IoRestoaCasa e leggo un classico: ‘Spaccio de la bestia trionfante’ di Giordano Bruno presentato da Maria Mantello
Maria Mantello
Si tratta di una delle opere più importanti del filosofo che pagò con la morte sul rogo, a Campo de’ Fiori il 17 febbraio 1600, la tenace difesa della propria autonomia e libertà di pensiero. Il fastidito si definiva, e vivere da fastiditi significa opporsi alla passività, alla soggezione, all’ignavia. ‘Lo Spaccio’ è un continuo richiamo alla responsabilità individuale e sociale nella creazione delle condizioni di quella che oggi chiameremmo democrazia, impossibile senza la messa in discussione di dogmi e padroni.
Nella sua commedia Candelaio Giordano Bruno si definisce il fastidito. Un unico termine che meglio non potrebbe far comprendere il suo modo di porsi di fronte alla realtà.
Monogramma esistenziale della sua produzione filosofica, ne diviene formidabile forza rivoluzionaria, perché il filosofo non subisce il mondo: vive nel mondo e incide, per quello che deve e quindi può, nel mondo, col suo pensiero e le sue azioni. Una strada di coerenza, che per percorrerla richiede sforzo intellettivo e volontà.
Ecco allora che vivere da fastiditi significa opporsi alla passività, alla soggezione, all’ignavia. Significa avere la forza della propria libertà di pensare e autodeterminarsi, il coraggio della dignità di non piegare la testa, di essere ognuno il padrone della propria vita. Insomma, volare sulle ali della libertà, come metodo e fine per non essere «morti nella vita».
Un programma di filosofia militante, che nello Spaccio de la bestia trionfante (pubblicato a Londra nel 1584) trova l’approdo etico-politico-sociale per coinvolgere ogni essere umano al dovere della propria azione storica nel mondo, liberando potenzialità intellettuali, morali, civiche, ingabbiate nel giogo delle religioni della «salvezza» che dilazionano la «vera vita» in immaginifici regni dei cieli. È la grande polemica anticristiana di Giordano Bruno, che nello Spaccio è centrale.
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«Lasciate l’ombre et abbracciate il vero./ Non cangiate il presente col futuro,/ […] Cossì credendo alzarvi gite al fondo;/ Ed ai piacer togliendovi, a le pene/ Vi condannate; e con inganno eterno,/ Bramando il ciel vi state ne l’inferno».
Questo passo in versi dello Spaccio de la bestia trionfante, sintetizza molto bene la dissacrazione che Bruno opera della separazione tra un cielo superiore cui aspirare dopo la morte, e la terra inferiore dove l’umanità sarebbe chiamata, proprio dal Signore di quel cielo (e della terra), a sopportare con rassegnata accettazione le croci della sofferenza per accedervi.
Bruno denuncia l’inganno di questo preordinato eterno inconoscibile disegno divino, che crea fideistica acquiescenza per non cambiare l’inferno di questo mondo, la cui gestione demanda al Dio assoluto e alla sua corte dei miracoli.
Bruno disvela la dipendenza psicologica da quell’attesa del «miracolo», che inibisce ragione e volontà di un’umanità allevata alle narrazioni evangeliche di un Cristo, che «può caminar sopra l’onde del mare senza infossarsi, senza bagnarsi gli piedi»; che può «far fare capriole a’ zoppi, far vedere le talpe senza occhiali ed altre belle galanterie innumerabili».
Nella speranza del «miracolo», allora si arriva a credere ogni cosa: «che il bianco è nero, che l’intelletto umano, dove li par meglio vedere, è una cecità; e ciò che secondo la raggione pare eccellente, buono e ottimo, è vile, scelerato ed estremamente malo; […] e che la ignoranza è la più bella scienza del mondo, perché s’acquista senza fatica e non rende l’animo affetto da malinconia».
Nello Spaccio, Bruno cassa definitivamente quell’orizzonte celeste in cui sguazzano «gli falsi pensieri che la stolta Fede ed orba credulitate partorisce, nutrisce ed allieva». E lo fa nell’unità della Materia-Natura che non dipende da altri che da se stessa. Essere totale ed essenza di ogni più piccola cosa («minuzzaria»).
