Smart Working o Gig Economy? Dialogo sul futuro del lavoro tra Pierfranco Pellizzetti e Paolo Costa

Pierfranco Pellizzetti

e Paolo Costa*

«C’è solo una strada percorribile:quella dell’ozio creativo»[1].
Domenico De Masi

«L’ozio snerva le forze dell’intelligenza
e addormenta l’attività umana»[2].
Alexis de Tocqueville

Caro Paolo,

tra antichi gobettiani ci si può capire…


Rimembranze

Ho sempre nutrito una profonda deferenza verso il valore-Lavoro, dal tempo in cui – bambinello – passavo i miei pomeriggi nello stabilimento di mio bisnonno a giocare con i figli del guardiano; fino a quando ebbi modo di scoprire come quelli che ritenevo i miei migliori amici mi assecondassero pur detestandomi in quanto nipote del padrone. E conobbi l’odio di classe ben prima di incontrare Toni Negri.

Eppure il trauma non mi impedì di apprendere fin dalla più tenera età che la fabbrica era uno spazio prezioso di rapporti franchi e onesti, in cui si confliggeva alla luce del sole e – al tempo stesso – si collaborava per realizzare qualcosa al meglio e al minor costo. Imparando a rispettare la controparte della mia classe, riconoscendole fierezza e dignità. La cultura “proletaria” del Lavoro come riscatto, a fronte della virtù borghese dell’operosità.

Negli anni – e sempre in presa diretta – scoprii altri aspetti concreti di quella pratica così centrale nella società otto/novecentesca. Ad esempio la sua funzione di sensemaking: la capacità di fornire senso concreto all’esistenza del lavoratore. Sperimentata (magari in maniera vagamente paradossale) nella torneria dove – trentenne – misuravo me stesso con il ruolo del piccolo imprenditore e constatavo, al rientro dalle settimane di ferie agostane, le espressioni annoiate e deluse stampate sul volto dei miei operai; che in quel lasso di tempo di totale riposo avevano dovuto ricordarsi che la loro moglie era ossessiva, i figli maleducati e – soprattutto – loro non sapevano come impiegare il tempo libero a disposizione. Per cui ritornavano alle attività quotidiane come a una liberazione.

Battute a parte, toccavo con mano la funzione irrinunciabile del Lavoro come grande “determinante sociale”; in grado di fornire, con il ruolo e la sicurezza della propria collocazione nello spazio sociale, il bene prezioso dell’identità. Tutto ciò al tempo della società industriale; che non svanisce – seppure ridimensionato e in coabitazione con altri determinanti – nell’avanzare di quella post-industriale (ammesso che questo ennesimo postismo mantenga una qualche capacità ermeneutica).

Aspetti che sfuggono totalmente ai propugnatori della fine del lavoro; nel nostro caso espressione di una mentalità pre-industriale, tipica di aree geografiche e culturali scarsamente investite da processi di modernizzazione; dove i criteri di apprezzabilità continuano a inseguire il modello baronale del nullafacente latifondista meridionale.

Come l’area campana, da cui proviene l’attuale cantore dell’ozio in quanto liberazione da quelle pratiche lavorative che lì vengono definite icasticamente “a fatica”: il professor Domenico De Masi dell’Università La Sapienza di Roma.

L’equivoco che nasce dalla mancata percezione che parlare di liberazione dal lavoro significa esattamente l’opposto della liberazione del lavoro; l’impegno per l’affermazione dei suoi diritti.

Un equivoco argomentato facendo larghissimo uso del concetto passepartout di “alienazione”; tirando in ballo “l’economia dell’ozio” del genero di Karl Marx Paul Lafargue e il mio amatissimo Bertrand Russell (“elogio dell’ozio”), in temporaneo obnubilamento da contagio blasé al Bloomsbury Group.

Fermo restando il dato abbastanza incontrovertibile che in questa fase storica, in cui la centralità nel paradigma tecno-economico emigra dalla manifattura alla logistica, il profitto diventa taglieggiamento da parte di guardiani dei varchi (dove scorrono i flussi materiali delle merci e quelli virtuali della finanza), il lavoro organizzato è sempre più a rischio estinzione, a vantaggio dei “lavoretti”. La sequenza stilata dai bourdivins (allievi di Pierre Bourdieu) Luc Boltanski e Ève Chiapello: dallo sfruttamento all’emarginazione[3]. Una sequenza in cui è complicato scorgere il segno e l’indirizzo della trasformazione retrostante, mentre l’attuale pandemia in corso accelera processi di cambiamento; che taluno (il solito De Masi) saluta come la tanto attesa liberazione.

