Spagna, dalla destra xenofoba alla Chiesa: ecco i nemici del governo Sánchez/Iglesias

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Dopo Portogallo e Finlandia, anche la Spagna svolta a sinistra con un programma di governo progressista e ambizioso. Seppur i numeri del neonato governo Psoe/Unidas Podemos siano veramente risicati, decisiva l’astensione degli indipendentisti. Ma le opposizioni sono sul piede di guerra e il nuovo esecutivo, oltre alla destra, ha contro anche l’establishment, la Confindustria, la Chiesa e i media, incluso El País. Mentre l’Europa sta alla finestra. Una strada tutta in salita.

di Steven Forti e Giacomo Russo Spena

Fumata bianca. Dopo Portogallo e Finlandia, anche la Spagna svolta a sinistra. Seppur i numeri del neonato governo Psoe/Unidas Podemos siano veramente risicati, i 167 sì espressi nel Congreso di Madrid sono stati sufficienti per permettere la nascita del primo esecutivo di coalizione della storia spagnola dai tempi della Guerra Civile. Il primo governo, per di più, in cui, dalla fine della dittatura franchista, siedono anche ministri alla sinistra dei socialisti. Attenzione: non si tratta di una semplice alternanza nella cornice delle dinamiche del bipartitismo – destra/sinistra –, ma di un vero e proprio cambio di paradigma che, se sarà capace di durare, può realmente cambiare la Spagna, inabissata da ormai un decennio in una profonda crisi politica, istituzionale e territoriale.

Nella prima votazione, tenutasi domenica, Pedro Sánchez non aveva ottenuto la maggioranza assoluta: si è dovuto attendere oggi, quando basta la maggioranza semplice e non assoluta, perché la lunga impasse iberica – dal 2015 si sono tenute ben quattro elezioni politiche! – si chiudesse con la formazione di un governo progressista. Un esecutivo sulla cui riuscita si è temuto fino all’ultimo per le volgari pressioni di transfughismo nel peggior stile berlusconiano espresse pubblicamente dalla destra.

Il nuovo governo è stato reso possibile dai voti a favore del Psoe, Unidas Podemos, Más País – la piattaforma elettorale dell’ex numero due di Podemos, Íñigo Errejón –, il Partido Nacionalista Vasco (Pnv), i nazionalisti galiziani del Bng, i regionalisti valenziani di Compromís, quelli di Nueva Canarias e il deputato della lista elettorale ¡Teruel Existe!. Ma che senza le diciotto astensioni degli indipendentisti catalani di Esquerra Republicana de Catalunya (Erc) e quelli baschi di EH Bildu non avrebbe visto la luce. I no, infatti, sono stati 165: quelli delle tre destre spagnole (Pp, Vox e Ciudadanos), degli indipendentisti catalani di destra di Junts per Catalunya (JxCat, la formazione dell’ex presidente Carles Puigdemont) e della sinistra anticapitalista della Candidatura d’Unitat Popular (Cup), oltre al deputato dei regionalisti della Cantabria e alla deputata dei conservatori di Coalición Canaria, che ha cambiato il suo voto all’ultimo contro l’accordo raggiunto dall’assise del suo partito che si era espresso per l’astensione.

La politica crea strane alleanze o, almeno, peculiari sinergie: contro la formazione di un governo progressista che parla di dialogo con Barcellona e vuole risolvere politicamente la crisi degli ultimi anni hanno votato, ovviamente, le destre che chiedono il commissariamento della Catalogna, ma anche i settori intransigenti dell’indipendentismo catalano. Ossia, tutti coloro i quali vivono del e per il conflitto.

L’alleanza tra Pedro Sánchez e Pablo Iglesias – i quali saranno rispettivamente premier e vicepremier agli affari sociali – poteva veder la luce già mesi fa – in realtà i numeri per questa maggioranza vi erano già nel dicembre 2015 – se il leader socialista non avesse mandato all’aria le trattative facendo precipitare il paese ad un ennesimo voto, convinto di ottenere una maggioranza più solida. Così non è stato. Anzi: il voto dello scorso 10 novembre ha penalizzato il Psoe, permesso all’estrema destra di Vox di raddoppiare i propri consensi e, bene o male, riconfermato la stessa correlazione di forze tra sinistre e destre. Ciò ha spinto Sánchez a ritornare sui propri passi accettando un accordo di governo progressista con la sinistra radicale di Unidas Podemos che Iglesias chiedeva da tempo. Senza considerare le importanti aperture agli indipendentisti, grazie a una serie di riunioni con Erc, il cui leader, Oriol Junqueras, è bene ricordarlo, è stato condannato lo scorso ottobre a 13 anni di reclusione per i fatti dell’autunno del 2017.

