SPECIALE VENEZIA 70 – “Intrepido”

Barbara Sorrentini



Era dal 1983 che Gianni Amelio non girava un film a Milano. Nel rapporto tra padre e figlio di "Colpire al cuore" si intravedeva il piombo di una pagina italiana legata ad azioni violente guidate dai cattivi maestri, spesso intellettuali e spesso borghesi. Nel 2013 la città non è meno cupa di allora, pur essendo stata protagonista, tra queste due epoche, di enormi trasformazioni urbanistiche, culturali e sociali.

"Intrepido" (concorso) porta i segni di questo cambiamento, soprattutto da un punto di vista sociale e umano, mediato dal lavoro. Se trent’anni fa Milano si affacciava alla sua fase più allegra, edonista, quella della Milano da bere, che poi ad andare a cercare bene non riguardava proprio tutti (in quegli anni l’eroina ha ammazzato più delle bombe); la Milano di oggi nasconde trame nell’ombra, il lavoro non è nelle mani di chi lo svolge, c’è un potere occulto che controlla tutto, come dire che la corruzione e la criminalità organizzata si trovano dietro la porta accanto. Non lo dice, ma lo suggerisce Gianni Amelio. Se ne intravede l’ombra sotto i cantieri in preparazione dell’Expo e nello stesso tempo e con la stessa forza, si avverte una spinta positiva, una nuova architettura della città.

Antonio, interpretato candidamente da Albanese che porta buona parte del film sulle sue spalle, fa il rimpiazzista. Cioè, sostituisce chi per un giorno è assente dalla propria postazione. Operaio, cuoco, tranviere, pony-express, impiegato, netturbino allo stadio, attacca-manifesti, che come una sorta di Zelig vive il suo quotidiano cambiando identità ogni giorno. In questo contesto di eccesso lavorativo, causato dall’assenza di lavoro, Antonio è precario anche nella vita privata. Gianni Amelio lo definisce un anti eroe che resiste. È separato con un figlio che cerca di accudirlo e frequenta una ragazza incontrata ad un test d’ammissione. Un corto circuito relazionale, in cui i padri si trovano sullo stesso piano incerto dei figli. Chi con un passato sgretolato dalla crisi, messo di fronte a chi il futuro se lo deve ancora costruire, ma senza fondamenta. Come una nuvola che cambia forma e dimensioni sotto gli occhi di chi la guarda e basta un soffio di vento per spazzarla via.

L’abbattimento di un confine generazionale c’è anche in "Zoran. il mio nipote scemo" (Giornate degli Autori). Il film di Matteo Oleotto è ambientato in Friuli, tra le due sponde della zona di Gorizia e Nova Gorica. Paolo (Giuseppe Battiston) frequenta le osterie, beve tanto vino e ha un caratteraccio. Quando muore la zia slovena mai frequentata, gli capita in affidamento un giovane nipote, Zoran. Un rapporto che inevitabilmente costringe Paolo a cambiare sguardo, sul mondo e sulla vita. Una commedia, dolce, alcolica e musicale. Con una produzione comunitaria, come la definisce Battiston, che parla lingue diverse.

Per conoscerla meglio, in questi giorni di festival del cinema al Lido di Venezia, il regista e la troupe del film hanno ricreato l’osmiza nel giardino di una villa, offrendo vino e prosciutto a chi passava di lì.

(5 settembre 2013)



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