Per questo vorrei confrontarmi con te su tre questioni che sembrerebbero prioritarie:

  • Il lavoro come soggetto del conflitto sociale per i diritti;
  • Il lavoro se amputato delle dimensioni relazionali;
  • Il lavoro costretto all’isolamento nella residenza domestica
  • Sul primo punto continuo a riflettere, maturando convinzioni sempre disponibili al confronto; sugli altri due ormai ho ben poche informazioni di prima mano, dal momento che ho smesso di frequentare professionalmente le organizzazioni profit. A differenza tua – Paolo – che continui a operarvi con grande successo. Per cui – in tali ambiti – più che di confronti sono alla ricerca di informazioni.

    Anti-De Masi (il punto “a”)

    «Parlare di economia dell’ozio o di elogio dell’ozio può contribuire al recupero della scienza economica come ‘via occidentale all’arte di oziare’; forse la via a noi più congeniale per conquistare un poco di quell’indolenza orientale che Herman Hesse indicava come presupposto imprescindibile del pensare creativamente»[4]. Così sentenzia De Masi, e intanto il lavoro normato ed a tempo indeterminato scivola nel far west dei lavoretti, della Gig Economy, della precarizzazione.

    Anni fa gli avevo replicato – parafrasando Tocqueville – «che gli oziosi coltivano soltanto il narcisismo della propria impotente inutilità. E l’apologetica della fine del lavoro, gravemente inconsapevole che il suo avvento comporterebbe un puro e semplice disarmo unilaterale, promette ai ‘liberati dal lavoro’ soltanto questo: il proprio suicidio politico»[5]. Cosa volevo dire? Che la naïveté della tesi demasiana trascura bellamente il dato incontrovertibile che l’intera materia occupazione/disoccupazione è immersa in un campo socio-economico dove la fanno da padroni rapporti di forza e poste in gioco.

    L’otto/novecento sono stati “secoli del lavoro” perché il modo di produrre centralizzato e perimetrato dai muri di fabbrica consentiva ai lavoratori di far valere le proprie istanze quale “classe generale” perché posizionati all’interno del sistema produttivo; essendo in grado di bloccarlo attraverso le einaudiane “lotte del lavoro” (o minacciando di farlo).

    Un processo di soggettivizzazione organizzativa che riequilibrava il potere dei pochi con il numero dei molti senza potere, che ha coinciso con le grandi conquiste democratiche del periodo. Ma che erano possibili – appunto – grazie alla capacità di mettere a frutto il vantaggio posizionale dell’essere al centro dei processi riproduttivi del capitale. Al tempo di quel capitalismo industrialista in cui la ricchezza – per dirla marxianamente – imparava “a procreare”; cioè, riprodursi attraverso l’investimento. Ora – come accennato – quel capitalismo (o il Capitalismo tout court: questione oscurata su cui varrebbe la pena di discutere) è al tramonto, soppiantato dalle logiche distributive della centralità consumistica; anticipate da reazionari a propria insaputa alla Guy Debord.

    Per cui «sembra diventato sempre più difficile immaginare forme capaci di incidere sull’organizzazione globale del capitalismo contemporaneo, poiché le esperienze di lotta e mobilitazione appaiono inefficaci nello scalfire le fondamenta di un potere inafferrabile, del quale sfugge l’impianto strategico, nascosto dietro la moltiplicazione di forme particolari, parziali, territoriali. Esso ha il volto pervasivo e sfuggente della logistica»[6], ha scritto un ricercatore dell’Università di Bologna. Che poi aggiunge: «la rivoluzione logistica ha trainato una riorganizzazione del lavoro e della vita il cui obiettivo strategico è sincronizzare le dissonanze del mondo globale al ritmo costante delle catene del valore e della produzione»[7].

