Solo una rivoluzione della politica economica può scongiurare la catastrofe sociale
Daniele Nalbone
No, non sarà un pranzo di gala. La lotta tra capitali per la conquista dei mercati mondiali condurrà – uso qui il futuro e non il presente come ha fatto Emiliano Brancaccio nel suo ultimo libro “Non sarà un pranzo di gala – Crisi, catastrofe, rivoluzione” (con G. Russo Spena, ed. Meltemi, 2020) – alla centralizzazione del potere nelle mani di pochi vincitori e alla consequenziale reazione sovranista degli sconfitti. “Una pura lotta di classe in senso marxiano, ma tutta interna alla classe capitalista, con il lavoro totalmente zittito”.
Lo scenario sembra scritto. Sembra, appunto. Perché, come dimostra – e non come sostiene – Emiliano Brancaccio, una svolta è possibile.
Al fine di “dimostrare” e non “sostenere” è molto utile la scelta fatta da Brancaccio di riproporre, a inizio libro, una serie di interviste che ha rilasciato negli anni a diversi organi di informazione, tra cui proprio MicroMega.
Significativo, oggi, con il 2020 che si avvia verso la porta d’uscita, ricordare ad esempio un’intervista del 2007 dal titolo “Perché l’anticapitalismo non attecchisce più” rilasciata a Liberazione in cui, a precisa domanda – “Tu scommetti quindi su una crisi economica dalle nostre parti?” – risponde: “Ritengo che nell’arco dei prossimi anni una crisi sia probabile, anche in Europa. La ragione è che l’unione monetaria, per stabilizzarsi, esigerà ancora molti sacrifici dai lavoratori, e l’Italia potrebbe rappresentare uno dei suoi anelli deboli. Alcuni giorni fa ho evocato il pericolo di una crisi commerciale simile a quella del 1992, che come sappiamo comportò uno dei più tremendi arretramenti della sinistra e del movimento sindacale che si ricordino. Senza quella crisi non saremmo mai andati così spediti lungo la linea della compressione del bilancio pubblico e dei salari, delle controriforme di Treu e Biagi e delle scellerate privatizzazioni. Eppure, se vai a riguardare i giornali dell’epoca, vedrai che a sinistra furono quasi tutti colti di sorpresa dall’attacco valutario”.
Non si tratta di ragionare, oggi, con il senno del poi. Si tratta di “scongiurare una futura catastrofe sociale”. Per farlo, però, citando Olivier Blanchard, già capo economista del Fondo monetario internazionale, occorre una rivoluzione della politica economica. E occorre ben ricordarsi come si è arrivati non al 2020, ma al 2012. E ancor prima al 2008.
“Tanto più dopo la pandemia, diventa urgente cercare di capire se l’evocazione blanchardiana del bivio ‘catastrofe o rivoluzione’ sia mera voce dal sen fuggita o piuttosto segno di svolta di uno spirito del tempo che inizia a muovere da farsa a tragedia. A tale interrogativo è dedicato questo scritto. A chi intenda cimentarsi nella lettura, sarà utile lanciare un avvertimento. Sebbene intessuto di fili accademici, questo saggio risulterà estraneo alle pratiche discorsive dell’ordinario comunicare scientifico. Qui si cercherà infatti di rinnovare un antico esercizio, eracliteo e materialista: di intendere logos come scienza. Scienza non parziale ma generale, per giunta, quindi inevitabilmente colma di vuoti come un formaggio svizzero. Su questi vuoti, prevediamo, gli specialisti contemporanei avvertiranno insofferenza mentre sarà indulgente l’osservatore avvezzo alla critica e alla crescita della conoscenza (Lakatos e Musgrave 1976). Costui è consapevole che solo una visione generale consente di visualizzare quei vuoti, e quindi crea le premesse per tentare di perimetrarli e superarli”.
La pandemia c’entra fino a un certo punto. Ora potrà essere usata come scintilla, ora come scusa. Sicuramente sarà buttata, e lo è già, in mezzo a ogni discorso per uscire dalla crisi. Ma possiamo definire “crisi” un qualcosa iniziato ormai nel 2008 e mai terminato? La partita in ballo è palesemente un’altra: trovare la giusta rivoluzione per scongiurare la catastrofe dei diritti ormai imminente, se non ormai avvenuta.