Va ben oltre la rivoluzione copernicana, Giordano Bruno, con la sua rivoluzionaria ontologia dell’infinito divenire della «Materia che è vera sostanza de le cose, eterna, ingenerabile, incorrottibile»; perché «essenza e natura sono uno» nelle «innumerabili vicissitudini e specie di moto e mutazione»; perché «non è in un punto, o atomo, adnullabile» nella «feconda natura, madre e conservatrice dell’universo».
Di questa materia anima-mundi perfetta (divina), che all’infinito partorisce le sue forme, ogni essere umano è prodotto e insieme intelligente agente storico-biologico, che interviene nella realtà delle cose «formando o possendo formare altre nature, altri corsi, altri ordini con l’ingegno, […] occupato ne l’azione per le mani, e contemplazione per l’intelletto; de maniera che non contemple senza azione e non opre senza contemplazione».
Nell’infinita materia, infinite divengono anche le possibilità di conoscere, scegliere, agire. Ciascuno è chiamato a progettare, strutturare se stesso e la propria storia nel tempo storico, perché anch’egli parte integrante del naturale infinito divenire dell’unica natura. E quindi ha finalmente spazio per la sua doverosa e consapevole azione nel mondo.
Tolto il punto fisso del geocentricismo, nell’universo infinito non c’è più un centro assoluto: il centro dell’universo è il punto da dove ognuno guarda. E l’individuo si affaccia sul mondo nel moltiplicarsi delle visualità: sul mondo e nel mondo. Non c’è più la conoscenza programmata nella rivelazione col suo pensiero e la sua morale a una dimensione.
Bruno azzera finalismo, creazionismo e gli ideologismi della salvezza costruiti su un cielo superiore e una terra inferiore. Cielo e terra sono definitivamente ricongiunti nell’infinito bruniano della natura-dio («natura est deus in rebus»).
La trascendenza è cassata. Il mondo concreto è il vero. Quello celeste un’ombra che dilegua.
Nel materialismo bruniano si intrecciano cosmologia, ontologia, conoscenza, antropologia, etica, politica, rivoluzionandone ogni fissità di schemi ideologici e apparati di potere.
La terra gira e con essa tutte le cose che in terra stanno! Ne nasce quell’itinerario di liberazione dalla condizione di soggezione e rassegnazione individuale e sociale, che percorre e raccorda nella loro unitarietà i suoi antiaccademici Dialoghi, dove nella plasticità dei termini e dei registri anche il linguaggio si fa volutamente carne.
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Lo Spaccio è testo chiave nell’approdo etico-politico-sociale che Bruno dà alla sua filosofia della praxis. La riappacificazione di ogni essere umano con la propria corporale umanità, qui diventa progettualità di religione civile, in «questa vita presente e certa». Dove ognuno, se capace di comprendere come stanno le cose, di distinguere il vero dal falso, assume fiducia nella sua autonomia d’azione, fino a diventare soggetto e oggetto di quel civile legame sociale, dove «nessuna legge che non è ordinata alla prattica del convitto umano deve essere accettata», «dove la quiete de la vita sia fortificata e posta in alto […] dove non si dee temer d’altro che d’essere spogliato dell’umana perfezione e giustizia».
In questa prospettiva, Bruno chiarisce molto bene come lo sviluppo delle facoltà intellettive analitico-critiche debba essere generalizzato, per aprire il varco a una altrettanto generalizzata consapevolezza contro la rassegnazione alle ingiustizie del mondo, tanto da provarne «fastidio» condiviso e trasformarlo in impegno comune per rimuoverle.
In queste interconnessioni, Bruno articola il suo Spaccio de la bestia trionfante per la cos
truzione umana del Regno umano di giustizia e libertà.
L’orizzonte nuovo è quello della solidale Alleanza umana. Vincolo umano, patto sociale che sta sopra la testa di tutti: «regna sopra governatori, ed è presidente sopra tutti gli dei». Un passaggio di straordinaria modernità, che oggi nel principio di laicità è fondamento delle costituzioni liberal-democratiche.