    Il punto d’arrivo di quella sconfitta (eclisse?) del lavoro, perseguita per tutta la seconda metà del Novecento dal comando padronale, attraverso la scelta di finalizzazione delle innovazioni tecnologiche-organizzative per spazzare via l’odiato contrappeso. E con questo non intendo assolutamente affermare l’esistenza di una congiura tipo Spectre managerial-imprenditoriale; ma solo l’accumularsi di scelte sinergiche improntate a un idem sentire: la ricerca ossessiva della mano libera, della deregolamentazione. In una sequenza che parla da sola:

    • 26 aprile 1956, con l’imbarco sulla petroliera Ideal-X nel porto di Netwark di 58 cassoni in alluminio (the box) prende avvio la rivoluzione logistica che, mentre schianta la resistenza del lavoro portuale e desertifica le banchine, con l’introduzione del container riorganizza il trasporto e sovverte le catene del valore, nel passaggio al modo di produrre just-in-time;
    • 1962, la ditta Usa Fairchild insedia a Hong Kong l’assemblaggio delle componenti microelettroniche per computer. È l’avvio del processo di delocalizzazione transnazionale che a Occidente, con le imprese ormai foot-loose, destabilizza le società fondate sul lavoro e prosciuga le entrate fiscali degli Stati, a vantaggio delle multinazionali e dei cosiddetti “signori del silicio”. A Oriente ripristina forme di sfruttamento para-schiavistico di fabbrica;
    • 29 ottobre 1969, diventa operativa la rete Arpanet creata dal Dipartimento Difesa degli Stati Uniti per evitare, nell’eventualità di una guerra nucleare, la distruzione delle comunicazioni americane. Una struttura a network non controllabile da un centro, costituita da nodi autonomi di computer. Nel 1995 la rete viene chiusa, smantellata e privatizzata. Nasce Internet;
    • Ottobre 1973, l’embargo petrolifero dopo il conflitto arabo-israeliano (guerra del Kippur) e il conseguente aumento delle materie prime, immediatamente successivo all’innalzamento dei salari ottenuti nelle lotte sindacali degli anni precedenti, grazie al vantaggio raggiunto della piena occupazione, incentiva le derive alla finanziarizzazione delle economie mature: il passaggio dalla sfera materiale a quella virtuale nella riproduzione del capitale;
    • 9 novembre 1989, con la caduta del Muro di Berlino e la dissoluzione dell’impero sovietico l’equilibrio del terrore va in frantumi; senza che con ciò vinca la liberal-democrazia, nonostante gli apologeti della “Fine della Storia”: un Capitalismo senza contrappesi interni (il lavoro) ed esterni (il socialismo reale) imbocca la via dell’accaparramento per spoliazione;
    • 20 gennaio 1993, il primo governo Clinton, in cui spicca il Segretario del Tesoro Robert Rubin (ex presidente di Goldman Sachs). L’amministrazione Usa diventa il vero agente della globalizzazione politica al servizio della primazia dei “mercati” (altri li definiranno “plutocrazia mondiale dell’1%”);
    • 1995 la National Science Foundation cede il controllo del web ai privati;
    • Settembre 2011, alla Fiera di Francoforte viene presentato il “progetto Industry 4.0”, ossia il disegno di sostituire attraverso l’automatizzazione il lavoro vivo degli umani con quello morto delle machine. Ciò significa la “soluzione finale” che desertifica l’area centrale della società. Con l’effetto suicida per un consumo di massa (assetto terminale dell’ordine plutocratico), alimentato dalla mega-macchina che produce beni che nessuno avrà più la possibilità di acquistare.

    Zygmunt Bauman sintetizzò gli effetti di questa progressione evenemenziale in un giudizio fulminante: «la creazione della ricchezza sta per emanciparsi finalmente dalle sue eterne connessioni – vincolanti e irritanti – con la produzione, l’elaborazione dei materiali, la creazione di posti di lavoro, la direzione di altre persone. I vecchi ricchi avevano bisogno dei poveri per diventare e restare ricchi; e tale dipendenza faceva fare qualche sforzo, per quanto tenue, per prendersi cura degli altri. I nuovi ricchi non hanno più bisogno dei poveri»[8].


    Le questioni “b” e “c”

    Il distanziamento imposto dal contagio pandemico Covid-19 sta dando un’ulteriore accelerazione alla diffusione del telelavoro (abbellito dalla denominazione esterofila “smartwork”), per la felicità dei profeti del post-lavoro. Scrive De Masi: «dal 1993 al marzo 2020 in Italia siamo arrivati a quota mezzo milione di telelavoratori. Dieci giorni dopo, le persone in smartworking erano otto milioni. Posso dire di aver avuto la fortuna di assistere al più grande esperimento industriale di tutti i tempi»[9].

