Spagna, resisterà il governo Sánchez-Iglesias alla tormenta del Covid?
Steven Forti
Da metà luglio la Spagna ha visto aumentare esponenzialmente i contagi, convertendosi ormai nel paese europeo con i peggiori dati insieme alla Francia. In totale, secondo il ministero della Salute, sono oltre 600.000 le persone contagiate e più di 30.500 i decessi dall’inizio dell’emergenza. A differenza di luglio e agosto, ciò che preoccupa è soprattutto l’incremento della mortalità: nella seconda settimana di settembre si sono registrati 267 contagi per 100.000 abitanti – con picchi superiori a 1.000 in alcuni quartieri di Madrid –, i decessi sono balzati a quasi 500 e l’occupazione dei posti letti in terapia intensiva da parte di pazienti Covid-19 è arrivata al 12,4%, con punte superiori al 50% nelle regioni di Murcia, La Rioja e alcuni ospedali di Madrid. Tra la ripresa delle scuole e l’arrivo dell’influenza stagionale, il timore è quello di rivivere la situazione della primavera quando, soprattutto nella capitale e in Catalogna, il sistema sanitario è collassato.
La Spagna era uscita dallo stato d’emergenza a fine giugno, dopo una lenta desescalada in quattro fasi. In linea generale, il processo è stato gestito abbastanza bene, nonostante le tensioni tra il governo centrale e alcune regioni insofferenti per la centralizzazione delle decisioni. I problemi si sono però presentati subito dopo. Già a inizio luglio vi sono stati nuovi focolai in Catalogna e Aragona e a metà mese nell’area metropolitana di Barcellona si è dovuta ammettere l’incapacità di tracciare l’espansione del virus. Ora è Madrid l’epicentro dei contagi con una situazione fuori controllo che ha portato a nuove restrizioni creando delle specie di “zone rosse” in alcuni quartieri della capitale. Quali le ragioni di quest’aumento dei contagi? Sicuramente un certo rilassamento in una parte della popolazione, soprattutto i giovani. Ma anche la pessima gestione e l’impreparazione di diverse regioni che, dopo la fine dello stato d’emergenza, hanno riassunto le competenze della sanità. Si stanno pagando poi i danni di oltre dieci anni di politiche neoliberiste e tagli alla sanità che hanno colpito soprattutto l’assistenza sanitaria sul territorio. Non è un caso che proprio a Madrid e in Catalogna si siano avuti i peggiori dati sanitari: entrambi i governi regionali, in mano alla destra e agli indipendentisti, hanno approfittato fin dal primo momento dell’emergenza per attaccare il governo e fare elettoralismo sulla pelle dei cittadini.
Per ora non si prevede un nuovo lock-down a livello nazionale, anche se le restrizioni sono andate progressivamente in aumento: dalla proibizione delle riunioni di più di dieci persone alla chiusura delle discoteche, dalla richiesta di limitare qualunque spostamento non necessario all’uso della mascherina che, da inizio luglio, è obbligatorio sempre, anche quando si rispettano i due metri di distanza all’aperto. Ma bloccare di nuovo l’economia è impensabile, tenendo poi conto dei dati esistenti e delle previsioni future. Perché in quel caso l’esplosione di una vera e propria “bomba sociale” non sarebbe un semplice spauracchio, ma un rischio reale.
Un’economia in ginocchio
Con solo due mesi di rodaggio, il governo di coalizione, insediatosi a inizio gennaio, ha operato abbastanza bene durante l’emergenza, nonostante le dure critiche del Partido Popular (PP) e le accuse dell’ultradestra di Vox che taccia senza pudore il premier Pedro Sánchez di “assassino” e l’esecutivo di “illegittimo”. Fin da metà marzo si è creato uno “scudo sociale” che vale il 4% del PIL del paese, in linea con i principali paesi dell’UE. Tra le misure più significative si è approvato anche un reddito minimo di base – 850.000 famiglie a rischio povertà riceveranno tra 460 e 1.000 euro al mese – che però ha trovato resistenze burocratiche: a metà agosto lo avevano ottenuto appena l’1% degli aventi diritto. La disoccupazione, superiore al 13% prima dell’emergenza, è aumentata di 630.000 unità, ma la cassa integrazione ha permesso a molti lavoratori di percepire un salario nei mesi più duri della crisi.