Bruno prospetta una radicale Renovatio mundi, oltre la decadenza che il cristianesimo ha prodotto con quel «sia fatta la volontà di Dio». Per cui, nella «città terrena» non si può aspirare ad altro che muoversi nel circolo concluso dell’obbedienza alla «città di Dio», sigillata nei precetti catechistici.
La Renovatio parte dal singolo: «Se vogliamo mutar stato, cambiamo costumi. […] Purghiamo l’interiore affetto: atteso che dalla informazione di questo mondo interno, non sarà difficile di far progresso alla riformazione di questo sensibile ed esterno».
Perché questo avvenga, occorre che ognuno si svegli dalla panacea giustificatoria, che «la giustizia non è di questo mondo».
Il «lume intellettuale» va scoperto in se stessi e irradiato. Il filosofo deve incoraggiarne il processo col «preponere certi preludi a similitudine de musici»; «delineamenti […], come gli pittori»; «certe fila, come le tessitrici», «fondamenti, come i grandi edificatori».
Di qui il grande palcoscenico allegorico che Bruno allestisce nello Spaccio, dove «il pantaformo […] è una bestia multiforme; la pare una, ed è una; ma non è uniforme, come è proprio de vizii de aver molte forme». La bestia dei vizi umani va cacciata via (spacciata) per fare spazio alle virtù umane: idee-azioni creatrici, con cui erodere sempre maggiori spazi alla prepotenza, alla protervia, al sopruso.
Il teatro della scena bruniana è quello di un immaginario convegno presieduto da Giove, «che rappresenta», Bruno avverte fin dall’inizio, «ciascuno di noi». E poiché «per Giove governatore è significato il lume intellettuale che dispensa e governa in esso», ognuno di noi è il pensiero e l’azione del cambiamento; nella responsabilità di quanto facciamo o non facciamo: «quel che più ne combatte e più ne oltraggia […] è quand’uomo poteo [può] molto, e nulla fece».
Bruno secolarizza le religioni. Nel suo infinito divenire niente è eterno, neppure gli dei: scalzati dai loro troni dalla conquistata autonomia umana di essere legislatori a se stessi.
Nel grande teatro della vita siamo noi i registi per l’affermazione di libertà e giustizia, che non sono un dono, ma dura conquista umana che chiede impegno, sollecitudine, studio, fatica.
Lo Spaccio de la bestia trionfante è allora una vera e propria dichiarazione di guerra totale all’accidia: pigrizia mentale e morale. Quell’ozio (ocio) per non cambiare le cose del mondo, di cui i pedanti sono la cinghia di trasmissione. Grottesche maschere del potere di controllo sociale che reiterano per stupidità, o vendendosi a esso. Ridicolizzati da Bruno di persona, e nei suoi scritti già nei nomi (Manfurio, Prudenzio, Frulla, Polimnio, Coribante…), nello Spaccio non hanno un nome personale. Non sono personaggi con cui vale ancora la pena d’interloquire. Sono il blocco unitario di tutti i livelli di precettistica da spacciare via: «predicanti, sanguisughe, disutili, montainbanco, ciarlatani, bagattellieri, barattoni, istrioni, papagalli» edificatori e propagatori di catechismi.
Ecco allora che la legge non è quella dei libri sacri, ma delle leggi umane.
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Bruno spezza la coincidenza tra peccato e reato. Lo scopo delle leggi è quello di «faurire il consorzio umano, ed avertire massimamente que’ vizii che apportano noia a quello; e però li peccati interiori solamente denno esser giudicati peccati […] gli errori, in comparazione, massimi sieno quelli che sono in pregiudicio della repubblica».
Il peccato riguarda l’interiorità del singolo. Altro è stabilire socialmente cosa sia errore. E poiché lo scopo della legge è quello di favorire la pacifica convivenza umana, le leggi umane non possono essere il braccio armato del precetto. (La modernità di Bruno, come stiamo vedendo, va ben oltre anche il nostro presente, dove credevamo – almeno nel nostro Occidente – che tutto questo fosse archiviato…).