    A tale fenomeno mi riallaccio per le due questioni che ti sottoponevo all’inizio. Ossia, le conseguenze insite nella perdita della dimensione relazionale (“b”); le specifiche skills imposte dal remoto, rispetto all’operare in gruppo nelle sedi aziendali (“c”).

    Sicché mi azzardo ad aggiungere al riguardo soltanto qualche notazione a livello preliminare, dando per acquisite le considerazioni svolte nelle pagine precedenti. In particolare la nuova modalità (non casuale) di parcellizzazione del lavoro, centrata non più tayloristicamente sulle mansioni quanto di tipo logistico, che – ancora una volta – ne sterilizza le potenzialità rivendicative; dunque, politiche.

    Per quanto riguarda il tema della solitudine del tele-lavoratore, mi chiedo come sia possibile mantenere in questa condizione il vantaggio competitivo forse più prezioso dell’operare organizzativamente: la produzione di conoscenza d’impresa. Il tema sintetizzato magistralmente da Luciano Gallino: «un’organizzazione produttiva è un sistema cognitivo distribuito […] Le innumerevoli molecole di conoscenza esplicita e implicita che lo formano stanno nella memoria delle persone, pur nei casi in cui non ne sono consapevoli, sia negli archivi, dossier, classificatori, files di ogni reparto, divisione, officina, ufficio – non solo in quelli della direzione o del CdA. Non meno essenziali sono le particolari relazioni che si sono stabilite tra le tante molecole cognitive: sono infatti esse che fanno la differenza tra una congerie caotica e un sistema funzionante»[10]. E per formare un simile sistema occorrono decenni, talora generazioni.

    La faccio breve sull’ultimo punto: le regole e i criteri del lavorare a distanza sono gli stessi di quelli che valgono per la contiguità?

    In sintesi: il peana per lo smart working è qualcos’altro dell’incosciente viatico alla liquidazione del valore primario della modernità economica (il concetto stesso di organizzazione come fattore di innovazione) o no?

    Questo per dire che sento risuonare campane a martello per la civiltà del Lavoro, che prefigurano maremoti di intensità impensabile e medioevi prossimi venturi per la civiltà tout court. È così o la mia senescenza porta con sé forme galoppanti di ipocondria?

    La palla passa a te, Paolo.

    Un abbraccio.

    Pierfranco

    ***


    Aspettando il lavoro ‘smart’, evitiamo di oziare

    Caro Pierfranco, potrei cavarmela rispondendoti che ho sempre considerato con sospetto la categoria dell’ozio, ancorché nobilitata dal richiamo all’otium litterarum degli amati classici latini. Oltretutto si è indotti a pensare che Domenico De Masi non si riferisca tanto, nelle sue raccomandazioni strategiche, all’otium come dimensione complementare al negotium. No, la spiacevole sensazione è che il Nostro stia parlando proprio di ozio, con quel corollario di indolenza ben portata che spesso esibiscono gli intellettuali da salotto per darsi un tono e apparire più interessanti (a spese altrui, ovviamente). Quel che è peggio, De Masi sembra alludere pericolosamente alla fuoriuscita dal lavoro: l’ozio smette di essere una virtù e diventa una condizione permanente dell’umanità libera (immagino sempre a spese altrui). Aggiungi il fatto che la mia educazione sentimentale è squisitamente milanese, per cui puoi ben immaginare l’impatto di certi appelli all’ozio sul mio sistema gastrointestinale.

    Lo spunto della tua lettera è comunque prezioso. In questa fase il dibattito sul futuro del lavoro è legato alla condizione nuova in cui ci siamo trovati, nel corso dell’anno, per effetto della pandemia. Al grido di “nulla sarà più come prima”, in molti si ingegnano nel tentativo di descrivere il nuovo scenario. La miseria dell’attuale dibattito è tutta nella risibile convinzione che un passo avanti sia già stato compiuto. Per semplicità e comodità, limitiamoci al nostro Paese. Milioni di italiani – sento ripetere – si trovano improvvisamente a sperimentare forme di smart working. E dunque questa emergenza sanitaria ha avuto per lo meno un effetto positivo, visto che è riuscita a catapultare un popolo recalcitrante nella modernità digitale. Perché come tale si vuole qualificare la nuova modernità, no? Digitale, qualunque cosa l’espressione significhi nella retorica imperante. Vorrei spendere qualche parola su questa idea davvero balzana.

