Società civile, la Bella addormentata

MicroMega

Cara Micromega,

In una recente intervista, resa a l’Unità l’11 aprile in occasione del suo centesimo compleanno, Gillo Dorfles esprime un severo, ma condivisibile giudizio: “La borghesia in Italia ha fatto fiasco. Almeno una volta c’era una borghesia illuminata. Oggi è pochissimo illuminata. E il cialtrionismo è tipico della borghesia attuale. Finite le oasi di alcuni decenni fa, mentre la diffusione della cultura ha coinciso con l’involgarimento e l’appiattimento. E finita la coesione comunitaria. Da noi la destra non ha saputo fare cultura di punta né generare classi dirigenti, a differenza dei grandi paesi occidentali”.

Simile riflessione fu espressa, sebbene in un altro contesto, da Gaetano Salvemini, il 16 marzo 1911, sulla rivista letteraria La Voce “L’azione politica della piccola borghesia intellettuale, e più specialmente di quella parte di essa che non riesce a collocarsi comodamente al banchetto della vita, ha una grandissima importanza nella società moderna (…). Nel Mezzogiorno d’Italia la potenza sociale, politica, morale della piccola borghesia intellettuale è assai più grande e più malefica che al Nord. Ed è questo uno dei flagelli più rovinosi del Mezzogiorno.”

Certo sono trascorsi molti decenni dalle parole di Salvemini, ma appena qualche giorno da quelle di Dorfles. Com’è possibile? Forse perché il nostro è, e resta per ora, un paese ancora gravato dalle note ‘tare’ storiche che hanno origini ancor più lontane della stessa Unità d’Italia? L’assenza di una borghesia illuminata, capace di scrutare l’orizzonte della storia, al di là degli interessi contingenti, fu una delle più acute riflessioni politiche (e di costume) espresse, nel 1826, anche da Giacomo Leopardi nel “Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani” ove il grande poeta affermava “Le classi superiori sono le più ciniche di tutte le loro pari nelle altri nazioni. Il popolaccio italiano è il più cinico de’ popolacci. (…) Quelli che credono superiore a tutte per cinismo la nazione francese, s’ingannano. Niuna vince né uguaglia in ciò l’italiana. Essa unisce la vivacità naturale (maggiore assai di quella de’ francesi) all’indifferenza acquisita verso ogni cosa e al poco riguardo verso gli altri cagionato dalla mancanza di società, che non li fa curar gran fatto della stima e de’ riguardi altrui ”. Il Leopardi riteneva assente la cosiddetta ‘società stretta’; in sintesi il ceto abbiente, o quantomeno non bisognoso, che avrebbe dovuto contribuire all’evoluzione generale dell’Italia, avvicinandola alle altre nazioni europee.

A differenza di Dorfles, io non credo che l’ ‘assenza’ della borghesia nel nostro paese sia (o sia stato) un fattore di natura politica riconducibile ad una responsabilità della Destra o della Sinistra. Si tratta piuttosto di un’assenza, pur senza volerla giustificare, dovuta al rapido susseguirsi di eventi storici di grande impatto – la stessa Unità d’Italia, la 1^ Guerra mondiale, il Fascismo, la 2^ Guerra mondiale – che hanno inciso in modo profondo sulle reali chance di questa parte della società di erigersi a classe dirigente in un paese che ha navigato per troppi decenni attraverso forti diseguaglianze sociali di natura strutturale, diventate poi inevitabilmente parte integrante del modo d’essere italiano.

Oggi, a quasi 150 anni dall’Unità politica, l’Italia è ‘guidata’, di fatto, da una borghesia, sempre più piccola, con orizzonti mentali angusti, non più circoscritta né facilmente individuabile come cento anni fa, ma trasfigurata in una dimensione sociale e mentale, trasversale e sfuggente; una borghesia presuntuosa, forse istruita ma non colta, tanto attenta ai centri commerciali, alla playstation e all’i-phone o a tanti altri vani e spesso inutili consumi tecnologici, quanto scarsamente interessata alla cultura, ai libri, alla scuola e dell’educazione dei propri figli, molto incline, invece, a lasciar correre la maleducazione di quest’ultimi.

Questa parte della società, sempre pronta ad inveire contro lo Stato quando impone il rispetto della legge, ma poco incline a criticare se stessa, è rappresentata in tutte le articolazioni sociali, economiche, politiche e sindacali, in tutte le istituzioni pubbliche e private, ed è lo specchio di un paese, recalcitrante rispetto a qualsiasi modifica profonda della realtà e non preparato ad affrontare la postmodernità e le sue aberrazioni inquietanti. Io credo che amare il proprio paese significhi innanzitutto criticarlo (non denigrarlo, cosa molto diversa), cercando nello stesso tempo di cambiarne l’habitus mentale, soprattutto.

E’ una grossa sciocchezza negare il declino – ancora più sciocco confonderlo con la crisi economica – ma è ancor meno intelligente negare la possibilità di cambiare lo stato delle cose, anche se la vedo dura. La società italiana potrebbe essere migliore di quella che è perché ne avrebbe pure la possibilità e l’intelligenza, se non fosse per i suoi codici comportamentali levantini, se non fosse per la diffusa ed invisibile metastasi del servilismo verso qualsiasi forma di potere, se non fosse per la sua inettitudine a pensare il futuro.

Paolo Flores ha scritto di recente, traendo spunto dalla serata web con Michele Santoro, che l’Italia civile c’è, ma non è rappresentata dalla politica. Sarà pur vero, ma questa mitica Italia civile quando uscirà dallo stato di torpore della Bella addormentata, per divenire un’Italia che cambia davvero se stessa? Quando, questa parte di società civile, riuscirà a capire che la politica dovrebbe essere un confronto reale (non limitato ad internet) con quell’altra Italia, quella non borghese, quella non dotata di un alto grado d’istruzione, quella che non frequenta Internet, quella che non vive nell’agiatezza, quell’Italia che è stata lasciata sola, per troppi anni, di fronte al televisore?

Nicola Viola, Genova

(19 aprile 2010)

Bookmark and Share



MicroMega rimane a disposizione dei titolari di copyright che non fosse riuscita a raggiungere.