Nel nuovo ordinamento sociale, la legge è chiamata a «ordinare ed approvare massimamente quello che consiste nell’azioni morali degli uomini a riguardo degli altri uomini».
La sfera personale è salva e nessuno può imporre all’altro la propria univoca visione morale nella pretesa che essa risieda sulle ginocchia di un dio. La convivenza civile ne sarebbe minata nel diritto di ognuno alla propria autonomia e autodeterminazione. Un diritto reciproco affinché la libertà non si trasformi in sopruso. Affinché quel manifesto cantato nelle corti del «s’ei piace, ei lice», non continui a far sì – scrive Bruno – che pochi «crapulano, quelli altri si muoiono di fame».
Contro tutto questo, il regime politico non può essere l’assolutismo, ma quello repubblicano «acciò che il carrico delle administrazioni contrapesi alla sufficienza e capacità de gli suggetti; e non si distribuiscano le cure con bilanciar gli gradi del sangue, de la nobiltade, de’ titoli de ricchezza; ma de le virtudi che parturiscono gli frutti de le imprese».
Nella Repubblica, le laicizzate Verità Giustizia Legge sono la nuova trinità, affinché si «faccia che gli potenti per la loro preeminenza e forza non sieno sicuri; […] che gli più potenti sieno più potentemente compressi» e «gli deboli non sieno oppressi da gli più forti, sieno deposti gli tiranni, ordinati e confirmati gli giusti governatori», così che «nessuno sia preposto in podestà, che medesimo non sia superiore de meriti, per virtute e ingegno in cui prevaglia».
Nella Repubblica la giustizia e le condizioni giuridiche della giustizia sono nelle nostre mani. E poiché «due sono le mani per le quali è potente a legare ogni legge, l’una è della giustizia, l’altra è della possibilità; […] quantunque molte cose sono possibili che non son giuste, niente però è giusto che non sia possibile».
Il criterio allora è quello dell’uguaglianza, che non è appiattimento, ma creazione di condizioni di pari opportunità: «non è possibile che tutti abbiano una sorte; ma è possibile ch’a tutti sia ugualmente offerta».
E formidabile, nello Spaccio, nella capacità affabulatoria di Bruno, è la grande metafora della Fortuna col suo lungo discorso, per rilevare che non c’è differenza all’atto della nascita. Ingiustizia e ineguaglianza sono costruzione umana.
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«Io sono una giustizia che non ho da distinguere, non ho da far differenze; […] cossì ho da ponere tutti in certa equalità, stimar tutti parimente […] acciò che in questo modo io vegna a trattar tutti equalmente e senza differenza alcuna […] io getto tutti nella medesima urna della mutazione e moto, sono equale a tutti, e non remiro alcuno particolare più che l’altro. […] Da voi, da voi, dico, proviene ogni inequalità, ogni iniquitade […] quando aviene che un poltrone o forfante monta ad esser principe o ricco, non è per colpa mia, ma per inequità di voi altri che, per esser scarsi del lume e splendor vostro, non lo sforfantaste o spoltronaste prima. O non lo spoltroniste o sforfantaste al presente, o almeno appresso […] voi, che fate le distinzioni con gli occhi mirando e comunicandovi a chi più ed a chi meno, a chi troppo ed a chi niente, siete venuti a lasciar costui determinatamente forfante e poltrone».
Lo Spaccio de la Bestia trionfante è un continuo richiamo alla responsabilità individuale e sociale nella creazione delle condizioni di quella che oggi chiamiamo democrazia applicata nell’affermazione della dignità individuale e sociale. Impossibile senza la liberazione da dogmi e padroni, per coltivare quel «campo del Convitto, Concordia, Communione» frutto della responsabile e consapevole intersoggettività dell’azione umana nella storia.
È questo il filo conduttore che si dipana all’interno delle affascinanti stratificazioni allegoriche che si ricompongono nella nostra mente. E che ci fanno dire che la Renovatio mundi prospettata da Bruno è ancora e più che mai la nostra storia.
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