    Non chiamatelo smart working

    Mi pare che su un punto preliminare possiamo trovarci d’accordo: essere costretti dalle circostanze a lavorare in casa, senza averlo richiesto né concordato, ha ben poco di smart (“intelligente”). Semmai è vero il contrario. L’ha detto benissimo Fabio Moioli, capo dei servizi e della consulenza di Microsoft: a causa del Covid-19, siamo stati privati della possibilità di scegliere con intelligenza come lavorare ogni giorno. Ma sospetto che in Italia sia andata anche peggio di così. La remotizzazione del lavoratore si è tradotta in non pochi casi nell’inadempienza del lavoratore stesso, causata vuoi dall’assenza di un disegno organizzativo adeguato, vuoi dall’insufficienza degli strumenti e dell’infrastruttura tecnologica. Sicché lo smart working ha perso non solo il suo connotato (smart), ma anche la sua sostanza (work). Al punto da provocare l’incauta presa di posizione del sindaco di Milano, Beppe Sala, che a giugno ha esclamato: “Basta con lo smart working! Torniamo a lavorare”.

    Detto ciò, si tratta di fare un passo indietro. Se vogliamo rendere il lavoro più intelligente – anche approfittando della lezione che quest’ultima crisi ci ha impartito – dobbiamo domandarci di quale lavoro stiamo parlando. Concorderai con me che, semplificando, possiamo riconoscere almeno tre categorie di lavoro. C’è innanzi tutto il lavoro organizzato, quello cioè che trova il suo senso solo all’interno di un’organizzazione. La quale finisce poi per rispecchiarsi in un luogo fisico (la fabbrica, l’ufficio, il cantiere, la redazione di un giornale, il call center). Sospetto che questa sia la forma di lavoro per te più interessante, proprio per la sua dimensione organizzativa. In essa, in particolare, trova modo di organizzarsi anche il conflitto fra gli interessi in gioco, quella lotta di cui Luigi Einaudi ci ricorda la bellezza, contrapponendola agli ideali burocratici del corporativismo fascista e del collettivismo comunista. C’è poi il lavoro di coloro che, come si dice, operano in proprio: artigiani e liberi professionisti. In fondo, anche tu – che pratichi un lavoro squisitamente intellettuale – appartieni oggi a questa categoria: un po’ Steppenwolf (nel senso di Hermann Hesse), un po’ sottoproletario dell’industria culturale. Comunque esterno a ogni circuito organizzativo. Infine c’è il lavoro della cosiddetta gig economy, ossia quello a chiamata, occasionale e temporaneo. Di esso ti occupi molto nella tua lettera. Come ben sappiamo, si tratta di un mondo caratterizzato non solo da scarse garanzie contrattuali, ma anche da una conflittualità che fatica a esprimersi. Ciò dipende, io credo, da due circostanze: da un lato la debolezza della dimensione organizzativa, sostituita da una rete di relazioni deboli e virtualizzate (il contatto fra datore e prestatore d’opera si consuma attraverso una app e qualche telefonata); dall’altro l’assenza di un luogo fisicamente condiviso in cui l’esperienza del singolo si possa rispecchiare. Peraltro trovo irrispettosa l’espressione gig economy, che allude a qualcosa di poco impegnativo sia dal punto di vista fisico sia sul piano esistenziale (il sostantivo inglese gig sta per “lavoretto”). Più guardo i rider percorrere giorno e notte le strade della mia città, sotto la calura estiva come nel gelo dell’inverno, più osservo la fatica nei loro volti e i gesti distratti dei clienti che prendono in consegna la merce consegnata, più cose apprendo sul modo in cui sono trattati e sul livello delle loro retribuzioni, più mi convinco che il loro è tutt’altro che un lavoretto.

