I CLASSICI DI MICROMEGA: ‘Sopra l’Officio dell’Inquisizione’ di Paolo Sarpi presentato da Adriano Prosperi

Adriano Prosperi

Non finì sul rogo come il suo contemporaneo Giordano Bruno solo perché era cittadino veneziano, ed è proprio in qualità di consulente della Repubblica di Venezia che Sarpi scrisse questo trattato sull’Inquisizione. Un testo che non mette tanto in discussione l’istituzione in sé – erano tempi in cui le agitazioni religiose si traducevano immediatamente in rivolgimenti politici – ma difende a spada tratta le prerogative di Venezia contro le pretese di potere ‘totato’ della Chiesa di Roma. Un primo nucleo di separazione fra Stato e Chiesa, dunque. Un primo barlume di laicità.

Si è discusso sempre con grande passione intorno al tribunale dell’Inquisizione ecclesiastica contro gli eretici. La domanda di fondo che si fa avanti ogni volta si può formulare così: fu una istituzione giuridica necessaria e retta da regole severe o una spietata macchina dell’arbitrio di un potere clericale eretta contro la libertà di coscienza?

Il conflitto tra i sostenitori dell’una e dell’altra tesi dura da secoli, alimentato dal contrasto ideologico intorno all’istituzione Chiesa e dalla difesa che il corpo ecclesiastico ha opposto agli attacchi della cultura filoprotestante liberale. Ma in tempi recenti, a partire dal Concilio Vaticano II, è avvenuto un progressivo distacco di una notevole porzione del mondo cattolico da questa parte del suo passato. Se ne è fatto interprete il pontificato di Karol Wojtyła, che ha tra l’altro affidato la materia alla ricerca storica aprendo agli studiosi l’archivio centrale romano del Sant’Uffizio.

Di fatto, oggi gli studiosi di storia si attardano molto meno in polemiche ideologiche e discussioni di carattere generale. Tuttavia quella domanda che abbiamo evocato si presenta ancora negli studi di carattere storico-giuridico. Un tempo la risposta degli inquisitori di professione era un rinvio alla legittimazione divina: come scrisse lo spagnolo Luis de Páramo (1598), era stato Dio padre ad aver fondato l’Inquisizione quando aveva interrogato Adamo ed Eva nel Paradiso terreste. Dio sapeva bene quale peccato avessero commesso ma la domanda era stata formulata per ottenere la confessione del colpevole: esattamente ciò che avevano fatto in seguito gli inquisitori dell’eretica pravità.

I moderni studiosi di storia del diritto pongono invece il problema in termini di confronto tra le regole dell’Inquisizione dei paesi cattolici e gli sviluppi del diritto di punire nel resto d’Europa. A titolo d’esempio citiamo il recente giudizio di Angela Santangelo Cordani, docente alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università Statale di Milano, la quale ha definito la procedura del Sant’Uffizio «decisamente più garantista e indulgente di quella praticata dalle contemporanee giustizie laicali» 1. È una tesi non nuova, che poggia anche su un discreto consenso fra gli storici, come mostra la ricca bibliografia del suo lavoro. Alla quale si potrebbe aggiungere un libro di recente pubblicazione di un autore il cui nome stupirà forse i lettori: fra’ Paolo Sarpi.

***

Il libro è il suo trattato Sopra l’Officio dell’Inquisizione. Concepito e redatto nel 1613, obbedendo a una richiesta del Senato, come «Discorso dell’origine, forma, leggi ed uso dell’Ufficio dell’Inquisitione nella città e Dominio di Venetia», comparve a stampa per la prima volta nel 1638 fuori d’Italia, con falsa indicazione di stampa (Serravalle appresso Fabio Albicocco, in realtà probabilmente Ginevra) e con un titolo modificato (Historia della Sacra Inquisitione) che rispondeva al desiderio di molti in Europa di disporre finalmente di una storia non teologica di quel tribunale. Di fatto, da allora in poi le opere di storia dell’Inquisizione comparse fuori d’Italia tra Seicento e Settecento attinsero largamente allo scritto del Sarpi.

Oggi disponiamo finalmente di una edizione critica recentissima del trattato, stampata dall’Istituto Veneto di scienze lettere e arti, a cura di Corrado Pin, il maggiore esperto esistente di filologia sarpiana. Il curatore e l’editore hanno il merito di avere riportato in Italia un libro che era uscito di nascosto, sfuggendo al rigido segreto del governo veneziano e a divieti e scomuniche della Chiesa di Roma. Per far rientrare gli scritti di Sarpi in Italia nel Settecento bisognò mascherare il nome della città italiana di Verona sotto quello tedesco di Helmstadt. Emigrato per causa di religione, solo la nascita dello Stato italiano nel 1861 riaprì a Sarpi come autore il permesso di circolare nel nostro paese.