Ben più che nel giugno del 2018, quando Sánchez divenne presidente grazie a una mozione di sfiducia, il segretario socialista ha espresso una chiara volontà di dialogare senza se e senza ma con Barcellona, usando la politica e non i tribunali, come fatto dal precedente esecutivo conservatore di Mariano Rajoy, per risolvere il contenzioso catalano: si aprirà entro due settimane un tavolo di lavoro tra il governo centrale e quello regionale nel quale si potrà discutere di tutto e il cui accordo finale sarà sottoposto a una consultazione popolare. Non si tratta, ovviamente, di un referendum di autodeterminazione, ma le destre non hanno perso l’occasione per tacciare Sánchez di traditore che vende la patria ai separatisti.

Ha dovuto dunque sbatterci la testa, il premier socialista, per imparare la lezione ma alla fine si è giunti ad un programma che parla di diritto alla casa (stop all’incremento dei prezzi degli affitti), aumento del salario minimo (fino ai 1.200 euro), sistema fiscale redistributivo, abrogazione della “legge bavaglio”, tassazione per i grandi capitali, maggiore finanziamento per la scuola (asili nido totalmente gratuiti) e la sanità pubblica (fino al 7% del Pil). Nello specifico, tra i vari punti, si sancisce l’abrogazione (probabilmente parziale) della riforma del lavoro del 2012 – provvedimento che ha generato enorme precarietà – e l’introduzione del reddito minimo, oltre ad un’approvazione della legge del cambiamento climatico e della transizione energetica. L’obiettivo del governo è di raggiungere nel 2050 una produzione elettrica al 100% rinnovabile e tra l’85% e il 95% entro il 2040. E poi ancora un piano per garantire l’uguaglianza retributiva tra donne e uomini, ponendo fine al divario salariale ed equiparando per legge i permessi di paternità e maternità, rendendoli uguali e non trasferibili. Infine, da segnalare, l’aumento delle borse di studio e la riduzione delle tasse universitarie ai livelli pre-crisi. Nel discorso durante la sessione di investitura Pablo Iglesias ha utilizzato la parola "patria" come difesa dei servizi pubblici contro la privatizzazione e ha menzionato gli Indignados e i movimenti sociali come "i veri architetti di questo cambiamento".

Un intervento molto duro contro chi sta osteggiando la nascita di questo governo: “E voi disprezzate l’articolo più patriottico della Costituzione spagnola: il 128 secondo cui tutta la ricchezza del paese deve essere subordinata all’interesse generale”, sono state le sue parole. “Di questo si occuperà la nuova legislatura: riparare ai vostri tradimenti alla Patria”. Dopo aver ringraziato i socialisti di Sánchez – in aula i due si sono lasciati ad un caloroso abbraccio – Iglesias ha ammonito che “la giustizia sociale è il miglior vaccino contro l’estrema destra”. Che la direzione presa dal neonato governo sia quella giusta lo si può capire dalle reazioni sconclusionate e violente degli oppositori. Il leader del Pp, Pablo Casado, ha apostrofato questo governo di “illegittimo” e Sánchez di “traditore”, “fellone&
rdquo;, “presidente fake” e “immorale”, arrivando alla minaccia di denunciarlo presso i tribunali per il dialogo con Barcellona.

Sulla stessa scia si è posto Santiago Abascal, il leader di Vox, che ha rincarato la dose, parlando di “frode” del nuovo esecutivo che sarebbe niente meno che la continuazione del “golpe” dell’1 ottobre, in riferimento al referendum d’autodeterminazione catalano del 2017. Nel suo intervento, così come in quelli degli altri leader della destra spagnola, non sono mancati i continui riferimenti a ETA, Cuba e Venezuela, di cui l’esecutivo Psoe/Unidas Podemos sarebbe espressione. Tanto che su twitter l’eurodeputato di Vox, Hermann Tertsch, ha praticamente chiesto l’intervento delle Forze Armate per bloccare “un ovvio processo golpista” in riferimento alla formazione del nuovo governo. Non è stato l’unico: sulle reti sociali la destra si è tolta la maschera democratica, appoggiata anche dalla stampa conservatrice madrilena. Saranno mesi difficili, comunque, i prossimi per il duo Sánchez-Iglesias: non solo per la fragilità della nuova maggioranza, che dovrà lottare ogni giorno in Parlamento per far approvare leggi e bilancio, ma anche perché “il rumore sarà assordante” come ha notato il vicedirettore de La Vanguardia Enric Juliana. Le destre polarizzeranno ancora di più il paese, tra show alla Camera, denunce ai tribunali e manifestazioni di piazza contro i “traditori della patria”.