I problemi maggiori, però, cominciano adesso: fino a quando si prorogherà la cassa integrazione, percepita ancora oggi da circa 800.000 persone? Solo fino a fine anno? Anche perché la grande incognita è quante imprese chiuderanno nei prossimi mesi. I dati economici del secondo semestre del 2020 sono stati estremamente preoccupanti per la Spagna, il cui PIL è crollato del 18,5%, il dato peggiore nell’UE. Secondo stime della Confcommercio, a fine anno potrebbero chiudere il 30% dei negozi. Per di più, il turismo, settore chiave dell’economia iberica, è crollato di oltre l’80% in comparazione con il 2019: la flebile speranza di salvare la stagione turistica si è persa con l’aumento dei contagi evidente già a metà luglio e con decisioni, come quella del Regno Unito, di imporre la quarantena per chi rientrasse dal paese iberico. Rispetto a giugno, dunque, ora le previsioni sono ancora più nere: secondo il Banco de España, a fine anno il PIL potrebbe segnare -12,6% (nel 2009 si era perso “solo” il 3,8%), il deficit superare il -12% e il debito pubblico schizzare a oltre il 120% (era al 97% a dicembre). Nel 2021 la disoccupazione potrebbe poi arrivare al 22%.
L’unica “buona” notizia sono i fondi europei: alla Spagna sono stati assegnati 140 miliardi di euro, oltre la metà dei quali in sussidi. A breve dovrebbero arrivare anche i 21 miliardi del programma SURE per finanziare la cassa integrazione. Il MES, richiesto per il momento solo da Cipro, non è tema di dibattito politico come in Italia, ma sembra che il governo non sia intenzionato a chiederlo. In ogni caso, tra SURE e Recovery Fund si tratta di un’iniezione di denaro che potrebbe fare la differenza, se viene ben speso. Il problema è che fino ad ora, al di là di ribadire le linee guida della Commissione Europea (digitalizzazione, transizione energetica, salute, infrastrutture, istruzione), non si conosce nessun progetto concreto. Sulla carta le possibilità che Next Generation EU offre alla Spagna sono notevoli, a partire dalla diversificazione dell’economia in un paese troppo dipendente dal turismo – vale il 13% del PIL del paese – e dal mattone. Non si tratta però, nonostante la volontà del governo, di una sfida semplice. E per di più l’approvazione della legge di bilancio pende da un filo.
Lo scoglio della legge di bilancio
Sánchez governa infatti in minoranza e, a causa della polarizzazione politica e della frammentazione parlamentare, per l’esecutivo non è facile avere i numeri nel Congreso di Madrid per approvare una finanziaria quanto mai necessaria. Oltre ai voti dati praticamente per sicuri di diversi partiti regionalisti e dei nazionalisti baschi, al PSOE e Unidas Podemos serve come minimo anche l’astensione degli indipendentisti catalani. Il che è però piuttosto difficile visto che in Catalogna si vive già in campagna elettorale con un possibile voto anticipato alle porte: nei prossimi giorni il presidente regionale Quim Torra – membro di Junts per Catalunya (JxCAT), il partito dell’ex presidente Carles Puigdemont, fuggito in Belgio a fine 2017 – sarà molto probabilmente inabilitato dal Tribunale Supremo (TS) spagnolo per un reato di disobbedienza. Durante il p
eriodo elettorale dell’aprile 2019 Torra si rifiutò di ottemperare all’ordine della commissione elettorale spagnola di rimuovere dal palazzo della Generalitat dei manifesti che invocavano la libertà dei politici indipendentisti in carcere. Difficilmente il TS modificherà la sentenza stabilita dal Tribunal Superior de Justicia de Cataluña che aveva già condannato Torra il dicembre scorso. Per Esquerra Republicana de Catalunya (ERC), socio di governo di JxCAT nella regione, non sarà facile smarcarsi dalle posizioni oltranziste di Puigdemont il cui nuovo lemma è lo “scontro intelligente” con il governo spagnolo. Appoggiare la legge di bilancio, o semplicemente astenersi, sarebbe considerato una sorta di tradimento alla causa separatista. Ed ERC teme di perdere voti a favore di JxCAT.
Tutto è ancora possibile, certo, ma il nodo catalano continua a destabilizzare la Spagna. Appena insediatosi, il governo Sánchez aveva riunito un tavolo negoziale per ricucire la frattura con Barcellona. Ma dopo la prima riunione la pandemia ha bloccato tutto e ora i timidi tentativi di riunirsi di nuovo, sostenuti soprattutto dal leader di Unidas Podemos e vicepresidente del governo Pablo Iglesias, si scontrano con lo scoglio dell’inabilitazione di Torra, la strategia di Puigdemont di posticipare il più possibile le elezioni regionali per logorare ERC e la forte divisione dell’indipendentismo che ha portato la Catalogna in una vera e propria situazione di caos con un governo che si preoccupa solo di fare propaganda.