Ma veniamo al contenuto. Si legge qui che per Sarpi il diritto del clero di inquisire e condannare l’eresia era indiscutibile: lo si doveva mantenere e garantire. Sembrerebbe una posizione singolare e in contrasto con quello che si sa di lui. Di Sarpi tutti conoscono il gioco di parole del commento all’attentato di cui fu vittima nel 1607: «Riconosco lo stile della curia romana» («Agnosco stilum Romanae Curiae»). Una difesa assai raffinata: allo stiletto del sicario Sarpi oppose allora la ben più aguzza punta del suo stile. Quanto alle sue opinioni in materia di religione, sono nascoste dietro la barriera di simulazione e dissimulazione che era allora costume diffuso. Il giudizio corrente è che fu sostanzialmente uno scettico, se non addirittura un uomo capace di ipotizzare «una società di atei» (lo ricorda Antonella Barzazi sul Dizionario biografico degli italiani).

Ma come si spiega allora quella tesi giuridica che sembra una difesa dell’Inquisizione? In realtà, bisogna precisare prima di tutto che Sarpi parlava qui come consulente dello Stato veneziano. Dunque, se inquisire in materia di eresia da parte del clero era norma necessaria e importante, ancor più importante per lui era tenere fisso il potere esclusivo dello Stato nel perseguire e condannare gli eretici. Il suo consulto intese fornire al governo un’informazione sulla tradizione veneziana in materia, al fine di arginare le pretese romane. La realtà del presente era quella di un’aggressiva volontà di imporre un suo potere esclusivo in materia da parte dell’autorità papale. Contro di essa Sarpi ricostruì la lunga vicenda dell’Inquisizione in terra veneziana. Vi si incontrava il principio «che la cura della religione appartenga al principe» mentre i tentativi romani andavano nell’opposta direzione di togliere allo Stato ogni potere di governo in materia, facendo della religione questione tutta ecclesiastica e romana. E invece, scrisse Sarpi, «l’esperienza quotidiana in questi tempi nostri mostra che non può restar tranquillo uno Stato, nascendo mutazione nella religione».

L’esperienza europea del secolo della Riforma insegnava che dal dissenso ereticale e dal rifiuto di sottostare agli obblighi della religione si poteva passare alla sovversione dell’ordine politico e sociale, minaccia che trovava una repubblica aristocratica particolarmente sensibile. Non per nulla Venezia, dalla quale i protestanti avevano ritenuto prossima un’adesione alla Riforma, nel 1547 aveva accolto nel suo ordinamento l’introduzione del Sant’Ufficio romano. Con un limite: la partecipazione ai lavori di quel tribunale di tre giureconsulti laici nominati dal governo, al fine di controllare meglio la diffusione di dissensi dottrinali minacciosi per l’ordine sociale. Di fatto, la forma veneziana fu quella di un’Inquisizione mista. E Sarpi rispose all’invito del governo risalendo attraverso la documentazione statale veneziana alle origini della normativa che prevedeva la presenza e l’autorità di una componente laica accanto ai giudici ecclesiastici. Secondo lui, tale presenza doveva essere garantita in tutto il territorio statale: i rettori veneti dovevano impedire ogni abbandono della materia dell’eresia nelle mani degli ecclesiastici e delle invadenze romane. Da qui il suo consulto ricavava «una denuncia degli “abusi” perpetrati dal S. Officio per escludere il potere secolare dal tribunale del Sant’Ufficio» (Pin, p. 122). Secondo Sarpi, la Chiesa di Roma si era servita dell’Inquisizione per farsi «arbitra d’ogni governo». Aveva separato Venezia dalla tradizione della Chiesa orientale, dove vigeva il principio che il suddito, quanto «alle cose spirituali solamente è soggetto all’ecclesiastico, ma nelle temporali al principe». E la marcia aggressiva del potere papale, cioè di un altro Stato, aveva avuto un’accelerazione negli ultimi tempi.

