Sinodo dei vescovi, nihil novi sub sole

Alessandro Esposito

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Alla fine persino il cauto riformismo del professor Mancuso si è rivelato eccessivamente spinto: il dei vescovi cattolici si è concluso con un nulla di fatto. Per meglio dire, checché ne dicano gli inguaribili ottimisti, esso ha sancito l’affermazione dell’orientamento improntato al conservatorismo, minando l’ingenua fiducia di quanti ancora credono nella possibilità di un cambiamento che non avrà luogo. L’adagio è sempre il medesimo: procrastinare. «Verrà il giorno». Ma sembra più una speranza escatologica che una possibilità reale.

Pullulano online i commenti e le analisi di quest’esito, in verità, del tutto scontato: quella che vorrei proporre, dal canto mio, è una breve disamina delle ragioni per cui l’approdo non potesse essere un altro. Ne individuo, fondamentalmente, tre.

In prima istanza, va considerato il fatto che, in seno al cattolicesimo, riveste un ruolo centrale l’elemento del «depositum fidei», ovverosia della tradizione che, come avviene in ogni tradizionalismo che si rispetti, va conservata (per l’esattezza blindata) e mai discussa. Le conclusioni a cui è giunto il sinodo al termine di inevitabili frizioni e fratture interne, non hanno fatto altro che ribadire le posizioni espresse nelle precedenti esternazioni pontificie, la Familiaris consortio, esortazione apostolica post sinodale redatta dal reazionario e sessuofobo Wojtyla (1981), a sua volta ricapitolazione dell’enciclica Humanae vitae (1966) del cauto Paolo VI (non a caso beatificato al termine di questo sinodo) che, redatta in coda al Vaticano II, pose un freno alle moderate aperture profilatesi in seno all’assise conciliare.

Con queste premesse, mi pare evidente, ogni timida speranza di rinnovamento (non dico di rivoluzione) della chiesa e della sua rigida teologia morale è ineluttabilmente destinata a naufragare, come difatti è puntualmente avvenuto anche in quest’ultima occasione.

In seconda battuta, si dimentica con incomprensibile nonchalance come in realtà funzioni la nomina episcopale in seno al cattolicesimo: essa, difatti, è ad assoluta discrezione del sovrano. Considerato l’orientamento etico e teologico degli ultimi due pontefici, i quali hanno provveduto alla nomina della quasi totalità dei vescovi convenuti a quest’ultimo sinodo, mi domando come ci si possa stupire delle deludenti conclusioni a cui si è approdati. Sarebbe come attendersi che i latifondisti varino il testo della riforma agraria.

In terzo luogo, vorrei soffermarmi su quello che considero il nodo nevralgico. I cattolici, liberali o conservatori che siano, auspicano un improbabile «cambiamento dall’alto»: si tratta delle (quasi sempre disattese) speranze di quanti non cessano di essere sudditi nei confronti del monarca e della sua corte. La struttura di dominio delle coscienze non viene intaccata né messa in discussione da quest’atteggiamento incomprensibilmente prono.

L’illuminismo, con le sue conquiste in ordine alla libertà di coscienza, è un fenomeno ancora di là da venire nell’involuto mondo cattolico, tuttora legato ad una struttura di governo e di pensiero pre-moderna. Ancora si attende che i cambiamenti discendano dall’alto, senza inficiare in alcun modo il principio d’autorità. Anche se tali cambiamenti si verificassero, dunque, sarebbero ancora il frutto di quello «stato di minorità» che Kant denunciava due secoli orsono e dal quale il cattolicesimo, tutt’oggi, non riesce ad affrancarsi.

* pastore valdese in Argentina

(20 ottobre 2014)



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