pensanti al servizio di un ristretto nucleo di “signori del silicio” per la decimazione del lavoro umano.

La folle corsa a cancellare la parte mediana della società che rivela tutto l’assurdo insito nell’avidità accaparrativa. Contro cui ormai dà evidenti segni di insofferenza persino Nostra Madre Terra, sotto forma di catastrofi e pandemie.

È da questi aspetti concretissimi che dovrebbe partire la rinascita ex novo di quella cosa che continuiamo a chiamare Sinistra. Come estremo tentativo di coltivare umanità, prima che venga definitivamente schiacciata sotto il peso intollerabile del «monolite composto dalla fusione di capitalismo neoliberista, dittatura degli algoritmi e disastro ecologico»[12].

NOTE
[1] Tony Judt, Novecento, Laterza, Rona/Bari 2012 pag.291

[2] Tony Judt, Lo chalet della memoria, Laterza, Roma/Bari 2011 pag. 108

[3] Joan Subirats, “Weber al tempo del populismo”, MicroMega 1/2019

[4] «Io creo he chi entra in politica con giudizio e una giusta preparazione, riesce a svolgere tutti i suoi compiti serenamente e nella giusta misura», Plutarco, Consigli per i politici, Newton & Compton, Roma 2005 pag. 35

[5] Pierre Bourdieu, Ragioni pratiche, il Mulino, Bologna 1995 pag. 14

[6] Luc Boltansky e Eve Chiapello, Il nuovo spirito del capitalismo, Mimesis, Sesto San Giovanni 2014 pag 111

[7] Ivi pag. 401

[8] Antonio Negri, La forma stato, Feltrinelli, Milano 1977 pag.13

[9] Nancy Fraser, “Il socialismo per il XXI secolo”, MicroMega 6/2019

[10] Giacomo Russo Spena e Steven Forti, Ada Colau la città in comune, Alegre, Roma 2016 pag. 148

[11] Immanuel Wallerstein, Il declino dell’America, Feltrinelli, Milano 2004 pag.253

[12] Miguel Benasayag, “La sinistra muore nel messianesimo”, MicroMega 6/2019
(23 marzo 2020)





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