Tipica delle in
venzioni romane era stata la bolla di Clemente VIII del 1595 in cui si ordinava ai soli italiani «che nessuno eziandio per mercanzie, possi andar in luoco dove non vi sia paroco e chiesa publica che esserciti il rito romano, se non averà licenza dagl’inquisitori». La Chiesa si vuole impadronire della mercanzia, commentò Sarpi: lo aveva tentato già tre secoli prima coi mercanti veneziani attivi in Levante fra i musulmani, colpiti con misure che imponevano pagamenti di tutto quello che valeva il capitale importato. E siccome lo facevano in punto di morte, quando l’assoluzione era negata a chi non pagava, si valutava anche l’aumento del capitale con gli interessi successivi. La cosa era durata fino al Quattrocento. L’elenco delle norme suggerite da Sarpi prevedeva l’obbligo dell’«exequatur» veneziano per la pubblicazione di bolle papali: un punto fondamentale. Così come materia importantissima per Venezia era la proibizione dei libri. Era stato su questo punto che si era registrata la saldatura tra la confessione sacramentale, orale e segreta, e la confessione giudiziaria davanti a un sacerdote trasformatosi in giudice istruttore grazie a una bolla di papa Paolo IV, Gian Pietro Carafa.

C’era un pensiero personale di Sarpi sull’Inquisizione, diverso da quello esposto nel suo consulto del 1613? La risposta è sì. Durante lo scontro tra Venezia e Roma per la questione dell’interdetto, cioè la condanna papale di interdizione dai sacramenti inflitta allo Stato e all’intera popolazione in seguito all’arresto e all’imprigionamento di sacerdoti per reati comuni, Sarpi aveva auspicato una guerra vera e propria in Italia per mettere fine all’Inquisizione («L’Inquisizione cesserà e l’Evangelio averà corso»). Nel 1606 l’interdetto aveva messo sotto accusa il diritto dello Stato di amministrare la giustizia su tutti i sudditi, inclusi i membri del clero. La Chiesa di Roma voleva il rispetto della «libertà ecclesiastica», cioè l’esenzione del corpo ecclesiastico dal potere dei laici (un principio di cui vediamo sgretolarsi gli ultimi ruderi nel nostro presente con la questione dei preti pedofili). Invece Sarpi, sostenitore del principio paolino della «libertà cristiana» nel quadro dell’obbedienza all’autorità dello Stato, vedeva nell’avanzata del potere papale la minaccia più grave non solo all’assetto ordinato della società ma anche alla religione cristiana. Quello che il papato pretendeva era un potere totale: lo definì un «totato», coniando l’antenato del moderno concetto di totalitarismo.

***

Questo 2019 promette di essere importante per la conoscenza dell’opera di Sarpi in Italia. Intanto, c’è stata l’edizione critica di questo consulto sull’Inquisizione nello Stato veneziano che finora aveva viaggiato nelle nostre edizioni come un migrante rimpatriato, visto che lo si era generalmente ripreso dall’edizione pubblicata fuori d’Italia nel Seicento. Ma c’è anche da ricordare la ricorrenza cinque volte centenaria dell’opera più celebre e discussa del Sarpi, l’Istoria del Concilio Tridentino: un altro libro esule e migrante, pubblicato a Londra nel 1619, grazie all’opera – non richiesta e non gradita dall’autore – di Marcantonio De Dominis, vescovo di Spalato, un transfuga dalla Chiesa di Roma (che poi, pentito e tornato in Italia, fu processato dall’Inquisizione romana, morì in carcere e fu condannato dopo morto al rogo del cadavere).

Fu in questa opera che le sue critiche presero una forma ancora più radicale, come risulta fin dalle prime pagine. Vi si definisce il Concilio come un’assemblea che aveva fallito in tutti i suoi scopi. Avrebbe dovuto colmare la frattura della Chiesa ma aveva finito col renderla irrimediabile; avrebbe dovuto rafforzare l’autorità dei pubblici poteri e dei vescovi nel governo del popolo, ma l’aveva completamente cancellata, trasferendola tutta al pontefice romano. Ne era risultata non la riforma ma «la maggior deformazione che sia mai stata da che vive il nome cristiano». Questa l’amara conclusione di un’appassionata indagine storica condotta per molti anni alla ricerca delle fonti su ciò che era stato fatto e detto al Concilio e intorno ad esso. Quella Istoria era stata la più imponente e lunga fatica della sua vita: e quel giudizio doveva da allora pesare sulla Chiesa papale come una condanna, uguale e contraria rispetto a quella che era stata fulminata contro di lui. Una scomunica che per lui, cittadino veneziano, non si trasformò in una condanna capitale: come quel rogo su cui morì a Campo de’ Fiori il non veneziano Giordano Bruno.

1 A. Santangelo Cordani, «La pura verità». Processi antiereticali e Inquisizione Romana tra Cinque e Seicento, Giuffré, Milano 2017, p. 244.

(18 maggio 2020)



MicroMega rimane a disposizione dei titolari di copyright che non fosse riuscita a raggiungere.