    Organizzazione e costruzione di senso

    Ebbene, a mio parere il primo di questi tre mondi ha l’opportunità di svincolarsi dall’ambigua pubblicistica dello smart working – diciamo: del falso smart working – che caratterizza l’attuale stagione e approfittare della crisi per immaginare modi di lavorare più intelligenti, per i singoli e per le organizzazioni. Mi sembra più difficile che ciò possa avvenire per la seconda e la terza categoria di lavoro. Il punto è che la dimensione organizzativa e quella relativa al luogo – un luogo che deve essere fisico e fisicamente condiviso – costituiscono aspetti necessari allo scopo. Essi sono la premessa perché si possa immaginare un uso intelligente delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione, con l’obiettivo di liberare il lavoro. Liberarlo, almeno in parte, anche da quella fisicità. Parlo proprio di liberare il lavoro e non solo di “efficientarlo” (da ciò che mi scrivi, penso che anche su questo ci troviamo d’accordo). Mi riferisco all’occasione che abbiamo, con il digitale, di offrire nuovi strumenti per la definizione del senso cui, individualmente e collettivamente, l’esperienza lavorativa contribuisce, e non solo per accrescere il valore dei processi e aumentare la ricchezza prodotta. Sapendo che il digitale è cultura, non tecnologia: cultura codificata per essere veicolata attraverso il computer. O si innesta in un’organizzazione e in un luogo esistenti, nei quali la comunità già si riconosce, contribuendo a trasformarli, oppure il digitale sovrappone il vuoto al vuoto. Simboli e relazioni inesistenti non si possono neppure remotizzare, come invece qualcuno si illude si fare. Si possono solo rimuovere. Cioè si può, freudianamente, rimuovere il problema. Del resto l’aggettivo remoto, di etimo latino, corrisponde a remotus, che è appunto participio passato di removere (“rimuovere”).

    Mi fa piacere che nella tua lettera parli di sensemaking. D’altronde sul sensemaking organizzativo, caro Pierfranco, tu e io ci siamo fatti le ossa come consulenti parecchi anni fa, quando leggevamo Karl Weick. E abbiamo capito che il senso dell’organizzazione riguarda i legami che tengono insieme le persone, nonché il modo in cui le persone stesse si rappresentano tali legami. Quindi ha a che fare con i processi cognitivi e comunicativi, più che con gli organigrammi. Potresti obiettare che, nell’organizzazione, la comunicazione è solo la foglia di fico del potere e si manifesta nelle forme manipolatorie della propaganda. Per cui è più saggio prestare attenzione agli aspetti sostanziali – rapporti di forza, alleanze, strategie – evitando di farsi incantare dalle improbabili meraviglie delle svolte comunicative. Quante volte te l’ho sentito dire! A questa obiezione rispondo che resto fedele alla prospettiva di Jürgen Habermas. Credo che nelle organizzazioni si manifestino due forme di razionalità, che corrispondo ad altrettanti modelli di azione sociale. C’è un agire di tipo teleologico e strategico, che persegue l’obiettivo dell’influenza e che usa la comunicazione solo per trasferire informazioni, nel tentativo di plasmare le percezioni, manipolare le cognizioni e orientare i comportamenti. E c’è un agire comunicativo, il cui fine è la ricerca di un’intesa attraverso il linguaggio. In questo caso, per dirla appunto con Habermas, la funzione della comunicazione è la “comprensione, che nasce dal riconoscimento intersoggettivo di pretese di validità criticabili” (Teoria dell’agire comunicativo, 1981, tr. it. 1986) Certo, non tutta la comunicazione è dialogo e tentativo di intendersi. Spesso essa è trasmissione, la quale presuppone distanza, differenza, asimmetria, non dialogicità. I media, anzi, ci appaiono indispensabili e vanno compresi proprio per questa funzione di messaggeri e mediatori che rendono percepibile il messaggio, come ci ricorda Sybille Krämer.

    Il bisogno di un luogo

    Per quale ragione il lavoro ha bisogno di un luogo per costruire senso? Perché è proprio nel luogo – un luogo che sia identificabile fisicamente, non virtualizzato – che si sviluppano relazioni di tipo dialogico, le quali sono alla base del sensemaking. Il dialogo è innanzi tutto un negoziato sull’interpretazione di uno stato di cose. Da questo negoziato nasce, all’interno dell’organizzazione, il senso dello stare insieme finalizzato (che non significa amarsi, né condividere le stesse idee). Sto forse affermando che l’organizzazione sta in piedi solo se convoglia tutte le persone e tutti i processi che la costituiscono in un unico luogo fisico? Sto dicendo che la comunicazione fra soggetti remoti non è di alcuna utilità per l’organizzazione e non può funzionare in alcun caso? Né l’una né l’altra cosa. Sostengo, semmai, che il sensemaking organizzativo si può nutrire anche negli spazi virtuali del digitale e attraverso esperienze intelligenti di lavoro remotizzato (in questo caso davvero smart) a condizione che prima siano state poste le basi per una relazione dialogica e a patto che esista un luogo fisico al quale riferirsi e al quale fare ritorno, periodicamente.

