SPECIALE VENEZIA 70 – “Ana Arabia”, “Under the Skin” e “La mia classe”

Barbara Sorrentini


Racconta Amos Gitai di aver rielaborato le storie di donne e uomini arabi ed israeliani incontrati nel corso della sua vita e già riprese in alcuni documentari precedenti. Ma "Ana Arabia" (concorso) è un film di finzione, frutto di quasi vent’anni di incontri e biografie raccolte sul campo. Girato in una autentica bidonville a Jaffa, la macchina da presa segue in un unico piano sequenza una giornalista israeliana, mentre intervista gli abitanti del villaggio. Sono storie di convivenza pacifica, nate dall’amore e portate avanti con lo stesso spirito. La scelta narrativa, spesso statica, a cui ci ha abituati il regista israeliano, prende azione attraverso le parole e negli spostamenti della protagonista da un luogo all’altro, rinchiuso tra le mura della bidonville. Sguardo necessario, come il tentativo da parte di Amos Gitai di unire attraverso il suo cinema, fazioni separate e in costante lotta in quell’area di mondo,

Se non fosse per la diva Scarlett Johansson, si fatica a trovare il senso essenziale di "Under the skin" di Jonathan Glazer (concorso). Tratto dall’omonimo romanzo di Michel Faber, ambientato in Scozia, protagonista è un’aliena che galleggia tra il reale e l’immaginario, in atmosfere liquide e un pò cupe. Costruito come un noir, soprattutto grazie ad un’ottima colonna sonora che tradisce, positivamente, il passato da video clip maker di Glazer, al film manca una costruzione narrativa, una solida sceneggiatura e si affida alla scappatoia della video arte, mescolata ad un ricco bagaglio visivo. "Under the skin" entra a pieno titolo in quel genere di cinema che non trova una definizione e questo, tutto sommato, è un bene.

Cinema e integrazione è stato il titolo di un incontro pubblico a cui ha partecipato, qui al Lido, la Ministra Cecile Kyenge. Perchè il cinema può e deve raccontare le storie degli immigrati in Italia, dei ragazzi di seconda generazione, le storie positive e quelle terribili che accadono ogni giorno sulle nostre coste. Non sempre vengono rese note, ma il cinema lo ha fatto e continuerà a farlo. Si spera.

Come nel caso del film "La mia classe" di Daniele Gaglianone, presentato nelle Giornate degli Autori. Una storia importante e da conoscere per capire meglio alcune cose ancora poco chiare per troppi italiani.
Il contesto è quello di una classe di ragazzi e adulti stranieri, provenienti da diversi paesi, residenti a Roma. Una classe particolare, in cui si impara la lingua italiana e in cui il maestro interpretato da Valerio Mastandrea insegna questa nuova lingua, senza fare ricorso esclusivamente alle sterili e fondamentali regole grammaticali ma anche attraverso il racconto di storie personali, tristi, dolorose, tenere, malinconiche, narrazione di altri mondi, culture e immagini. Iran, Ucraina, Turchia, Bangladesh, Nigeria, Senegal, Costa d’Avorio, Tunisia, Brasile. "La mia classe" parte come un film di finzione, finché la realtà fatta di leggi arretrate e inadeguate irrompe sul set. Permessi di soggiorno impossibili da rinnovare, minacce di espulsioni coatte, poliziotti intorno alle location e la quasi impossibilità di portare avanti le riprese. La scelta, giusta e necessaria di continuare a girare nonostante le molte difficoltà e con Daniele Gaglianone che dirige davanti e dietro la macchina da presa mettendoci la faccia, rende ancora più complessa, ma non scontata o banale, la narrazione riuscendo a tenere insieme leggerezza e serietà, di un tema non facile da trattare senza cadere in retorica.

(4 settembre 2013)



MicroMega rimane a disposizione dei titolari di copyright che non fosse riuscita a raggiungere.