“Slow News”, un altro giornalismo è possibile

Rossella Guadagnini

Crisi dell’editoria, acquisizioni e fusioni di testate, cambi vorticosi di direttori, svolte improvvise nelle linee editoriali. E poi bilanci in rosso, ristrutturazioni aziendali, cassa integrazione, contratti di solidarietà, precariato, redazioni smaterializzate, reddito minimo come punto di arrivo. Sono tante oggi le questioni che affliggono il mondo dei media e dell’informazione: dalle fake news alle risorse pubblicitarie; dall’impero dei social media alle redazioni svuotate e/o in smart working causa coronavirus e altro; dallo stato confusionale del servizio pubblico, in bilico tra politica e informazione, alle brame dei padroni delle tv private.

Tra i tanti mali, l’ultima arrivata è l’infodemia, sindrome da eccesso informativo creata da notizie vere, false, incerte. Altro che good news! Un surplus insostenibile e pervasivo riassunto in un neologismo che – c’è da scommetterlo – entrerà a buon diritto tra le parole nuove dei vocabolari di questo indimenticabile anno 2020. Mercato in crisi da un buon decennio ormai, quello dei giornalisti è divenuto un mondo incognito perfino a loro stessi. Alcuni non riescono a stare al passo con un’informazione sempre più hi-tech, altri sono disposti a scrivere e dire qualsiasi cosa pur di lavorare a volte quasi gratis. Ognuno si arrangia come e dove può. Un arrembaggio, specie per i giovani, non più tutelati da niente e da nessuno in un territorio dove talvolta a vincere è il sistema del caporalato.

E l’informazione in tutto questo? Risente dei continui terremoti e scosse di assestamento conseguenti, com’è inevitabile: a volte le news non esistono proprio, tanto vengono manipolate e gonfiate al punto da diventare qualcosa d’altro: una narrazione, come si direbbe oggi, con un termine tanto suggestivo quanto improprio. Il racconto spetta agli scrittori, ai giornalisti la cronaca, cercando di informare in maniera quanto più precisa e comprensibile possano. Tra le rare eccezioni appare adesso sulla scena contemporanea un modo nuovo di pensare e soprattutto di fare informazione: lo slow journalism.

Secondo la definizione ufficiale di area anglosassone, il giornalismo lento è una sottocultura delle news nata dalla frustrazione per la scarsa qualità del giornalismo cosiddetto mainstream. In realtà, per giornalisti, è qualcosa di più di una sottocultura: “è una risposta alla crisi del giornalismo tradizionale e un recupero del giornalismo come servizio alle persone”. A dirlo è Daniele Nalbone che con Alberto Puliafito ha scritto un libro dedicato al fenomeno, “Slow Journalism”, sottotitolo ‘Chi ha ucciso il giornalismo?’, uscito per Fandango Libri (2019).

Il volume prende avvio dal manifesto (del ’14) dello statunitense Peter Laufer dell’Università dell’Oregon, il quale sostiene: “dobbiamo decidere cosa ci serve davvero, senza l’ossessione degli aggiornamenti continui”. E dall’idea che il giornalismo lento possa opporsi a quello fast, così come lo Slow Food dell’italiano Carlo Petrini ha avuto la forza di opporsi al fast food e al cibo spazzatura: buono, pulito, giusto. Del resto, il giornalismo non è forse cibo per la mente? Un articolo è un prodotto in cui Nalbone e Puliafito riconoscono “un contenuto relazionale, nel senso di recuperare – prima di tutto – le buone pratiche del giornalismo e, quindi, di trovare il modo di adattarle al mondo digitale e innovare l’informazione”.

Da tutto questo è nato un documentario sul giornalismo, Slow News (Italia, 2020, 93’) unico italiano presente in concorso – in prima assoluta – al Thessaloniki Documentary Festival, la cui 22esima edizione si è tenuta stavolta online dal 19 maggio fino al 28 maggio scorso. La manifestazione è tra le più importanti per il cinema documentario e rientra nella lista dell’Academy of Motion Picture Arts and Sciences tra quelli Oscar Qualifying tra i lungometraggi documentari.

Slow News, l’informazione all’epoca delle fake news, della post-verità e dei populismi, è “un filmato militante – sostengono dal Festival di Salonicco – che considera il giornalismo il pilastro chiave della democrazia”. “Un film corale – raccontano gli autori con un cast internazionale di alto livello: oltre a Laufer, ci sono Helen Boaden (ex-direttrice di Bbc News e Bbc Radio), Mark Thompson (presidente e Ceo di The New York Times Company), Frédéric Martel (autore dei bestseller “Sodoma” e “Mainstream”), Julia Cagè (economista, Università Sciences Po di Parigi), Craig Silverman (Media Editor di BuzzFeed News), Lea Korsgaard (direttrice di Zetland), Rob Orchard (direttore di Delayed Gratification), Irene Smit (direttrice di Flow), Giovanni De Mauro (direttore di Internazionale), Jennifer Rauch (autrice di Slow Media), Ermes Maiolica (creatore di bufale in Italia), Arianna Ciccone (fondatrice di Valigia Blu), Rob Wijnberg (fondatore di The Correspondent).

Girato tra l’Europa e gli Stati Uniti, in un viaggio che dalla provincia di Milano arriva nell’Oregon, passando per il Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia, Londra, Copenhagen, le Dolomiti, Amsterdam, Parigi e New York, alla scoperta di vite, sfide e idee. Slow News difende democrazia e libertà: una battaglia che si combatte anche a colpi d’informazione. “La sua realizzazione – spiega il regista- ha richiesto 4 anni di lavoro e inizia la sua vita in questo momento difficile: un altro giornalismo non solo è possibile. ma soprattutto è necessario”. Perché solo un’opinione pubblica bene informata può avere la lucidità e la forza di non cedere ai poteri forti, alla sopraffazione, alla paura.


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Il documentario è prodotto dalla torinese IK, società indipendente, attiva dal 2007 ed è distribuito da Java Films. “Ogni 60 secondi, condividiamo e commentiamo milioni di contenuti su Facebook, guardiamo milioni di video su YouTube, scriviamo miliardi di tweet e messaggi su WhatsApp. Falsi giornali con bufale perfette e veri giornali pieni di false notizie. Le persone credono a tutto e a niente. Il nostro cervello non può neanche comprendere questa mole di informazioni”.

Possiamo cambiare? Da qualche anno, ormai, giornalisti indipendenti di diverse parti del mondo, hanno cominciato a costruire modelli alternativi. Rob Orchard e il suo Delayed Gratification in Inghilterra, Frédéric Martel in Francia, la redazione di De Correspondent in Olanda, Lea Korsgaard e il suo Zetland in Danimarca e molti altri, hanno lo stesso obiettivo: rallentare ed essere liberi. Anche colossi dell’informazione come il New York Times e BuzzFeed cominciano a sperimentare qualcosa di diverso, tornando a mettere al centro del lavoro i lettori. Rallentare, insomma, significa “arrivare preparati alle sfide del futuro, raccontare la complessità, ma anche sviluppare tecniche e procedure per filtrare ciò che è informazione da ciò che non lo è”. Garantire ai cittadini l’accesso a un’informazione sana, indipendente e verificata è il migliore antidoto contro la deriva autoritaria e populista che si sta verificando in alcuni Paesi.
(1 giugno 2020)




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