    Che tale luogo debba essere fisico dipende dalla natura dei nostri processi cognitivi. I luoghi hanno un ruolo centrale nel modo in cui definiamo la nostra identità sociale e costruiamo la nostra memoria autobiografica. Nel 2014 John O’ Keefe, May-Britt Moser e Edvard Moser sono stati insigniti del premio Nobel per i loro studi sui neuroni GPS, ossia le cellule attraverso cui il nostro cervello costruisce una mappa dello spazio circostante (si veda, dei tre autori, Place Cells, Grid Cells, and Memory, 2015). Nel corso di una relazione mediata dal computer – specie se supportata da tecnologie di videoconferenza non immersive, come Zoom, Skype, Meet, Teams e simili – i neuroni GPS non si attivano. Questo significa che la nostra memoria autobiografica non si aggiorna e la nostra identità sociale non si rafforza. Chi sono io per l’organizzazione? Chi è l’altro per me, all’interno dell’organizzazione? La capacità di rispondere a domande simili si indebolisce nella videocomunicazione a distanza, cui si fa sistematico ricorso nelle situazioni di lavoro a distanza (riunioni interne, processi collaborativi virtualizzati, attività commerciale, diagnosi e consulenze, didattica). A rendere più o meno smart tale esperienza è la capacità di mantenere comunque un punto di riferimento topografico. Cosa che risulterà tanto più facile, quanto più forte sarà stato l’investimento delle persone nel luogo fisico che abitualmente accoglie la loro relazione dialogica.

    Riconoscere il volto

    La relazione a distanza risulta impoverita anche per un’altra ragione: l’impossibilità di vedere il corpo dell’altro e riconoscere i segni del suo sguardo. Anche in questo caso le neuroscienze forniscono una conferma empirica a questa ipotesi. La mancata attivazione dei neuroni specchio, infatti, rende più difficile la comprensione dell’altro, dei suoi scopi e dei suoi sentimenti. L’interazione sociale si indebolisce e, con essa, la capacità di agire secondo uno schema comunicativo, elaborando un processo cooperativo di costruzione di senso utile all’organizzazione come al singolo.

    Lo smart working inteso come sostituzione della relazione in presenza, peggio ancora se a telecamere spente (abitudine tutta italiana, a quanto pare) è davvero poco smart. Se invece lo si immagina come alternanza ragionata di momenti fisici e virtuali, non solo diventa un modello efficace, ma può addirittura contribuire a superare certe disfunzionalità della comunicazione organizzativa in presenza.

    Riconoscere il volto, dunque. Mi sembra questo un bel punto di partenza e un obiettivo valido, per chiunque voglia liberare il lavoro. C’è, dietro questo programma, un umanesimo a metà strada fra Albert Camus ed Emmanuel Lévinas. E io sono pronto a sottoscriverlo, anche perché siffatto umanesimo ci è comodo proprio nel momento in cui dobbiamo necessariamente addentrarci in territorio “nemico”, il territorio del digitale. L’umanesimo come linea-guida per impostare il futuro rapporto con le macchine, dunque. Sono tutto sommato ottimista al riguardo. Resta da capire, tuttavia, come includere in questo programma anche i volti dei rider schiacciati dalla gig economy e quelli di due poveri sottoproletari dell’industria culturale, come te e me. Un abbraccio.

    Paolo

    * docente di Comunicazione digitale e multimediale all’Università di Pavia
    NOTE

    [1] D. De Masi, “Rider (e non solo), MicroMega on line 30 ottobre 2020

    [2] A. de Tocqueville, La democrazia in America, Scritti Politici (Vol. II), Utet, Torino 1968 pag. 48

    [3] L. Boltanski ed È. Chiapello, il nuovo spirito del capitalismo, Mimesis, Sesto S. Giovanni 2014 pag. 401

    [4] D. De Masi, Il futuro del lavoro, Rizzoli, Milano 1999 pag. 284

    [5] P. Pellizzetti, Conflitto, Codice, Torino 2013 pag. 46

    [6] G. Grappi, Logistica, Ediesse, Roma 2016 pag. 14

    [7] Ivi pag. 219

    [8] Z. Bauman, Dentro laglobalizzazione, Laterza, Roma/Bari 2001 pag. 81

    [9] D. De Masi, MicroMega on line, cit.

    [10] L. Gallino, La scomparsa dell’Italia industriale, Einaudi, Torino 2003 pag. 75
    (24 novembre 2020)




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