A parte le critiche, alquanto ovvie, della peggior destra da registrare sono le affermazioni della socialista Susana Díaz, ovvero di colei che, appoggiata dalla vecchia guardia del partito e dai baroni regionali, si oppose a Pedro Sánchez portando alla sua defenestrazione nell’ottobre del 2016. Díaz ha ben rappresentato quei socialisti che guardano (ideologicamente) con interesse al blairismo e hanno abbracciato i dogmi dell’austerity, oltre ad una chiusura netta a qualunque tipo di apertura agli indipendentisti. Insomma, i renziani nostrani. Proprio lei, una volta battuta nelle primarie da Sánchez, persa la presidenza dell’Andalusia e vista la volontà socialista di riscoprire le ragioni progressiste, ha votato a favore dell’accordo di governo con Unidas Podemos, dichiarando che questo esecutivo è l’“unica alternativa progressista e di sinistra” che “apre una porta di speranza” contro l’ultradestra. Per ora, dunque, Sánchez, riportando il Psoe al Palacio de la Moncloa ha ricompattato il partito e zittito le voci critiche, ma queste potrebbero ricomparire alla prima difficoltà.

Anche perché l’establishment mediatico “progressista”, rappresentato da El País, ha tuonato contro Sánchez, come già fece nel 2016 quando il leader socialista non voleva facilitare con un’astensione un nuovo esecutivo di Rajoy. Secondo Juan Luis Cebrián, fondatore e direttore del quotidiano fino al 1988 e poi presidente del Grupo PRISA fino al 2018, l’accordo Psoe-Erc è “un’irresponsabilità dal punto di vista istituzionale, storico e democratico”. Parole, scritte alla vigilia del voto di investitura, che pesano come macigni. Soprattutto perché non si tratta di un’opinione qualsiasi: Cebrián è stato durante 40 anni il più influente giornalista spagnolo, vicino alla monarchia e legato all’ex premier Felipe González che non ha mai visto di buon grado un’alleanza con Unidas Podemos. L’opzione caldeggiata continuamente da questi settori era quella di un esecutivo centrista, macroniano, grazie all’alleanza tra il Psoe e Ciudadanos o, dopo l’affossamento elettorale della formazione di Albert Rivera, un governo di larghe intese tra socialisti e popolari.

Ma i nemici del nuovo esecutivo non sono solo le destre, gli intransigenti indipendentisti rappresentanti da Puigdemont e i settori macroniani dell’establishment mediatico. C’è ovviamente anche la Confindustria spagnola che ha reagito con “profonda preoccupazione” all’accordo di governo Psoe/Unidas Podemos considerando che le misure proposte nel campo del lavoro e dell’economia sono “più vicine al populismo che all’ortodossia economica” e “avranno un impatto molto negativo” sull’economia. E non manca, ça va sans dire, pure la Chiesa cattolica che sta invitando a “pregare per il futuro della Spagna” proprio come ai vecchi tempi, mentre il presidente della Conferenza Episcopale spagnola, Ricardo Blázquez, ha espresso una profonda “inquietudine”. Per quanto non vi sia alcun riferimento ad una revisione degli accordi tra lo Stato e la Chiesa del 1979, nel programma di governo si parla di una legge sull’eutanasia e del ridimensionamento dell’insegnamento della religione nelle scuole, con il voto in religione che non farebbe più media. Apriti cielo.

Infine c’è la questione Europa. Ricordiamo che il precedente governo Sánchez, caduto lo scorso febbraio per mano degli indipendentisti a causa della mancata approvazione di un bilancio fortemente progressista, era già stato avvisato da Bruxelles di non sforare i parametri prefissati. No a politiche keynesiane, almeno a quelle di più largo respiro. Il timore è che presto possa nascere un nuovo braccio di ferro anche se al ministero dell’Economia rimarrà Nadia Calviño che rafforzerà il suo peso, occupando anche la vicepresidenza agli affari economici. Con una lunga carriera alle spalle nelle istituzioni comunitarie, tra cui la direzione generale del Bilancio della Commissione Europea dal 2014 al 2018, Calviño è la garanzia di Sánchez per mantenere un dialogo fluido e ottenere un occhio di riguardo da parte di Bruxelles. Per questo nel preaccordo di governo, presentato 48 ore dopo le elezioni di novembre, il leader socialista volle includere un decimo punto in cui si considerava “essenziale” il controllo della spesa pubblica.

In Europa si afferma dunque un nuovo governo progressista, con un programma ambizioso, e ciò è un bene, ma la strada sarà da subito in salita sia per i numeri risicati sia per la dura campagna scatenata dalla “coalizione dell’Apocalisse”, termine coniato da Iglesis per definire l’opposizione in Parlamento. I nemici sono tanti così come le grane, a partire dall’irrisolta questione catalana. A Sánchez ed Iglesias il compito di sorprenderci.

(7 gennaio 2020)





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