Su una cosa, però, non concordo con Brancaccio (attenzione, non sono un economista e qui mi arrogo il diritto di parlare da semplice cittadino): invocare un reddito, che per Brancaccio “non basta”, è invece oggi a mio avviso centrale. Solo un reddito, in questo momento storico, può intanto bloccare la catastrofe: capisco che l’attenzione di un economista debba essere rivolta al lungo periodo, ma ritengo che un reddito incondizionato sia, in realtà, una misura di lungo periodo in un mondo in cui – banalizzo – lavoro per tutti non può esserci. Quindi non ritengo “l’unica rivoluzione”, ma parte della rivoluzione per scongiurare quella catastrofe di diritti, recuperare e rilanciare quella che nel libro viene definita “la più forte leva nella storia delle lotte politiche”: la pianificazione collettiva, “intesa questa volta nel senso inedito e sovversivo di fattore di sviluppo della libera individualità sociale e di un nuovo tipo umano liberato.”
Brancaccio nel libro ripropone i suoi dibattiti, anche se almeno un paio di questi sarebbe forse meglio chiamarli scontri, con Romano Prodi, Mario Monti, Lorenzo Bini Smaghi e Olivier Blanchard. Tocca i temi del momento – in primis la questione ambientale – ma prova ad andare oltre, e di questo gliene va dato merito: non risparmia critiche anche a colleghi come Piketty ma, soprattutto, mostra in maniera semplice, comprensibile anche a chi economista non è, come il capitalismo, o meglio il monopolio capitalistico, non sappia, semplicemente, affrontare le questioni che contano davvero.
Non solo non è in grado di immaginare una riconversione ecologica, ma non ha chiara nemmeno l’idea di chi debba pagarla, noi di oggi o loro di domani, anche se quel loro sono i nostri figli o nipoti. Il monopolio capitalistico – concedo più spazio a questo tema visto il momento che stiamo vivendo e non perché sia più importante della questione ambientale – non è in grado nemmeno di immaginare un vero sviluppo scientifico e tecnologico. L’organizzazione della produzione tecnico-scientifica – scrive Brancaccio – è in primo luogo organizzazione del potere economico della scienza. “Intorno a questo potere montano le lotte politiche più feroci, ma se tali lotte vedono in azione i soli agenti capitalistici, è inevitabile che la produzione tecnico-scientifica in generale, e la produzione dell’innovazione in particolare, vengano messe al servizio esclusivo della riproduzione del capitale e dei suoi rendimenti”.
Potrebbe sembrare un corto circuito. In realtà è un tutto frutto di un disegno ben chiaro:
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“Si spiega così l’opera incessante di privatizzazione della conoscenza tecnico-scientifica, a mezzo di brevetti, diritti di proprietà intellettuale, contratti di segretezza. Un’opera che non si è fermata nemmeno dinanzi a una minaccia generale di morte, come il coronavirus. Gli scienziati chiedono di accantonare questa logica privatistica per mettere in comune le conoscenze, condividerle a livello internazionale e coordinare i gruppi di ricerca per accelerare la ricerca sul covid-19. Ma nello stato attuale dei rapporti sociali di produzione, un comunismo scientifico nella lotta contro il virus rischia di essere nient’altro che una voce razionale nel deserto”.
In fondo “l’impulso speculativo non è un retaggio della vecchia economia antecedente all’accumulazione primitiva, ma è una caratteristica intrinseca del capitalismo sviluppato”.
Per uscirne Brancaccio immagina una mossa simile a quella che nel judo si adegua alla forza dell’avversario per sfruttarla a suo favore. Rovesciamento e controllo. Quella mossa può tradursi “in una paziente opera di costruzione di una nuova intelligenza collettiva, per un nuovo scopo”. Obiettivo principale: “esercitare le nuove leve a comprendere l’arcano della legge di movimento del capitale, e a scoprire che tra i suoi potenti ingranaggi covano immani contraddizioni interne”. Quali? “Centralizzazione, polarizzazione e uniformizzazione di classe, riproduzione di nuovo capitale umano. Occorre che l’intelligere di classe si riunifichi, pensi e agisca intorno a una chiave, una parola d’ordine, una bandiera per l’egemonia (…) questa chiave è la modernità della pianificazione collettiva”.
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