Sánchez ha aperto dunque a Ciudadanos per cercare di garantirsi l’appoggio dei dieci deputati della formazione guidata da Inés Arrimadas che vorrebbe porsi come l’ago della bilancia in parlamento, smarcandosi dall’alleanza stretta con il PP e l’ultradestra di Vox. Il partito di Abascal, in cerca di maggiore visibilità mediatica, ha già annunciato che presenterà una mozione di censura in autunno: sicuramente non prospererà, però polarizzerà ancora di più piazza e palazzo. E metterà in difficoltà il PP che non sa decidersi se stringere ancora di più l’alleanza con gli amici di Trump e Salvini – grazie ai cui voti governa in diverse regioni, come Madrid, l’Andalusia e Murcia – o se guardare, anche solo timidamente, al centro. Insomma, se essere Berlusconi o Merkel. Fino ad ora il partito guidato da Pablo Casado ha optato per la prima opzione.
Le cloache del PP e la crisi della monarchia
Per di più i popolari stanno pagando la crisi di reputazione della presidentessa regionale di Madrid, Isabel Díaz Ayuso, per la pessima gestione della crisi sanitaria e le conseguenze di un nuovo grave scandalo, l’operazione Kitchen. Secondo le indagini, negli anni di Rajoy, il governo del PP creò una sorta di “polizia politica” che coinvolge direttamente l’ex ministro dell’Interno Jorge Fernández Díaz, indagato per aver fatto spiare con fondi pubblici e aver sottratto documenti all’ex tesoriere del suo stesso partito, Luis Bárcenas. L’indagine potrebbe dimostrare non solo come il PP abbia fatto sparire illegalmente materiali che provavano la corruzione endemica all’interno del partito, ma anche le cosiddette “cloache” del ministero dell’Interno, ossia la costituzione di un équipe di poliziotti che attaccava gli avversari politici del governo – soprattutto Podemos e gli indipendentisti catalani – creando dossier falsi passati sottobanco alla stampa amica con l’aiuto dell’ex commissario di polizia Villarejo. in carcere da fine 2017.
Alla strenua ricerca di maggiore stabilità, Sánchez cerca dunque di mettere pressione a Ciudadanos – membro di Renew Europe – perché si sganci da PP e Vox. I risvolti potrebbero essere notevoli, inclusa una mozione di censura nella regione di Madrid con un cambio di alleanze per togliere ai popolari la presidenza della sua principale roccaforte. Però, l’apertura a Ciudadanos accentuerebbe le divergenze tra i socialisti e Unidas Podemos con Pablo Iglesias che teme un giro al centro delle politiche del governo. Gli industriali e anche mass media progressisti come il quotidiano El País fanno il tifo da sempre per una soluzione centrista. In Europa poi una soluzione di questo tipo sarebbe gradita, inserendosi bene negli equilibri stabiliti con l’elezione di Von der Leyen.
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A tutto ciò, aggiungasi la crisi della monarchia con la “fuga” del re emerito Juan Carlos I – che si trova negli Emirati Arabi – dopo l’apertura di indagini per un presunto caso di corruzione. 100 milioni di euro ricevuti dall’Arabia Saudita e depositati su un conto svizzero, la maggior parte dei quali sarebbero stati regalati alla sua ex amante, l’imprenditrice tedesca Corinna Larsen. La gestione della vicenda da parte della corona è stata piuttosto opaca e la reputazione della monarchia sta toccando i minimi storici, soprattutto in Catalogna, nei Paesi Baschi e in Galizia. A sinistra si vede come una possibilità per riportare al centro del dibattito la causa repubblicana e un futuro referendum sulla forma di governo. Il rischio reale, però, è un ulteriore aumento delle tensioni tra Unidas Podemos e un PSOE la cui dirigenza è uno dei sostegni chiave della monarchia. E, soprattutto, il pericolo è un arroccamento della corona con un Felipe VI spostato sempre più a destra.
La pandemia ha accelerato e approfondito la crisi multi-livello che vive la Spagna: il sistema nato con la transizione alla democrazia alla fine degli anni Settanta, di cui la monarchia parlamentare è la chiave di volta, soffre le maggiori tensioni strutturali nei suoi quarant’anni di esistenza. I prossimi mesi saranno cruciali. Non solo per la continuità del governo di coalizione, ma per l’intero paese.
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